lunedì 13 aprile 2020

YOSS 2: TESTA CHINA SUL PIATTO

E' il secondo racconto di questa nuova rubrica, Your Own Short Stories, a cui vi rinnovo l'invito a partecipare: aprite i cassetti, non abbiate pudore, se serve cercatevi uno pseudonimo, e scrivetemi. Non rende niente, ma non costa niente. Ed è meglio che stare sul divano davanti alla TV o a cucinare e stramangiare, che a fine arresti domiciliari saremo tutti obesi. Aspetto anche la risposta esatta al quesito relativo al nesso logico tra i titoli del mio Sushi marina, ma dovreste almeno averne una copia e mi sa che non siete in tanti.
Anche questa storia ha la caratteristica di "commuovere", etimologicamente suscitare in noi una emozione analoga a quella che ha spinto l'autore a scrivere, in quanto a tutti evoca un ricordo in qualche modo simile. E' una delle funzioni della letteratura: quando qualcosa che leggiamo ci piace, è spesso perché dice una cosa che anche noi abbiamo dentro, ma in un modo che maledizione è così bello che vorremmo averlo trovato noi. Quando è così breve ed efficace l'invidia è doppia, ma non riesce comunque a raggiungere la gratitudine. Grazie, Lè, aspettiamo il prossimo. E voi tutti, fatevi sotto.

Testa china sul piatto

di L'Elio

Testa china sul piatto a capo tavola, all'altro capo con altrettanta testa china mio padre. Silenzio assordante, quasi imbarazzante interrotto dal tintinnio delle posate sui piatti.
Prendo coraggio ed affronto, con l’intento di imbastire uno straccio di conversazione, l’unico argomento su cui qualche volta siamo riusciti a comunicare: la squadra di calcio del Napoli.
“Hai visto la campagna acquisti del Napoli? Mi pare buona, hanno comprato un paio di giocatori decenti, vero?”.
Immobilità totale, nessuna risposta.
Comincio a sudare freddo e a sentire la solita sensazione di oppressione al petto messaggera della moltitudine di sentimenti negativi che mi assalgono quando mi capita, anche solo per un momento, di confrontarmi con mio padre, dai sensi di colpa all'impotenza passando per i vari complessi di inferiorità.
Sto per alzarmi dalla tavola e scappare via, nella speranza assurda che le mie parole non siano state sentite, quando il capo di mio padre lentamente comincia a muoversi, come un girasole che volge il suo sguardo verso la luce del giorno, i suoi occhi penetrano, affilati, i miei ed una voce rauca tossisce:
“Tu, rivolgimi la parola quando sarai diventato veramente un uomo”. 
Avevo vent'anni ed avevo deciso di partire per una stagione da animatore turistico in Sardegna insieme ad altri amici piuttosto che sostenere l’esame di diritto privato come si sarebbero aspettati i miei genitori, i quali reagirono in modo diverso rispetto a tale decisione: mia madre mise in scena una performance degna delle più struggenti sceneggiate napoletane di meroliana memoria, mentre mio padre adottò una vera e propria risoluzione di embargo nei miei confronti in quanto stavo venendo meno all'impegno da me assunto, davanti a Dio e agli uomini, nel momento in cui mi ero iscritto alla facoltà di giurisprudenza.
Sul traghetto verso l’agognata Sardegna i miei amici facevano festa bevendo e scherzando, io trascorsi tutto il viaggio sul ponte della nave guardando con occhio lobotomico il mare, delirando sull'efferatezza del “crimine” che stavo perpetrando.

Sono passati vent'anni da allora, io sono sempre ad un capo della tavola e tu, babbo, all'altro capo, ma questa volta ti guardo mentre con mani tremanti stai sbucciando una mela.
Ricambi timidamente il mio sguardo con occhi tondi e umidi.
Vorrei parlarti di me, delle mie aspettative, delle mie delusioni, finanche dei miei amori, di quanto sia stato difficile ma, al tempo stesso, affascinante cercare di comprendere qualcosa della mia vita anche attraverso la tua.
Vorrei chiederti se ricordi quella sera di vent'anni prima e le parole sferzanti che mi dicesti quella volta e altre volte ancora.
Vorrei immergermi con te in un fiume purificatore che ci consenta di mondare le nostre anime dalle ferite e dalle remore profonde che hanno sempre impedito una vera comunicazione tra di noi. Ma dopo un finto colpo di tosse riesco solo a chiederti:
“Hai visto che bella partita ha giocato il Napoli domenica scorsa?”

2 commenti:

pasqbass ha detto...

“Hai visto che bella partita ha giocato il Napoli domenica scorsa?” . Devo dire che mi intriga molto, al di là del dolore che emerge dal tuo racconto e che accomuna spesso noi maschi del sud Italia, la fine 'sospesa' del tuo racconto (credo in parte autobiografico). Leggendo l'evolvere della storia ho spudoratamente tifato per questo finale: "si caro figlio, ha giocato molto bene il Napoli domenica è vero, non ha perso tempo a fare melina ma ha attaccato continuamente. Ora però vieni dalla mia parte del tavolo e abbracciami".
Lo ammetto, anch'io sono un tifoso ma non del Napoli. Tifo per l'amore in tutte le sue possibili forme. Pasqbass

Peppino ha detto...

Bello ed emozionante: complimenti

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