...eh si, nella via poi ci sono anche i rovesci... |
Si potrebbe trovare una formula, che definisca la probabilità per chiunque si accosti a una pratica sportiva di arrivare a un livello per cui almeno ci possa campare senza lavorare altrove, non diciamo arricchirsi. In questa formula, al numeratore ci sarebbe il numero di professionisti di quello sport, e al denominatore il numero di chi ci si accosta fin da piccolo sognando di diventarne un campione. E alla fine, poiché più popolare è uno sport più crescono sia il numeratore (per via del giro di affari che quello sport riesce a muovere) che il denominatore (per via degli immaginari che riesce a solleticare), il risultato è grosso modo quello, per ogni disciplina: ce la fa non uno su mille, come dice la canzone, ma uno su svariate decine di migliaia.
Si deduce che c'è una cesura estremamente rilevante tra lo sport di vertice e quello di base, e che la quasi totalità degli interessati resterà sempre e comunque al di qua di questa cesura.
Questa affermazione ha tra i suoi corollari uno importante e di estrema attualità: la retorica per cui il campione deve dare il buon esempio e non ricorrere al doping, è solo pastone per le masse di pecore che compongono l'audience del mainstream. La realtà, da sempre (proprio da sempre, olimpiadi antiche comprese, ma in analogia si può arrivare anche ai ludi totemici e ai riti sciamanici), è che chiunque nella pratica di uno sport si avvicini alla soglia del collo dell'imbuto oltre alla quale c'è il professionismo automaticamente si adegua a qualsiasi pratica sia considerata normale in quello sport. E stiamo parlando comunque di almeno centinaia di volte il numero di quelli che oltrepassano il collo: cicloamatori, bodybuilders, calciatori dei campionati minori, eccetera.
Allora mi chiedo: non sarebbe tanto ma tanto meglio, dire finalmente in modo aperto e trasparente che la pratica sportiva professionistica è un complesso di cose tra cui c'è anche un supporto medico di frontiera? se vuoi fare il pilota sai che rischierai la pelle, basta dirlo anche per tutti gli altri sport: è una cosa per privilegiati, ti può dare tanto, ma per provarci devi avere sia il talento minimo necessario a competere che il coraggio di sottoporti a cose che non si sa cosa ti fanno alla lunga. Che poi è quello che già si dice, di nascosto, a tutti. C'è solo da demolire il castello ipocrita dell'antidoping.
Che funziona così. Da una parte ci sono fior fior di medici strapagati per scoprire sostanze e pratiche nuove in grado di far vincere il proprio campione, dall'altro ci sono strutture magari pubbliche dove medici pagati molto di meno aggiornano periodicamente gli elenchi di quelle sostanze e pratiche che sono da vietare in quanto potenzialmente dannose oltre che falsanti la prestazione sportiva. In genere tra i due gruppi c'è un gap incolmabile, un lasso di tempo in cui la sostanza o pratica è ignota all'antidoping e viene usata correntemente. Quando la si vieta, di solito gli atleti meglio assistiti ne stanno già sperimentando un'altra. Una buffonata, utile soltanto a fare ammuina, far sembrare che il governo dello sport fa qualcosa, e a sostenere la narrazione retorica di cui sopra. Un must, per le classi dirigenti di oggi, altrimenti Renzi non sarebbe nessuno, starebbe ancora al bar a prendersi le schicchere dagli amici.
Detto questo, andiamo alla cronaca. Sharapova, positiva a una sostanza che si prescrive nel diabete, fino a dicembre sconosciuta all'antidoping perché prodotta solo sul baltico, ha ragione sulla sua buona fede, ha torto nell'uso annoso di un farmaco senza essere malata, ha di nuovo ragione nell'accusare chi ipocritamente cavalca l'accusa, lanciando una stoccata a chi nella sua carriera di supereroe ogni tanto spariva per mesi per misteriosi infortuni: non si può provare, ma non è fantasioso sospettare che Nadal si facesse male ogni qual volta i suoi medici avevano bisogno di tempo per ricostruire il gap con l'antidoping. Quando l'ho visto affacciarsi alla scena, dal vivo in un infinito incontro con Coria al Foro Italico, ho avuto come tutti la percezione netta che entrambi non potessero fare quello che stavano facendo senza aiutini di qualche tipo: era umanamente impossibile. Coria (assieme a tantissimi altri tennisti, e parliamo di uno sport dove il doping per natura è meno decisivo che altrove) poi l'hanno pizzicato, Nadal no, più pulito o solo più furbo o meglio assistito?
La normativa antidoping attuale va dunque completamente smantellata, e il suo apparato riconvertito in modo che, assieme a quello del doping finalmente emerso, si assembli in una sorta di Farmacologia dello sport 2.0, con l'obiettivo di far si che ogni atleta professionista acceda in condizioni di trasparenza e controllo ad un patrimonio comune di conoscenze, ripristinando così la piena lealtà competitiva, a un livello superiore e con una maggiore attenzione alla salute.
Sono le norme scritte male, e gli apparati da esse derivati, a prestarsi invece alla proliferazione della slealtà, al vantaggio competitivo a chi ha meno scrupoli anche per la salute, e anche alla manipolazione da parte di chi ha interesse a distruggere carriere: come finalmente pare dimostrato, e però chi capiva ha sempre pensato, Pantani era "pulito". Dove le virgolette significano che non è che non prendesse niente (andateci con un'utilitaria, sullo Stelvio, e capirete come non si può fare in bici senza avere nei muscoli sangue denso e ricco come marmellata), ma che non si aiutava in maniera significativamente difforme da tutti gli altri, per cui vinceva perché era più forte, punto (come ai loro tempi Bartali e Coppi, che prendevano la bomba come tutti gli altri, o Moser ai tempi del mitico record dell'ora, ottenuto con l'aiuto di Enervit, Conconi e staff - tutti poi condannati per doping - e probabilmente autoemotrasfusione). Ma se io conosco le norme, e ho interesse alla tua sconfitta (anche solo perché scommetterti contro paga tanto), mi basta far si che tu sfori di uno zero virgola il risultato di un test e ti ho precipitato in un inferno, da cui magari poi tu sei troppo fragile per risalire.
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Parlare di inferno mi ha fatto venire voglia di coccodrillo. Passando a un mondo dove magari non è obbligatorio drogarsi, come nello sport professionistico, ma è stato spesso e volentieri consuetudinario, e magari (come si fa a escluderlo?) utile: la musica pop e rock. Eppure lì lo step mentale mancante nello sport la percezione comune lo ha fatto: nessuno ha mai pensato di "squalificare" Meddle perché i Pink Floyd quando l'hanno composto erano tutti drogati, per fare un esempio di millanta che ne verrebbero in mente. Tra cui, per dire, Teddy Reno, il signor Rita Pavone, quello che cantava Malafemmena nel film di Totò.
La misura è tale che a fare notizia era chi, magari circondato da tipi avvezzi ad ogni sostanza, non aveva bisogno di additivi esterni per accedere al proprio lato oscuro. Come pare sia il caso di uno che in questi giorni ci ha lasciato, e lo ha fatto perché ha voluto farlo, ha preferito farlo piuttosto che vedersi impossibilitato a suonare, in questi giorni.
Eppure a vederlo suonare, Keith Emerson, pareva davvero un posseduto, per cui a nessuno sembrò strano, all'epoca, che fosse proprio lui a comporre e suonare la colonna sonora di Inferno di Dario Argento. Averlo visto su un palco, dietro a un muro di aggeggi elettronici mai visto prima e mai più dopo, è una di quelle esperienze che poi se i ragazzi di oggi persi appresso ai talent show e ai loro idoli li guardi con pena e commiserazione non è che sei vecchio, no, è che sai maledizione che sei stato molto più fortunato di loro.
Stiamo parlando, senza mezzi termini, del più grande tastierista della storia del rock, e di uno dei più grandi pianisti tout court del novecento, uno che veniva dalla classica e ci aveva mischiato per primo il rock, e poi aveva suonato tutto, perfino il ragtime jazz, con cui divenne noto in Italia e lo sentii io per la prima volta da ragazzino in TV. Un paio di anni dopo, entrato nel magico ed irripetuto mondo delle radio libere, mi andai a cercare i vinili degli ELP, in una teoria e pratica dell'archeologia musicale che non avrei più abbandonato. E a un certo punto, alla mia prima trasmissione "vera", dovendo scegliere una sigla, andai quasi in automatico sul gioiello che vi lascio in ascolto. Prendetevi il tempo necessario, amici di Radio Reggio DLF, inizia anche oggi Dimensione cantautori, io sono Gino, loro sono gli Emerson, Lake and Palmer, e questa è Fanfare for the common man...
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