giovedì 30 aprile 2020

RADIO CIXD 18 - I DO NOT WANT WHAT I HAVEN'T GOT

Il disco di oggi è del 1989, i CD si erano definitivamente affermati ma li potevi noleggiare, ascoltare, eventualmente registrarti la musicassetta, poi quando ti eri fatto il pc col masterizzatore copiarti il CD, e restituire avendo speso 2 o 3 mila lire. Man mano che il disco veniva noleggiato e "invecchiava", il prezzo del suo acquisto scendeva, e potevi cominciare a valutare se magari spendendo 7 o 8 mila lire te lo tenevi usato, che era sempre meglio delle 20 o 25 che costava nuovo, cifra che non avevi, perlomeno non moltiplicato tutti i dischi che ti interessavano, e che comunque non avresti mai speso per un artista di cui non fossi stato certo a priori che ti piaceva tutto il disco. Con questo strano meccanismo, che facilitava l'esplorazione agli utenti e l'emersione agli artisti e i ventenni di oggi manco immaginano, l'industria discografica poté portare al successo una generazione intera di artisti che oggi sono di mezza età ma ancora sulla breccia, vent'anni dopo quella portata sulla breccia dai vinili le cassette e le radio libere (oggi anziani milionari, quelli ancora in vita), e vent'anni prima della generazione che si fa strada tra social e spotify e fa più soldi dai concerti che dalla vendita dei dischi, come forse è persino più giusto.
E' così che io sono in possesso di un CD originale con la faccia bellissima di una giovanissima Sinead O'Connor, e non invece di un vinile originale che sarebbe stato ancora più bello guardarsela, tanto era più grande. La ragazza era al secondo disco, e anche il primo aveva un paio di picchi niente male, e raggiungeva con questo un livello complessivo che non avrebbe più nemmeno sfiorato, e che a detta di molti lo collocano nella top 10 almeno di tutto il decennio. Dopo, l'abbiamo vista cantare Mother con Roger Waters sulle macerie del Muro di Berlino, strappare in diretta TV la foto del Papa per protesta contro gli insabbiamenti da parte della Chiesa cattolica romana dei casi di pedofilia del clero irlandese, farsi suora anzi no proprio prete, dichiarare di voler salvare Dio dalla religione, confessarsi bipolare, postare sui social ultimi messaggi da suicida senza poi suicidarsi (dinamica tipica, questa, anche se purtroppo con qualche eccezione), convertirsi all'Islam e sparire dalla scena pubblica. E ogni tanto tornare con un disco con dentro qualche perla, e con qualche concerto appassionante. Stereotipi a parte, tutto in linea col profilo di un'artista vera, che tutti noi che l'abbiamo vista agli esordi e abbiamo in casa quel CD con la sua faccia in copertina, tornasse in tournée domani (cioè, domani no, c'è la fase 2, facciamo alla fase 3, sempre se non si torna prima alla 1) saremmo pronti a sganciare, per sentire di nuovo quella voce straziante uscire da quel viso sofferto e ancora bellissimo (probabilmente sarà bellissima anche da vecchia, con quei lineamenti), e raccontarci che no, non vuole quello che non ha.
Ma già allora si intuiva lo spessore intimo insondabile della ragazza, trasferito in un disco che a definirlo pop sofisticato autorale si rende solo vagamente l'idea. Bisogna ascoltarlo tutto, e non si fa fatica, perciò stavolta vi fornisco il tube per l'ascolto integrale, mentre la tracklist commentata ce la faccio girare attorno.

  1. Feel So Different - Ci aveva avvisato, che era diversa, con questa sorta di preghiera emotiva in cui lo capisce anche chi non sa una parola d'inglese, da come lo ripete in coda al brano.
  2. I Am Stretched on Your Grave - Sinead qui mette in musica (dimenticavo, è autrice di testi e musica in quasi tutte le tracce) un testo tradizionale irlandese in cui chi parla è inconsolabilmente disteso sulla tomba della persona amata, e lo fa rendendone palpabile il dolore.
  3. Three Babies - Un brano interlocutorio, la voce è di una madre accorata, che contribuisce a farvi colpire a tradimento dal brano successivo.
  4. The Emperor's New Clothes - Un capolavoro - l'ho pure già citato in un post anni fa - ispirato a un altro capolavoro, una notissima novella del cupo Andersen (si, quello della Sirenetta, ma non pensate alla disneyana Ariel, quella originale fa una fine peggiore della piccola fiammiferaia). Inoltre, fu spinto da un videoclip strepitoso, in cui la Nostra balla scalza una danza ipnotica indimenticabile.
  5. Black Boys on Mopeds - Pezzo politico antirazzista e antithathceriano, cantato come una ninna nanna a fare da intermezzo tra due shock.
  6. Nothing Compares 2 U - Si lo so che forse lo sapete, il pezzo è di Prince. Ma lui non lo aveva nemmeno scritto per se, e non essendo che uno dei millanta lenti che parlano d'amore sarebbe passato liscio alla storia della musica. Dove è invece scolpito indelebilmente, e infatti lo conoscete tutti, e a ciascuno sembra che parli di una storia propria, solo grazie all'interpretazione oconnoriana.
  7. Jump in the River - A Roma dicono "buttate ar fiume". Se ci state pensando non ascoltate questo brano...
  8. You Cause as Much Sorrow - ...potreste causare tanto dolore da morti quanto ne avete già causato da vivi!
  9. The Last Day of Our Acquaintance - Due stanno per separarsi, hanno appuntamento dal giudice o roba del genere; la voce narrante si chiede ancora com'è che è finita, e intanto si dice che sa già che parlerà ma non sarà ascoltata, e che conosce già le risposte (il tutto con una musica che parte piano e poi saltella incongrua, a sottolineare il momento incongruo che tocca vivere). Alzi la mano chi non può immedesimarsi...
  10. I Do Not Want What I Haven't Got - ...e chi non vorrebbe invece poter chiudere la sua vita, come Sinead il suo disco, dicendosi francamente che ha tutto quello che vuole, e quello che non ha non lo vuole. Amen.
La messa è finita, andate in pace. Perché questo è l'ascolto completo di questo album: un'esperienza dentro se stessi, a tratti religiosa. A essere bravi, ci si leggeva il futuro di questa ragazza, fuori di testa sul serio come solo i veri artisti sono, mentre quelli finti fingono di esserlo.

sabato 25 aprile 2020

LIBERAZIONE? MAGARI...

Esatto: gira gira, non è che una enorme palla di mmerda...
Niente, il post definitivo sul coronavirus deve ancora aspettare: cresce come una palla di scarabeo stercorario, ed ha già superato le dimensioni compatibili con la soglia dell'attenzione anche dei lettori più interessati e pazienti. Facciamo che intanto vi butto li cosette più fruibili e legate all'attualità, e poi vediamo.
Oggi è il primo 25 aprile, dopo quello in cui avvenne la cosiddetta Liberazione dal nazifascismo, che si celebra senza gente nelle piazze. Sono riusciti anche ad attuare quello che è stato per decenni il sogno di alcuni nostalgici.
Guardate cos'è andato a scovare Diego Fusaro
tra i tweet del 25 aprile dell'anno scorso...
Chissà se l'anno prossimo torneremo a cantare Bella ciao saltando (perché chi non salta Berlusconi è) assieme nelle piazze e spingendoci l'uno con l'altro per arrivare primi al panino con la salsiccia! Sono scettico, c'è una nuova classe di sciacalli che ha assaggiato il sangue del potere (come in una sorta di replica in grande del famigerato esperimento di Stanford) e non lo mollerà facilmente: intanto nella fase 2 si potrà fare solo ciò che si può fare con guanti e mascherina e a due metri di distanza (scordatevi di andare a ballare o assistere a un concerto nel vostro solito localino), poi arriva l'autunno e se non vi vaccinate (di un vaccino che non servirà a niente, perché intanto il virus sarà cambiato) e non vi fate tracciare (l'app Immuni, o quella che sarà, farà le funzioni del giuramento di fedeltà al Duce, vedrete: preparatevi a perdere il lavoro, se non la installate e così accettate anche il rischio di venire arbitrariamente separato dai vostri cari) siete fuori dal consesso civile o quello che ne resta, ma occhio che hanno già messo le mani avanti e dichiarato che la pandemia con l'autunno potrebbe riproporsi, e anche se non fosse, visto che i numeri, nonostante i pompaggi e le manipolazioni statistiche, continuano a restare assolutamente all'interno di uno scarto statisticamente normale rispetto a quelli delle influenze di tutti gli anni, se l'anno prossimo faranno o non rifaranno la stessa manfrina dipende solo da un fattore: se avranno il potere o la voglia o l'interesse di farlo. Perché se e quando lo avranno, una qualsiasi influenza produce dei numeri sufficienti da consentirglielo. Ma ricordatevi una cosa, ficcatevela in testa: se lo avranno, è perché glielo avete lasciato voi. I nostri avi, quelli che il 25 aprile lo hanno fatto, avrebbero messo in gioco la vita pur di non consentire a chicchessia di sopprimere quelle libertà personali che avevano messo in gioco la vita per conquistarle.
Oggi si può solo sognare, di arrivare in piazza e ascoltare qualcuno che dice la verità. Quei quattro gatti, tra cui mi arrogo di annoverarmi pur avendo dimensioni infime, che hanno continuato a farlo in questi due mesi sono stati o ignorati o derisi o tacitati, con preferenza verso quest'ultima opzione ovviamente per quelli che avessero un'audience potenziale meno che irrilevante, come è il caso della webTV di cui vi mostro un estratto in fondo. Ma la controinformazione in toto raggiunge lo zero virgola della popolazione, l'informazione ufficiale tutto il resto, e quando è monocorde come mai si è vista (come in questo caso), si può solo sorridere beffardamente quando proprio quel TG che si fa pubblicità con "le notizie sono una cosa seria" titola sul proprio sito "morto Sepulveda, l'autore di Cent'anni di solitudine" (sic!), ma per il resto ad ascoltarla col cervello acceso ci si fa il sangue acqua, dalla rabbia.
Ad esempio, dopo i balletti sul MES, avete tutti sentito in tutti i TG che finalmente l'Europa cambia e sgancia (quanto hanno detto?) 500 miliardi di Euro. Ebbene, non è vero. Non si tratta di quello che servirebbe: erogazioni a fondo perduto. Sono prestiti (che peraltro avremo dal 2021, quando i soldi cash ai danneggiati servirebbero oggi, anzi ieri) che dovremo restituire. E intanto dobbiamo rimpinguare il relativo fondo, indovinate come: conferendogli soldi e quindi aumentando il nostro debito. Conte, coi suoi proclami trionfali a reti unificate, per vederlo sbugiardato dobbiamo andare a sentire un TG tedesco. Perché? Perché la linea del rigore verso di noi in Germania porta consensi, la Merkel è rifiorita. O muore l'Unione Europea o muore l'Italia, ecco cosa sogno io: sentire questa frase da un politico in un telegiornale. E' vero da sempre, ma ora è evidente. Solo che dobbiamo sperare che lo dica Macron, perché da noi il monoblocco è granitico e ingloba pure i grillini, che erano arrivati al 33% anche grazie al dichiarato euroscetticismo. Avessimo avuto uno Stato sovrano, avremmo speso qualche decina di miliardi nella sanità negli anni passati, anziché demolirla, ma bastava anche attrezzarsi come si deve da dicembre a marzo per essere in grado di gestire le polmoniti (che poi forse sono embolie ma una volta partita la fabbrica della Verità è difficile pure cambiare rotta in corsa - chissà se lo hanno almeno letto il rapporto "eretico" dei 735 medici dell'Anpas) senza un solo giorno di lockdown generalizzato. Quindi senza distruggere economicamente e socialmente il Paese.
Oggi leggete di deficit oltre il 10% e rapporto debito/PIL al 155%, e siamo solo alle prime stime. Ieri, se ve lo ricordate, il governo gialloverde ha rischiato di cadere perché osava passare dal 2% al 2,5%. Abbiamo ancora L'Aquila e Amatrice rase al suolo, perché non si poteva spendere in deficit. Quanti eravamo a dire che invece si poteva, e anzi si doveva, varare una manovra in deficit intorno al 10% per salvare l'Italia, e se la UE non ce la consentiva bisognava uscirne nottetempo senza annunci e senza esitazione? Oggi arriviamo a quei numeri, ma attraverso il calo del denominatore: un drastico abbattimento del PIL causato da un fermo assurdo che per alcuni tipi di attività si protrarrà, per altre avrà ripercussioni esiziali, e molte le ha già uccise. Invece si doveva e si poteva arrivarci per la strada opposta, l'aumento del numeratore: una spesa in deficit per investimenti fatta l'anno scorso, massiccia, avrebbe causato un aumento del PIL di alcune volte tanto (il famigerato moltiplicatore keynesiano), quindi l'abbattimento di deficit e rapporto debito/PIL per maggior aumento del denominatore, senza contare l'effetto diretto sull'abbattimento del deficit del corrispettivo aumento delle entrate fiscali. Cose che leggete da anni, su queste pagine e su quelle di pochi altri siti più grossi di questo, ma mai su un giornale mainstream.
Allora, se uno sospetta che lo hanno fatto apposta, ad approfittare di un virus influenzale un pochino più pericoloso della media, per finire di distruggere la piccola e media impresa italiana, svuotare il concetto stesso di democrazia, e creare le precondizioni per aggredire il risparmio degli italiani, quel qualcuno non è un complottista, secondo l'etichetta di comodo inventata per screditarlo (si fa da sempre, con i nemici), è solo uno che ancora ragiona. E complottista in italiano dovrebbe voler dire colui che i complotti li fa, non chi cerca di scoprirli e sventarli. Ebbene, è ora che in Italia lo si dica ad alta voce, quello che i mitteleuropei tra loro se lo dicono da anni: che gli italiani sono troppo ricchi, tra soldi da parte e questo vizio della casa di proprietà. Hanno fatto l'eurozona apposta per impoverirci, stringi stringi. Ma ognuno ha diritto di fare i propri interessi, il problema sono i collaborazionisti italiani che glielo hanno consentito, ingannandoci per anni, così da tenerci fermi mentre ci inchiappettavano. Qualcuno comincia già a redigere delle liste: sarebbe da loro, che bisognerebbe liberarsi.
Gli ultimi traditori di una fila troppo lunga sono proprio i parlamentari grillini, accodati docilmente ai piddini nello sfacelo in cronaca. Fino a ieri mi chiedevo: come è possibile che tra di loro non ci sia almeno qualcuno con un briciolo di dignità? Oggi, grazie a Byoblu, uno di quei siti che il Ministero della Verità prima o poi chiuderà, ho saputo che non è così. Ed è un bel 25 aprile, se mettete l'audio al massimo e vi gustate questo intervento alla Camera di una eletta col M5S uscitane per restare fedele a se stessa:

martedì 21 aprile 2020

RADIOCIXD 17: THE DREAM OF THE BLUE TURTLES

Ne abbiamo parlato altre volte: ci sono gruppi musicali che hanno vita breve perché c'è uno che spicca troppo come leader, specie quando la cosa è qualitativamente immeritata. L'esempio dei Police è da manuale: un grande chitarrista che ha inventato uno stile a metà tra reggae e rock trasportando quest'ultimo fuori dal punk, un batterista strepitoso che ha fatto tendenza per un decennio prima di intraprendere un percorso di ricerca che lo porterà perfino a fare più volte il mastro concertatore della Notte della Taranta in Salento, e un bassista ok passabile ma con una presenza scenica e una voce da popstar, non potevano fare più della manciata di album che hanno fatto. Ma non è detto che ciò sia un male: la discografia dei tre è di un livello medio altissimo, forse proprio grazie allo scioglimento precoce della band. Subito dopo il quale, nessuno di noi si aspettava che fosse proprio mister Gordon Sumner alias Sting, pungiglione, per via dei maglioni all'apemaia che indossava sul palco da giovane, a partorire un disco "completo" come The dream of the blue turtles.
Perché d'accordo che il personaggio è discutibile come tutte le icone pop, d'accordo che col suo presunto impegno politico da VIP (ridicolo come quello di tutti i VIP) con la villa che fa provincia si è ampiamente meritato gli sfottò (tra cui memorabili quelli di Faber e degli Elii), d'accordo che dopo questo disco ha imbroccato si è no le canzoni buone per un altro (su una quindicina che ne ha fatti, tra un duetto e l'altro tra i quali per una volta quello con Pavarotti non è il peggiore: Moio pe tee con testo di e cantata con Zucchero fa pensare a Rocky Roberts di Stasera mi buccio come a un accademico della crusca), e d'accordo pure che questo disco stesso è, ad analizzarlo bene, alquanto ruffiano. Ma cacchio come suona bene, anche 35 anni dopo, cacchio che livello medio di scrittura, e cacchio che picchi! Sting può anche risultare antipatico, anche se mai come Bono, ma questo è il suo capolavoro. E parve chiaro a tutti anche 35 anni fa, maneggiando il vinile - io stavolta del mio amico Saverio (ci si divideva gli acquisti, con gli amici, e registrava le cassette; ancora non era nemmeno tempo di masterizzatori e CD pirata), che si stava ascoltando un disco che avrebbe fatto epoca.
Stavolta per l'ascolto massivo vi metto il link alla playlist di youtube music, facile da gestire, mentre come al solito segue l'elenco delle tracce con tanto di video da mandare mentre leggete le mie notarelle a fianco.

1. If You Love Somebody Set Them Free
Ruffiana il giusto, la traccia scelta per aprire il disco ti resta in testa da subito, e anche le parole sono di quelle che restano scolpite nella mente. Purtroppo solo di chi non intende l'amore come possesso e controllo, viene da pensare con un occhio alla cronaca dei decenni successivi...
2. Love Is The Seventh Wave
Smaltito l'impatto coi jazzisti, il secondo brano ti rassicura: è ancora il buon vecchio reggae-rock dei Police, seppure suonato diversamente. E non sarà l'ultimo a farlo...
3. Russians
L'abbiamo tutti imparata subito a memoria, noi ragazzi che crescevamo sotto la minaccia che l'escalation degli euromissili portasse alla fine del mondo. La sappiamo ancora, agli anziani capita. Ma riascoltata con attenzione a distanza, quanto è stronza e parziale la visione sottesa (alla luce degli avvenimenti che avremmo visto da li a poco, poi!): don't worry, cachiello, i russi li amano i loro figli. Forse più di noi...
4. Children's Crusade
Il brano sarebbe una parentesi, se non ci fosse nel mezzo un assolo di Brandon Marsalis, il più talentuoso del manipolo di musicisti uno più talentuoso dell'altro che suonano in questo disco (e con Sting in questo periodo)
5. Shadows In The Rain
E' un vecchio pezzo dei Police, ma grazie all'arrangiamento jazz stenti a riconoscerla, tanto suona strepitosa. E il testo è da farne un quadretto e appiccicarselo al muro.
6. We Work The Black Seam
Ci fu uno sciopero dei minatori britannici in quel periodo, uno degli ultimi sussulti di quella working class che il thatcherismo stava spazzando via (per fare lo stesso con la piccola impresa ci è voluta una dittatura sanitaria, qual'è peggio fate voi...), e Sting non ha voluto perderselo...
7. Consider Me Gone
Altro testo da manifesto (con accompagnamento all'altezza): "...ho speso troppi anni in una guerra a me stesso, il dottore mi ha detto che non è buono per la mia salute - cercare la perfezione va benissimo, ma voler trovare il paradiso significa vivere qui nell'inferno". E chest'è!
8. The Dream Of The Blue Turtles
La title track non è che un brevissimo e velocissimo intermezzo jazz. Con tanto di risata negra finale...
9. Moon Over Bourbon Street
E' ispirata a un famoso libro da cui è stato tratto un famoso film (Intervista col vampiro), e si sente. Sting già studia da crooner, ma qui la sua interpretazione è di alto livello.
10. Fortress Around Your Heart
I Police sono morti, viva i Police! E' stato detto che il brano non avrebbe sfigurato in Synchronicity, ma non esageriamo: è la nostalgia che parla per noi...

Tre anni dopo, con un altro amico di nome Saverio, vedi tu, andavo al concerto di Sting al vecchio Stadio delle Vittorie di Bari, mi pare fosse uscito da poco l'album seguente, un live strepitoso, e da giovane certe cose vuoi vederle coi tuoi occhi, magari sul prato davanti al palco. Ma l'ingresso al parterre era ambito, e regolato da tornelli di ferro alti e stretti, adiacenti alle mura dell'impianto: delle specie di gabbie da tortura da cui si passava uno per volta. Mentre migliaia premevano e ti schiacciavano verso il cemento, fino a che non sguisciavi dentro ammaccato e senza fiato ma vivo (miracolosamente non si fece male nessuno). Un incubo di tale portata che l'ho ricordato come tale per decenni, evitando da allora calche del genere, che poi crescendo pensi pure che se arrivi per ultimo vedi bene lo stesso, e più in là pure che sono cose per giovani e non ci vai più. Chi me lo doveva dire che oggi, pensando a quando, se mai accadrà, potremo mai più accalcarci da qualche parte, mi sarebbe toccato ripensarci con nostalgia!...

giovedì 16 aprile 2020

ALLA FINE DEI CONTI

No, non è un banner di qualche mese fa,
ora vediamo se hanno ancora un briciolo
di dignità e fanno cadere il governo! Io
temo di conoscere già la risposta...
Sto cercando di trattenermi dallo scrivere ancora di Covid19 ma proprio non si può, la realtà va più in fretta dei tempi di un blog amatoriale: in un post messo in freezer qualche giorno fa tentavo di delineare alcune ipotesi sul perché mai il governo giallorosa avesse deciso di distruggere l'economia e la democrazia in Italia cogliendo la palla al balzo in arrivo dalla Cina, dal momento che non sono certo i numeri della epidemia a giustificare un danno così enorme (andiamo verso i mille miliardi di euro, se mai saremo in grado di contarli davvero). La verifica delle ipotesi in questione era subordinata al verificarsi o meno di alcuni avvenimenti. La richiesta dei fondi del MES da parte di Conte, superando le rimostranze a questo punto direi di facciata di una maggioranza di grillini ormai consapevole della loro condizione di parlamentari transeunti da far quindi durare il più possibile che quando gli ricapita, dopo giorni di tira e molla che si può dedurre sia stato solo teatro, e dopo il placet ufficiale nientemeno che di Berlusconi in persona, rende inutile lo snocciolamento delle stesse.
Mi sono montato la testa, mi pasolinizzo. Non lo posso dimostrare, ma lo so. Il Paese era ancora troppo vivo perché subisse ancora le mazzate del potere eurocentrico senza reagire, ci volevano mazzate più toste. Billino nostro lo aveva suggerito già da qualche anno, cambiando bisinisse: la storiella dell'economia come scienza superiore e quindi praeterpolitica non se la berranno ancora a lungo, e quella dell'ambiente del riscaldamento globale insomma quella Greta li non ci credono che quelli che hanno la casa in centro e si sentono fighi con la bici elettrica, no, la prossima dittatura mondiale avrà base sanitaria.
Umanisti per #salutedirittouniversale - Adesioni a questo link
info: salutedirittouniversale@gmail.com
L'altro giorno ho firmato e poi condiviso su Facebook la petizione Salute Diritto Universale segnalatomi dall'amico Sandro Curatolo, che sia come umanista che come musicista seguo da anni. L'ho fatto volentieri, ma con qualche scetticismo, un po' in generale verso tutte queste organizzazioni che si occupano di raccogliere petizioni online (sicuramente c'è già in Rete chi seguendo i soldi ha scoperto chi tiene le fila di ciascuna di esse, un giorno o l'altro me lo cerco e ne parliamo), ma un altro bel po' proprio per via delle ipotesi peggiori tra quelle allora ancora secondo me aperte. Sandro, se anche firmassimo in sessanta milioni, non ce lo faranno fare mai, di rendere la sanità pubblica forte al punto di essere in grado di assorbire la prossima epidemia senza che sia non dico necessario, che non lo era nemmeno stavolta e lo penso ogni giorno di più a dispetto di tutti i telegiornali terroristi di merda (ecco cosa dovrebbe dire un giornalista serio), ma giustificabile per qualsiasi governo di commettere misfatti come quelli in cronaca. Sarebbe bastato investire qualche decina di miliardi negli ultimi anni, nel settore, anziché bersagliarlo di tagli e chiusure. E invece oggi servirebbero centinaia di miliardi, e cash, per riportarci al punto di partenza. Ma l'Europa, che negli ultimi anni ne ha regalati migliaia alle banche, nel presupposto mistificatorio che tramite esse sarebbero entrati nell'economia reale, non ce li darà, né come Eurobond né tantomeno in contanti come sta facendo Trump in America o Johnson in Gran Bretagna. Ce ne darà, se facciamo i bravi e sottostiamo alle condizioni, che poi ce le hanno pure alleggerite, per ora, la miseria di 35, che non bastavano nemmeno se il lockdown della fissadimown fosse durato una settimana scarsa.
Ma la colpa è anche mia. Ho creduto, agli uomini di mezza età capita, a una forza politica emergente che prometteva di attuare una rivoluzione gentile, e a mia parziale discolpa devo dire che i programmi, le facce nuove giovani e pulite, finalmente selezionate per criteri diversi che non l'amicizia degli amici e il pelo sullo stomaco, financo i primi passi nei palazzi del Potere, erano tutti segnali che andavano nel verso giusto. Dovevo ricordare la lezione della Storia: tutte le rivoluzioni, anche le più gloriose e imperiture, finiscono con una dittatura. Figurarsi una rivoluzioncina appena accennata, e senza nemmeno una testa gloriosa mozzata, come questa. Cari italiani, che sopportate questo sopruso convinti che sia per il vostro bene, devo dire che vi sta bene. E ho una certa invidia per chi avendo vent'anni in più gli può capitare di prendere un virus e morirne. Io, che quest'anno non ho nemmeno preso il mio solito raffreddore da stroncare con una bella partita a tennis, vi devo ancora sopportare.

P.S.
Ho letto una notiziola che forse è il caso di approfondire. Pare che il tasso di mortalità superiore a quello delle influenze stagionali medie (seppure enormemente inferiore a quello delle epidemie davvero epocali, non dimentichiamolo), sia dovuto proprio al fatto che si è scambiato per polmonite virale qualcosa che invece era di natura vascolare, e curando l'embolia con farmaci la gente si salva mentre intubandola muore. Non ho le competenze per giudicare nel merito sanitario, ma se questa teoria fosse giusta, cosa si dovrebbe fare alla catena di comando alla fine dei conti?
...
E ora seguite i link qui sotto, cabrones, che tanto non avete niente da fare, e male non vi fa:
  • Socci (ma dimmi te cosa mi tocca fare, citare Socci!), ovvero come un personaggio destinato a passare liscio sia riuscito a spese nostre a finire sui libri di Storia;
  • Medium.com, riportato da Libreidee, ovvero a dispetto dalle liti apparenti USA, Russia e Cina starebbero per innescare una vera rivoluzione monetaria (proprio mentre noi anziché approfittare della catastrofe per affrancarci, ci leghiamo mani e piedi al carrozzone eurocentrico in procinto di affondare);
  • Benozzo, riportato da Franco Cardini, ovvero una intervista che dovreste leggere e rileggere (alternandola con questo post lapidario di Massimo Fini) e poi mandare un pensiero al vostro umile blogger che tenta di dirvi le stesse cose da oltre un mese.

lunedì 13 aprile 2020

YOSS 2: TESTA CHINA SUL PIATTO

E' il secondo racconto di questa nuova rubrica, Your Own Short Stories, a cui vi rinnovo l'invito a partecipare: aprite i cassetti, non abbiate pudore, se serve cercatevi uno pseudonimo, e scrivetemi. Non rende niente, ma non costa niente. Ed è meglio che stare sul divano davanti alla TV o a cucinare e stramangiare, che a fine arresti domiciliari saremo tutti obesi. Aspetto anche la risposta esatta al quesito relativo al nesso logico tra i titoli del mio Sushi marina, ma dovreste almeno averne una copia e mi sa che non siete in tanti.
Anche questa storia ha la caratteristica di "commuovere", etimologicamente suscitare in noi una emozione analoga a quella che ha spinto l'autore a scrivere, in quanto a tutti evoca un ricordo in qualche modo simile. E' una delle funzioni della letteratura: quando qualcosa che leggiamo ci piace, è spesso perché dice una cosa che anche noi abbiamo dentro, ma in un modo che maledizione è così bello che vorremmo averlo trovato noi. Quando è così breve ed efficace l'invidia è doppia, ma non riesce comunque a raggiungere la gratitudine. Grazie, Lè, aspettiamo il prossimo. E voi tutti, fatevi sotto.

Testa china sul piatto

di L'Elio

Testa china sul piatto a capo tavola, all'altro capo con altrettanta testa china mio padre. Silenzio assordante, quasi imbarazzante interrotto dal tintinnio delle posate sui piatti.
Prendo coraggio ed affronto, con l’intento di imbastire uno straccio di conversazione, l’unico argomento su cui qualche volta siamo riusciti a comunicare: la squadra di calcio del Napoli.
“Hai visto la campagna acquisti del Napoli? Mi pare buona, hanno comprato un paio di giocatori decenti, vero?”.
Immobilità totale, nessuna risposta.
Comincio a sudare freddo e a sentire la solita sensazione di oppressione al petto messaggera della moltitudine di sentimenti negativi che mi assalgono quando mi capita, anche solo per un momento, di confrontarmi con mio padre, dai sensi di colpa all'impotenza passando per i vari complessi di inferiorità.
Sto per alzarmi dalla tavola e scappare via, nella speranza assurda che le mie parole non siano state sentite, quando il capo di mio padre lentamente comincia a muoversi, come un girasole che volge il suo sguardo verso la luce del giorno, i suoi occhi penetrano, affilati, i miei ed una voce rauca tossisce:
“Tu, rivolgimi la parola quando sarai diventato veramente un uomo”. 
Avevo vent'anni ed avevo deciso di partire per una stagione da animatore turistico in Sardegna insieme ad altri amici piuttosto che sostenere l’esame di diritto privato come si sarebbero aspettati i miei genitori, i quali reagirono in modo diverso rispetto a tale decisione: mia madre mise in scena una performance degna delle più struggenti sceneggiate napoletane di meroliana memoria, mentre mio padre adottò una vera e propria risoluzione di embargo nei miei confronti in quanto stavo venendo meno all'impegno da me assunto, davanti a Dio e agli uomini, nel momento in cui mi ero iscritto alla facoltà di giurisprudenza.
Sul traghetto verso l’agognata Sardegna i miei amici facevano festa bevendo e scherzando, io trascorsi tutto il viaggio sul ponte della nave guardando con occhio lobotomico il mare, delirando sull'efferatezza del “crimine” che stavo perpetrando.

Sono passati vent'anni da allora, io sono sempre ad un capo della tavola e tu, babbo, all'altro capo, ma questa volta ti guardo mentre con mani tremanti stai sbucciando una mela.
Ricambi timidamente il mio sguardo con occhi tondi e umidi.
Vorrei parlarti di me, delle mie aspettative, delle mie delusioni, finanche dei miei amori, di quanto sia stato difficile ma, al tempo stesso, affascinante cercare di comprendere qualcosa della mia vita anche attraverso la tua.
Vorrei chiederti se ricordi quella sera di vent'anni prima e le parole sferzanti che mi dicesti quella volta e altre volte ancora.
Vorrei immergermi con te in un fiume purificatore che ci consenta di mondare le nostre anime dalle ferite e dalle remore profonde che hanno sempre impedito una vera comunicazione tra di noi. Ma dopo un finto colpo di tosse riesco solo a chiederti:
“Hai visto che bella partita ha giocato il Napoli domenica scorsa?”

sabato 11 aprile 2020

RISURREZIONE

Ma ci avete mai pensato quanto sarebbe mostruoso, se davvero
esistesse, un dio che per affrancare il suo popolo ammazza tutti
i primogeniti dei presunti oppressori, distinguendo le case dei suoi
per il fatto che hanno bagnato le porte col sangue di agnelli (The
silence of the lambs
, il silenzio degli agnelli, vi ricordate il titolo
italiano?), che ancora oggi è usanza mangiare a Pasqua? Dài,
Loki degli Avengers non è così carogna. e Thanos non è un dio.
La Pasqua è una festa antichissima. Le nuove religioni hanno sempre usato, nell'affermarsi, lo stratagemma di non vietare le celebrazioni dei culti che intendevano soppiantare stabilendone altre in altri giorni, ma di fissare le proprie celebrazioni esattamente nei giorni in cui avevano luogo le precedenti, di modo da poterle sostituire senza soluzione di continuità (eventuali fedeli dei vecchi culti festeggiano assieme a quelli dei nuovi, finché i primi non si estinguono): ve ne ho già parlato a proposito del Natale..
I cristiani, infatti, quando hanno scritto (da parecchi decenni a un paio di secoli dopo gli avvenimenti) le storie fondative della loro religione, ovverossia le vicissitudini del sovversivo sedicente (anzi no, lui diceva "tu l'hai detto", pare) Messia su cui intendevano fondarla, hanno ambientato le vicende relative al suo imprigionamento, alla sua esecuzione alla maniera romana ed al trafugamento del suo cadavere, durante l'importantissima festa ebraica della Pasqua, che da allora per "noi" è la celebrazione della sua morte e risurrezione, ma per gli ebrei era già e resta ancora la celebrazione della (sanguinosa, vedi didascalia della foto) fuga dall'Egitto del "popolo eletto" appresso a Mosè.
Ma la festa è ancora più antica, e lo dimostra al limone il fatto che essa è fissata non secondo il calendario solare, ma secondo quello lunare, utilizzato dagli umani fin da quando diventarono agricoltori e allevatori stanziali da cacciatori e raccoglitori nomadi che erano (la storiella viene efficacemente rappresentata nella novella di Caino e Abele - da noi, che altri popoli hanno le loro storie), per migliaia di anni fino alla comparsa dei calendari solari, ma anche oltre se pensiamo a come ragionavano i nostri nonni contadini. Infatti rispetto al calendario solare la Pasqua è mobile, cadendo invece sempre la prima domenica dopo il plenilunio di primavera. Arrivava la buona stagione, e calcolare la luna piena indicava chiaramente cosa seminare prima e cosa dopo, e siccome era la prima della buona stagione bisognava segnalarla con una festa, e perché no festeggiare era anche di buon auspicio per il raccolto.
La coincidenza singolare che dalla settimana prossima i nostri signori e padroni abbiano deciso che si può concedere a chi lo voglia di tornare ai suoi campi, ci dà il destro per festeggiare anche una Pasqua laica. Resurrezione, liberazione dalla schiavitù, o fischio d'inizio della buona stagione agricola che sia, la metafora gira gira è sempre la stessa, e casca a fagiuolo in questi tempi grami.
Più passa il tempo, più i numeri di questa cosiddetta pandemia danno ragione, purtroppo, a chi fin dall'inizio ha, non dubitato della gravità di alcune sue implicazioni sanitarie, ma ritenuto che le misure di contrasto rispondessero a ben altre logiche che quelle dichiarate. A bocce ancora in movimento, è ancora il caso di rimandare i bilanci e le analisi. Ma alcune cose già accadute meritano attenzione, e soprattutto di essere raccontate per quello che sono, il contrario di quello che ci dicono giorno e notte a reti unificate.
Immagine tratta da un covo facebook di sovranisti, questo,
che infatti risulta già attenzionato dal Ministero della Verità
Infatti, a sentire l'informazione televisiva, cioè sia i TG che il mare di trasmissioni di dibattito e commento in cui tentano di farci annegare, il governo avrebbe operato una scelta costosa ma doverosa, e alla fine ripiana i danni con oltre 400 miliardi di aiuti, mentre l'Europa brutta e cattiva ci nega gli Eurobond: a Roma si dice "che jè voi dì?". A leggere bene, invece, quei miliardi sono solo impegni teorici di garanzia a prestiti alle imprese. L'immagine qui accanto spiega bene: tu governo mi hai messo in mutande obbligandomi di fermarmi per due mesi (ma quello che si delinea per dopo per certi tipi di attività comporta un forte ridimensionamento definitivo, se non la sparizione: pensate ai locali gremiti con musica dal vivo, o dove si balla in coppia o si suda in tanti, eccetera, ad esempio), e io, che intanto le spese corrono e ho dovuto per campare intaccare i risparmi, se voglio ripartire e non ho soldi da parte li chiedo alla banca, che grazie al decreto me li presta sicuro (sicuro? forse se avessero vietata qualsivoglia istruttoria...) anche perché garantisce lo Stato tramite la CDP, il che significa che se non riesco a rimborsare il prestito io vado fallito, ma la banca no perché viene rifusa dallo Stato. Capita l'antifona?
E' come col MES: tanato dall'opposizione di destra (dimentica di essere al governo quando fu architettato, ma tant'è), Conte smentisce il suo utilizzo (anche perché la maggioranza parlamentare è ancora grillina e la denuncia dell'iniquità di questo strumento è stato per anni uno dei cavalli di battaglia del M5S), ma non mancano le voci all'interno della maggioranza di governo, specie (ovviamente) lato PD, che dicono più o meno "embè? che importa con quali forme arrivano gli aiuti europei? basta che arrivano!": ho sentito con queste recchie Mentana dire testualmente che magari al MES basta cambiargli nome... E invece bisogna dire chiaro e tondo che comunque la chiami resta una fregatura, conferire a gratis soldi ad un fondo che poi se ti servono te li presta (si, i tuoi stessi soldi, avete capito bene) non solo a interessi, ma anche sotto condizione - che poi le condizioni sono sempre quelle: tagli di spesa, dismissioni asset pubblici, innalzamento età pensionabile, insomma tutto quel complesso di provvedimenti che, attraverso la demolizione della sanità pubblica e il deterioramento delle condizioni di vita dei nostri vecchi, sono la vera causa del bilancio tragico di questa influenza un po' più grave delle recenti altre.
Per cui il mio augurio (per quanto io sia reso scettico dalle facce di chi ti guarda come un untore mentre fai footing entro 200 metri da casa come da norme governative) a tutti voi è questo: buona Pasqua! Risorgete! Liberatevi dalla schiavitù! Fate festa e iniziate a seminare per la nuova stagione! E non prendete prestiti, fate una bella class action per danni a chi vi ha ridotto in mutande.
Oggi guardando il TG2 ho trasalito: qualcuno che forse non teme di perdere il posto ha mandato in onda (non in prima serata, ovviamente) un servizio con dentro un cinegiornale di 50 anni fa dell'istituto Luce, che si trova facilmente su Youtube e racconta le chiusure in massa dei negozi per malattia dei negozianti quasi come un servizio di costume. Perché nel 1970, io ero piccolo e non me lo ricordo, ci fu una influenza "asiatica" che mise a letto 13 milioni di persone. Avete letto bene: 13 milioni. I morti, secondo il sito ufficiale dell'Istituto Superiore di Sanità, furono circa 20mila. Ma vi voglio riportare la frase testuale:
"In Italia l’eccesso di mortalità attribuibile a polmonite ed influenza associato con questa pandemia fu stimato di circa 20.000 decessi".
Non c'erano tamponi, terrorismo mediatico con contabilità continua, eppure siamo lì. Quanto sarebbero stati, allora, i morti attribuiti a quella influenza se avessero usato i criteri attuali, cioè se a tutti i morti del periodo avessero fatto un test, ce ne fosse stato uno, dato che il morbo allettò ("allettò", non "contagiò": il covid19 è per oltre il 90% asintomatico, lo dicono loro stessi, e sottostimando il denominatore) un italiano su 4? Facciamo proporzionale, anche se partendo da chi stava così male da morire sarebbe di più? Un quarto dei morti dell'anno: attorno ai 75mila. Volendo, a una cifra del genere possiamo arrivarci anche adesso: basta fare il tampone a tutti i morti, a prescindere dalla causa di morte, da qui a dicembre. Magari lo faranno, ma non è questo il punto. Il punto è: come mai agli italiani dell'epoca non fu riservato lo stesso trattamento di ora? Beh, forse le élite erano meno sofisticate e organizzate, forse erano ancora impegnate a dimostrare che l'uscita capitalistica dalla tragedia bellica era meglio di quella comunista, forse tutti quanti, élite compresa, non erano stati ancora rovinati dalla globalizzazione e da ciò che comporta anche sul piano filosofico e della percezione della gravità delle cose e della serietà della vita (leggete questo pdf, è del 2016, pare scritto oggi per oggi). Ma anche quando, non ci avrebbero nemmeno provato, perché sapevano che i cittadini di allora non glielo avrebbero consentito. Ma non ve li immaginate, i cortei coi cartelli con scritto "governo fascista" davanti a palazzo Chigi, bombardati dai lacrimogeni? E non li "vedete" in parlamento i compagni del PCI ostacolare in ogni modo una dichiarazione di "stato di emergenza" prima ancora del primo morto italiano, ma anche dopo, almeno fino a numeri con uno zero in più degli attuali?
E allora vorrei dire ai ragazzi, non ai quattro gatti vecchiotti che normalmente mi leggono (non vi offendete, con me famo cinque): sollevatevi. Risorgete. Fuggite dalla schiavitù. Coltivate il vostro futuro. Vi hanno rincoglionito a furia prima di TV e poi di social network. Spegnete tutto, anzi no, usate i mezzi che vi hanno dato in modo diverso, Internet per scavare e informarvi attivamente (leggete ad esempio qui cosa dice un virologo clinico, primario a Novara), i social per fare massa, ma soprattutto studiate. Non lasciatevi mettere un cerotto col vaccino e il GPS, non siete bestie da campanaccio. Non lasciatevi portare dove vogliono loro, non siete gregge. Non postate pure voi "io resto a casa" con orgoglio, non uscite sul balcone a cantare la marcetta dal testo implausibile che ci fa da inno. Metteteci un cartello con scritto "resto a casa perché obbedisco ai tuoi ordini, anche se all'età mia le influenze si prendono e passano e magari manco te ne accorgi, ma i soldi che non guadagno per tutto questo periodo me li dai tu, in contanti e subito". Se no la prossima volta voto per chi si attrezza credibilmente per non ripetere, alla prossima influenza, questa costosissima pagliacciata.

mercoledì 8 aprile 2020

I WENT DOWN TO THE CROSSROAD

Trattandosi di epoca alquanto remota, il disco raccoglie tutte
e 29 le registrazioni esistenti di questo pioniere (l'ho letto qui)
Come forse qualcuno di voi si sarà accorto, e se no andateci a guardare, lo scorso post è uno dei pochi di questo blog ad avere ricevuto commenti. Gli è che Pasbas, come forse si intuisce dal nickname, suona, e siccome se io ci ho una certa lui ci ha una certa e un tot, le sue radici musicali affondano un po' più in la delle mie, che già sembrano astruse ai quarantenni di oggi figurarsi ai ragazzi, meno male che non dovrebbero rappresentare una quota significativa dei miei lettori. La cosa mi ha intrigato, e visto che lui giustamente ha ricordato che Zucchero col blues non c'entra una beneamata ceppa (e perché, io che avevo detto? vabbè...), mi sono fatto mandare un suo pezzullo sul blues, che non metto in radiocixd se non in tag, ma pubblico molto volentieri, sottotitolo "da Blue's al Blues". E occhio che c'è da imparare...
...
I went down to the Crossroad, fell down on my knees”. Questo è l’incipit di uno degli standard blues più famosi, scritto ed eseguito da quello che si può considerare il più grande bluesman degli anni della Grande Depressione negli USA: Robert Johnson, nato a Hazelhurst, Mississippi, l'8 Marzo 1911.
R. Johnson - The complete recordings” rappresenta una delle più belle ed emozionanti raccolte relative al blues di quegli anni, musica esclusivamente nera tanto sconosciuta ai bianchi del nord quanto odiata dai bianchi razzisti del sud. Tra le composizioni più belle e note (assolutamente da ascoltare nella sua versione, voce chitarra e ‘tap’ del piede quale percussioni) cito:


Per tutti coloro, me compreso, che hanno ascoltato per anni e con passione i vari gruppi bianchi britannici e statunitensi quali Allman Brothers, Canned Heat, Derek and the Dominos, Cream, Led Zeppelin e chitarristi del calibro di Jeff Beck, Eric Clapton, Keith Richard, Jimmy Page e via elencando: bene, buona parte di quello che hanno suonato e registrato negli anni 60/70, facendo soldi a palate (i bianchi), proviene dall'immenso patrimonio culturale degli afroamericani. E cosa dire dell’unica vera band di R&R, che dai primi anni ’60 ad ora ancora registra sold out in ogni concerto? I mitici e inossidabili Rolling Stones. Beh, cominciamo dal nome della band: esso proviene da un famoso pezzo blues della Chicago electric blues era, anni ’50 e ’60. E più precisamente Rollin’ Stone del grandissimo Muddy Waters: si proprio così, lui che fu uno dei primi maestri della band britannica e quello che gli donò il nome, battezzandoli re della british invasion. Loro hanno però sempre riconosciuto il valore etnico-musicale del blues e con Clapton e altri hanno promosso molti tour europei dei musicisti neri più in voga in quegli anni.
I tanti bravi e bravissimi bianchi avventuratisi su questo fangosissimo (muddy, appunto) terreno, tutto feeling pancia scale blues e corde vocali distrutte da fumo e alcol, non hanno mai potuto comunicare le sensazioni di allegria sfrenata, tristezza e anche disperazione che gli afroamericani hanno comunicato con la loro musica che viene da lontano, dall'Africa delle grandi deportazioni di schiavi verso le Americhe. Loro, i neri, descrivono l’insieme di queste sensazioni anche contrastanti con la frase “I feel blue”. Ascoltare Key to the Highway nella versione live dell’autore Big Bill Broonzy e poi in quella del bianco Eric Clapton, uno dei più bravi (tra i bianchi), questo è il miglior modo per apprezzare le differenze e comprendere il solco che separa il blues del colored da quello del white. Altro consiglio di ascolto a confronto: la divertente ed esplosiva (ottimamente orchestrata) Sweet Home Chicago eseguita dai Blues Brothers nell'omonimo esilarante film e quella della versione di R. Johnson linkata nell'elenco più su. Può essere plausibile pensare che Dan Akroid e John Belushi siano nati e cresciuti nelle bidonville del profondo Sud e che abbiamo mai raccolto cotone cantando work songs? O che il grande sessionman bassista bianco Donald Duck Dann, onnipresente nelle registrazioni e nei concerti di R&R di tanti artisti, sia mai vissuto o solo entrato nel ghetto di Hazlehurst? Per dirla con McKinley Morganfield (aka Muddy Waters) “the Blues had a babe and they named it Rock & Roll".

P.S.: senza la minima intenzione di offendere alcuno degli eventuali lettori: Zucchero? No grazie, neanche nel caffè!

P.P.S.: bianco per bianco, italiano per italiano, perché non ascoltare il grezzo ma pieno di feeling R&R italiano dei ’60?

Buon ascolto
Pasbas
Post-fazione
Robert imparò a suonare la chitarra da giovanissimo, suoi unici maestri la strada e alcuni bluesmen locali. Intorno ai 20 anni sparì completamente dalla sua città, dove ricomparve solo dopo alcuni anni senza aver dato alcuna notizia di sé. Sentendolo suonare allora, dopo tanto tempo di assenza dalle scene musicali del Delta, e rapiti dal suo stile originalissimo e trascinante, rigorosamente in compagnia soltanto di voce e chitarra acustica (entrambe le sue ovviamente), in quelle sale da ballo per colored rimasero tutti increduli e in balia del suo fascino musicale. A chi gli chiedeva come avesse fatto a diventare quel fenomeno che era diventato rispondeva così: “Una notte tornando a piedi verso casa dopo un lungo concerto, arrivai ad un incrocio sconosciuto, incerto sulla direzione da prendere. Mi fermai a riflettere mentre osservavo una splendida luna piena illuminare gli sterminati campi di cotone; ad un tratto mi sentii chiamare per nome, mi girai e vidi il Diavolo in persona! Senza dire altro e con fare deciso prese la mia chitarra, si sedette e cominciò a insegnarmi come suonare il Blues. Non sono mai più riuscito a ritrovare quel Crossroad, incrocio che mi ha cambiato per sempre la vita."

sabato 4 aprile 2020

RADIOCIXD 16: BLUE'S

Adelmo Fornaciari ha una parabola artistica strana. Prima di intraprendere la strada che tutti conosciamo, tenta di affermarsi come melodico, vincendo Castrocaro e facendo apparizioni dimenticate a Sanremo, e anche quando la intraprese, con due dischi piuttosto apprezzabili come Zucchero & the Randy Jackson's band e Rispetto, accompagnati da altri due fiaschi sanremesi con però due canzoni che restano tra le sue migliori: Donne e (secondo me, soprattutto) Canzone triste. Il botto, però, lo fa con quello che resta il suo album migliore, e infatti ne parliamo oggi.
Con Blue's Zucchero diventa una star mondiale, capace di riempire le platee dovunque, e come spesso capita in questi casi inizia anche a calargli l'ispirazione, sfornando uno dopo l'altro album sempre più dimenticabili (mentre alcuni capolavori li consegna a voci del calibro di Elisa Giorgia e Mina), anche se devo ammettere che da La secion cubana in poi il ragazzo ha ritrovato smalto e anche gli ultimi album in studio non suonano malaccio.
In mezzo, c'è stato tempo e modo di conquistarsi tra gli addetti ai lavori una certa fama di - diciamo così - "copione"; e va bene che il genere si presta, coi suoi canoni precisi, ma intanto il blues sta alla produzione di Zucchero come il rock a quella di Vasco (più che altro un abito esteriore a composizioni essenzialmente melodiche cantautoriali), e poi ci sono alcuni esempi "storici" a remargli contro: può aver riprodotto in Per colpa di chi? una schitarrata identica a quella dei Dire Straits di Calling Elvis, può aver vinto la causa con Michele Pecora (con cui peraltro aveva collaborato agli inizi) senza però impedire che l'ascolto di Era lei e Blu (ma forse se dico sere d'estate dimenticate ve la ricordate prima) in sequenza faccia ancora effetto; può aver ripreso pari pari un attacco degli Skunk Anansie (che non l'hanno citato, ma ho visto coi miei occhi la cantante Skin, a domanda precisa, scoppiare in una risata a bocca aperta - quella, bocca! - esclamando "ah, Sssucchero!"), può aver (come da notizie raccolte quasi di prima mano, e come è prassi consolidata nel mondo discografico: occhio ragazzi, prima di mandare un demo a uno famoso registratene i diritti!) scritto Diamante con la collaborazione oltre che di De Gregori di un ingenuo anonimo rimasto tale, ma l'uso di un intero e riconoscibilissimo verso di Piero Ciampi (cui lo aveva introdotto Gino Paoli, che lo affiancò molto agli inizi) per una sua hit, quello lo ha dovuto ammettere e mi sa che lo ha pure pagato...
Chiusa parentesi, torno all'LP scelto, che ripeto è al vertice del suo periodo migliore (i ben informati dicono grazie al fatto che l'ha realizzato durante la crisi del suo matrimonio) ed ho ovviamente in vinile, con la bella copertina ritraente un coro credo gospel, e come al solito vi posto sia il link per l'ascolto completo che i singoli brani affiancati da alcune righe di commento:

1. Blue's Introduction
Vabbé, c'è un coro in copertina, facciamogli cantare a mo' di introduzione lo slogan del sottofinale...
2. Con le mani
Come vi dicevo, nei primi anni Zucchero è stato affiancato più volte da Gino Paoli, che ha pure cantato in Come il sole all'improvviso, mentre qui firma il testo. Non lo sapevate? Sapevàtelo...
3. Pippo
Sempre per la rubrica Sapevàtelo, il testo qui è di Vasco Rossi, e forse si sente, per l'ironia scanzonata che tra l'altro lo allontana dall'inquadramento nella crisi coniugale del Nostro, e che ha fatto del suo verso principale un modo di dire, o meglio un modo per dire una volgarità depotenziandola (aho, sto citando una canzone!...)
4. Dune mosse
Diversamente dal solito, il video qui affianco non è della versione originale del brano tratta dall'album. Com'è come non è, infatti, ne esiste una in duetto con nientemeno che Miles Davis. Roba che se anche non avessi fatto niente altro né prima e né dopo (e solo di duetti stellari può invece vantarne a decine...) puoi morire contento: di aver fatto qualcosa, nella vita...
5. Bambino io, bambino tu (Legenda)
Anche qui c'è lo zampino di Paoli, e si sente. Non ho mai capito il sottotitolo con una sola g, eppure è così che si trova ovunque. Ma ho sempre saputo che l'occhio azzurro e quello blu sono ripresi paro paro da un meraviglioso Vecchioni d'annata, e ascoltando entrambi ho però sempre pensato a David Bowie (perchè? beh, se non lo sapete guardate qui...)
6. Non ti sopporto più
Qui si che ci azzecca la moglie, o chiunque altro gli abbia "preso il blues"... A lui come a noi: quando vogliamo mandare a quel paese qualcuno basta cantargliela, anche solo mentalmente.
7. Senza una donna
Rifaccio l'operazione del brano 4, non certo perché Paul Young valga un'unghia di Miles Davis, ma per aver occasione di accennare a questo bluesman bianco dal successo effimero (Love of the common people, Every time you go away e poco altro) che tentò di rilanciarsi con una cover di questo pezzo, con cui intanto Zucchero aveva definitivamente svoltato. Oltre che perché il duetto è decisamente ben riuscito.
8. Into the groove
Il coro della copertina, o almeno così immaginiamo, torna in un intermezzo ancora cortissimo, ma foriero di allungamenti live, e decisamente più "classico". E no, non c'entra Madonna...
9. Hey Man
Ancora la mano di Paoli, in questo brano più di altri dal vestito blues. Che a me è sempre parsa la risposta emiliana, e minore ma non per questo disprezzabile, a Uè man di Pino Daniele.
10. Solo una sana e consapevole libidine salva il giovane dallo stress e dall'Azione Cattolica
Il top dell'album, come lo stesso autore (si deduce dall'intro) immaginava. Molti echi dal passato, ma frullati in una bomba catartica di 5 minuti scarsi. Il tentativo di ripetere il meritato successo di questo pezzo è forse alla base della suddetta maldestra operazione ciampiana dell'album successivo, titolo wertmulleriano compreso.
11. Hai scelto me
Dopo la scarica di adrenalina del brano precedente era logico chiudere con questo: serve, come il defatigamento dopo il tapis-roulant. Infatti dura uguale. Ed è un gioiellino.



mercoledì 1 aprile 2020

YOSS 1: LA VECCHIA E IL BAMBINO

Inizio oggi una nuova rubrica di questo blog, che francamente spererei crescesse molto, ma non dipende da me: io posso solo insistere sui social ad esortarvi a collaborare, il resto dovete farlo voi. Inizio oggi con PasBas perché ha già pubblicato qualcosa qui, come dimostra il relativo tag, e perché mi ha mandato un racconto che ci azzecca eccome col mio post scorso, come capirete leggendo. Non sto spoilerando, e d'altronde quello che vi sto dicendo io lo capite da soli dopo poche righe di lettura: il valore del testo sta altrove, nella capacità di evocare in ciascuno dei lettori una eco interiore, luoghi visti e vissuti, persone che ci portiamo dentro finché campiamo, ben oltre la loro dipartita. Così, io ho messo una foto del posto che è venuto in mente a me, e forse pure a Pas, ma ciascuno di voi penserà ad altro e si riconoscerà.
Il titolo di questo racconto evoca, forse non per caso, quello di una vecchia canzone del Maestrone, in cui un nonno mostra al nipote il paesaggio post disastro nucleare cercando di sovrapporgli a parole il paesaggio precedente, che il piccolo non ha mai visto. Ebbene, molti di voi ricorderanno come finisce la canzone: col bimbo che, affatato ma non convinto, risponde all'avo "mi piaccion le fiabe, raccontane altre".
Ecco, io vi invito a imitare PasBass, mandandomi in posta i vostri racconti. All'inizio, sarà un modo per sfangare il coprifuoco, ma poi magari ci prendete gusto e continuate. La rubrica si chiamerà YOSS, Your Own Short Stories, le vostre storie brevi, perché l'inglese negli acronimi è meno ridicolo dell'italiano, con cui ho forse dato il massimo per l'altra rubrica, RADIOCIXD.
Ogni racconto sarà introdotto da un mio breve corsivo, prometto più breve di questo primo, al termine del quale, a proposito di narrativa, vi ricorderò che ancora potete procurarvi il mio Sushi marina, e che chi lo ha per le mani può partecipare alla sfida a chi indovina per primo qual'è il nesso tra i titoli dei capitoli.
Ed ora, buona lettura, e poi fatevi sotto...
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Cerasari, "a faddha randi": da qualche parte anche quassù c'era una casupola.
L'immagine è tratta dal sito dell'azienda agricola Tenuta Surace, visitatelo...

La vecchia e il bambino

di PasBas

Ecco, ma cos'è? Ma si è una casetta bassa bassa, ai confini del bosco. La vedo in lontananza, di profilo che lavora, è tutta vestita di nero, lo stesso nero del bosco; ha un fazzoletto sul capo, con colori molto molto vivaci, direi sgargianti; come risaltano sul vestito nero, in questo primo sole primaverile! Sembra molto molto vecchia ma sicuramente in forma e piena di energie. Chi sa la sua vita come è stata, com'è e come sarà. Quasi quasi la chiamo e le chiedo aiuto, sono piccolo, capirà!
E Piero, il piccolo Piero, si avvicina emozionato alla casupola. “Che tetto basso e che porta bassa, come farà la povera vecchina a vivere lì dentro? Io comunque mi avvicino, mi faccio vedere e la chiamo forte forte da qui, sono un piccolo bambino impaurito, sono sicuro che capirà.
Così ragionando il piccolo Piero, il Piero piccolo e confuso ragionava; passo dopo passo, cautamente, una gamba avanti e l’altra dietro, percorre l’ultima parte del sentiero, si ferma e saluta sventolando il fiocco bianco che si è sfilato dal colletto del grembiule. E si perché come avrete capito, il nostro Piero è uno scolaro appena uscito dalla scuola col suo grembiule azzurro, il fiocco candido e profumato di bucato, la cartella a zaino regalo della tanto amata nonna e che tanto lo riama.
Preso di nuovo dallo sconforto, tra le lacrime che gli rigano il volto, tra sé e sé pensa: “dove sei adesso nonna cara, adesso che ho tanto bisogno di te, adesso che ho smarrito la strada di casa? Tu si che sapresti risolvere l’enigma che mi angoscia, hai sempre la soluzione per tutto tu!” La invoca e la cerca collo sguardo ma la dolce e affettuosa nonna è lontana, troppo lontana. Preso da una cupa angoscia grida forte verso la vecchietta la sua richiesta disperata d’aiuto; “ora si girerà verso di me – si dice – si girerà verso di me e mi farà segno di avvicinarmi e mi accoglierà nella sua casetta; c’è un bel sole ma ho tanto freddo, non capisco è come se fosse pieno inverno; ma dove sono? questo strano luogo mai visto, come ci sono finito?
La vecchietta lascia l’aia e apre il cancello col solito grosso pulsante, ormai consunto dal tempo.Piero, il piccolo, supera il cancello e... “ma che accade? Tutto è cambiato! E i colori, quei colori?! Esistono gli alberi blu, i prati di questo rosa intenso e gli uccellini a strisce bianche e nere, esattamente come le zebre nei documentari? Davvero non capisco...
Noi abbiamo lasciato la vecchina che armeggiava col pulsante, ma adesso esce dalla piccola nuvola (la porta) e torna ad occuparsi della legna.
È primavera, a cosa le servirà tutta quella legna?” Ragiona così il piccolo Piero (il diminutivo Pierino sarebbe fuorviante, non trovate?) avanzando nel giardino in direzione della casupola dipinta con i colori dell’arcobaleno. La vecchina, sempre affaccendata con la legna, e dando le spalle al bimbo, con una voce calda e tenue lo accoglie così: “che succede piccolo mio, Piero ti sei forse perduto nel Bosco Nero?” “Si gentile signora – risponde – era tutto buio e tetro e ho smarrito la direzione di casa.” Poi il dubbio arriva: “come fa a conoscere il mio nome? E poi mi ha parlato stando di spalle... Ah ora si! Lei mi ricorda quella favola che papà mi raccontava sempre per farmi addormentare. Il titolo era... umh... forse ‘La piccola casa nel b...’ no no assolutamente no. Eh già. Ora ho capito, la memoria mi ha aiutato: ‘La vecchia e il bambino’".
Così ragionando Piero si rende conto, il bambino Piero – ma sarebbe più giusto dire: il Piero bambino, capirete perché – si rende conto che d’un colpo angoscia, paura ed ansia sono sparite. Guarda ancora la casa arcobaleno, la porta a forma di nuvola, immersa in un cielo di un azzurro così intenso da far girar la testa ed ecco il ricordo affiora, sempre più chiaro di fronte ai suoi occhi, proiettato come in un film,esattamente come il documentario sulle zebre! Ricorda improvvisamente la Gita, quella Gita bellissima e unica, quando la nonna lo condusse su in montagna, tra i verdi boschi a cercar funghi. Il colore del cielo, la forma incredibilmente bella di quella nuvola che osservava sdraiato su quella soffice erba. “Come è mai possibile? – pensava tra sé e sé – e poi quella voce morbida e melodiosa cosa chi mi ricorda?
Entra caro, scaldati al fuoco e rifocillati, senza cibo non si va lontano.” Ancora qualcosa di familiare, ma cosa? Quella ultima frase che suona come un proverbio dove l’ha già sentita? Apre la porta-nuvola e entra nella casetta, tutto pulito, tutto in perfetto ordine; “caspita somiglia alla casetta dei sette nani; i loro nomi... mmmhh... ah si, Eolo, Brontolo e poi il piccolino, quello con le orecchione... dai devo ricordarlo, devo. Ah, già Mongolo ecco il nome, no no non così... Mamma aiutami, Mammalo ecco il nome... no no, quasi, ma è diverso. Mammolo, siii, è lui! E gli altri quattro? Non riesco a ricordare". Il Piero piccolo sorride, certo papà glielo diceva spesso “invecchiando la memoria si indebolisce .vedrai!” Ma lui non è certo vecchio, ha solo 9 anni.
Così ragionando prende dal fuoco la minestra calda e profumata e la versa nella ciotola di legno d’ulivo. Prende il pane dalla madia, profuma ed è ancora caldo. È davvero affamato, mangia avidamente ma...ancora quella vocina: “Mi raccomando mangia tutto, in Africa i bimbi come te muoiono di fame. Ricorda il cibo non va mai sciupato!” Quella voce, quelle frasi che somigliano a proverbi antichi, fuori dal tempo, dove li ha già uditi?
Pian piano i pensieri si appannano, svaniscono e sazio e sereno si addormenta sulla piccola sedia. “Quanto tempo è trascorso, un’ora forse due, un giorno, non so. So solo che devo correre a casa, mamma e papà saranno in ansia; chiederò la strada alla vecchina.” Esce e la chiama più volte, e niente! Dove sarà andata? Il bosco, ricordate vero quella selva spaventosa e oscura, quasi dantesca, nella quale Piero si è smarrito? Bene, il Bosco Nero è sparito di colpo, non è più lì eppure... ma ecco appare la strada di casa, larga e rassicurante. “Cosa sta accadendo, dove mi trovo?” D’istinto si gira indietro: “la casupola dov'è, dov'è finita?” urla, vuole capire, vuole sapere.
La nuvola! È esattamente la nuvola che aveva visto prima sulla porta; quella c’è ancora, al centro una piccola e fragile figura: ne è certo, si tratta della vecchina che lo ha accolto. Questa volta lei si gira lentamente e... noo non può essere, è la cara nonna! Allora risente quei profumi delicati e familiari, adesso li può identificare e poi quel tepore così magico da scaldare il cuore. “Caro Piero sono venuta per aiutarti, ho sentito le tue richieste disperate e sono accorsa; piccolo Piero io ero qui accanto a te ma eri troppo scosso e agitato per riconoscermi. Mi raccomando caro, non ti perdere ancora è molto, molto pericoloso! Ti mando un bacio e ti prego, segui sempre la direzione che il tuo cuore ti indica. Ti amo nipote mio, con te e solo grazie a te ho capito cosa voglia dire felicità. Ogni volta che avrai bisogno io sarò lì accanto a te, non avere paura. Addio”. Corre verso la nonna il piccolo Piero (o forse sarebbe più giusto dire, Piero il piccolo?!), ma la fragile figura sta pian piano svanendo; quando la raggiunge è scomparsa, resta solo la nuvola nel cielo di un azzurro intenso, tanto intenso da far girare la testa.
Piero si incammina verso casa chiedendosi se non stia sognando, ragiona e rimette in ordine i fatti accaduti, uno dietro l’altro come perle nella preziosa collana del tempo. “Ma si, è stato un sogno, cos'altro sennò?
Sulla strada del ritorno, la strada che conosce così bene, c’è adesso una sbarra mai vista, di uno strano giallo. “Ah questa poi, qui fino a stamattina non c’era alcuna sbarra, cos'è uno scherzo forse? E poi il metallo brilla come fosse d’oro – si avvicina ancora – ma è, d’oro! Oro, legno, ferro io comunque devo superarla in un modo o nell'altro, devo tornare da papà e mamma, saranno in pensiero”. Adesso ha paura, non sa cosa l’attenda al di là dell’insolito ostacolo, il sole si è già abbassato sotto l’orizzonte e sta anche per diventare buio. Facendo appello a tutto il suo coraggio, lancia la cartella oltre la sbarra e la supera quasi strisciando. La tensione, le intense emozioni della giornata, la stanchezza accumulata gli procurano un crescente torpore; prosegue per un po' ma è esausto, è costretto a fermarsi sotto una grande quercia, compagna di giochi sua e dei suoi amichetti di scuola. È esattamente lì sotto che si fermava a pensare e fantasticare in giornate con un cielo azzurro così intenso come oggi. Così rassicurato dalla grande e accogliente pianta, si accovaccia vicino al tronco di questa grande mamma-quercia, poggia la testa su una grossa radice affiorante e si addormenta profondamente.
Sognando (?) riconosce la sua cameretta ma con colori e mobili assai diversi, direbbe ‘da grandi’, una luce abbagliante che filtra dal finestrone. C’è un uomo giovane e ben vestito, seduto alla sua scrivania (questa si è rimasta la stessa) e che scrive qualcosa su un quaderno a righe, scrive continuamente senza fermarsi ma il foglio continua a rimanere bianco! Piero si sforza di leggere la prima riga, l’unica con caratteri leggibili e capisce che si tratta del titolo: “La vita”. Il giovane continua a scrivere ma il foglio rimane bianco, sempre bianco. L’uomo all'improvviso, sognando ad occhi aperti, vede l’immagine di una casetta ai margini del bosco; tenta di catturare questa immagine descrivendola sul foglio ma niente, il foglio continua a rimanere bianco, invariabilmente bianco, solo il titolo, sempre lo stesso titolo: “La vita”. Si trova allora a camminare verso la sbarra d’oro quando si imbatte in qualcosa di familiare, una cartella di cuoio che gli sembra di riconoscere, apparentemente abbandonata sul ciglio della strada.
Ecco che, accanto al tronco della grande mamma-quercia scorge un bimbo addormentato che sorride soddisfatto nel sonno. “Chissà cosa avrà da sorridere e cosa stia sognando il piccolo Piero? Ma perché lo chiamo così se neanche lo conosco?” si chiede, mentre si avvicina mezzo addormentato. “Chissà che il bimbo non stia fantasticando sulla sua vita, ma credo che ci sia solo un titolo sul foglio bianco che sta riempendo nel sogno, immagino qualcosa come 'La vita'”.
Ad un tratto il suono del cellulare fa trasalire Piero che, ancora scosso ed emozionato per il sogno (?) ad occhi aperti cerca di far tacere quel ben-mal-edetto cellulare che, come ogni giorno, cade sul pavimento ronzando come un minaccioso calabrone impazzito. È iniziata così un’altra giornata come tante, accenderà il fornello sotto la Bialetti tre tazze, farà le sue solite abluzioni mattutine e si vestirà; berrà poi il caffè e mangerà due fette biscottate, bacerà i due gemellini Ludovica (il nome della cara nonna) e Marco e poi la moglie Lucia e quindi diritto al lavoro.
Ma uscendo dal portone ha un ripensamento, tira fuori la chiave, le due mandate per riaprire, di corsa verso la stanzetta dei gemellini, prende Ludovica tra le braccia e la bacia, la bacia come mai aveva fatto. Esce, richiude il portone di casa con due mandate e si avvia diritto al lavoro come ogni giorno, solo più pimpante e allegro, come non lo era stato da tempo. Una giornata come le altre, sempre la stessa da sempre ma...

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