domenica 21 gennaio 2018

11. QUESTIONE DI NASO (E NON SOLO)

Devo ammetterlo, mi è piaciuto proprio pubblicare i racconti di Chi c'è c'è, quando derivati da un testo di canzone, assieme al testo da cui derivano: è un esercizio di stile filologico, fine a se stesso e pertanto istruttivo e forse divertente (con  Sushi Marina ancora nelle mani dell'editore, mi pare inoltre un buon modo di tenerne "caldi" i potenziali lettori). Stavolta, la mente da cui attinge il "geestre" è quella di un astronauta francese, mentre le canzoni da cui il racconto è tratto sono addirittura due: quella omonima è pensata su un giro rock acustico tipo flamenco con finale ad libitum, l'altra (addirittura dell'82, avevo diciott'anni, che vi devo dire? forse avevo visto Bergman in un qualche cineforum: ai tempi si usavano...) su un giro di chitarra acustica veloce alternando uno cantato a uno strumentale, ma come le altre entrambe sono musicabili a piacere da chi mi chiedesse di poter usare il testo...

11. QUESTIONE DI NASO

Mi successe la prima volta ai tempi dell’università. Stavo arringando un compagno, innamorato perso di una stronza di Butte-Chaumont, con un discorso che suonava più o meno così:
 ...vedi, non c’è migliore avventura di quella che non riesci a viverla. Se un sogno riesci a viverlo è finito, sia come vita che come sogno. Se poi ha come oggetto una donna, sei finito anche tu. Alle donne non bisogna mai credere fino in fondo. Poverine, non è colpa loro: molte ci credono, a quello che dicono; solo che poi cambiano idea. La maggior parte ci restano fregate esse stesse, ma solo una volta o due, poi imparano a conoscersi e a gestire la cosa più consapevolmente (a parte le più sceme, poche in verità, ma quelle hanno un’elevatissima probabilità di restare sole: chi non può ferirci non ci piace). E’ per questo che pure noi uomini dobbiamo imparare al più presto la lezione: non credere mai del tutto a quello che dicono o che sembrano. Non appena sei certo di qualcosa, sei fottuto. Perdi il discernimento, lo dai per scontato, e non ti accorgi che non è più com’era, se mai lo era stato: ciò è vero sempre, con le donne è vero il doppio.
In realtà era accaduto che una compagna di corso mi aveva regalato un mese e mezzo di sesso ad altissima temperatura, ogni notte ore ed ore di amplessi in tutte le posizioni, e non era mai sazia: quello che avevo sempre sognato. Mi sentivo davvero uomo, per la prima volta. Ma non le era bastato: siccome con tutto il tempo che passavamo insieme ce ne restava anche molto per parlare, lei un po’ mi si apriva completamente, raccontandomi dei genitori separati (come i miei!), della malattia lentamente letale della madre, e della sua voglia di mettere su prima o poi una famiglia come si deve (proprio come me!), un po’ mi caricava, come si fa con un pugile prima dell’incontro. Cioè, mi diceva che non riusciva a trovarmi un difetto, che ero bello (io!), che a letto ci sapevo proprio fare, che la facevo sballare, che non aveva mai fatto l’amore così bene (e la ragazza doveva avere una certa esperienza, in effetti), che mi amava... Proprio così: mi amava.
Ora, va bene una certa naturale cautela a parlare d’amore…: che poi, cos’è l’amore, a voler stringere? Intendo, tra un ragazzo e una ragazza? E’ una specie di cocktail tra sesso, amicizia, e progetti per il futuro, più una spruzzatina di un non so che di irrazionale. In altre parole, se due si trovano molto bene a letto, si vogliono bene, parlano di tutto con sincerità, si aiutano, si interessano dei rispettivi destini, fanno progetti comuni, insomma se questi due dicono che si amano sarà anche vero! Così dopo qualche giorno di quel trattamento avevo sbracato completamente: avrebbe potuto dirmi che il cielo era a pois e le mucche volavano e le avrei creduto, chiedermi di seguirla in Corsica come su Alpha Centauri e l’avrei fatto, ripudiando pure mio padre e mia madre se fosse stato necessario. Chi è che non mi può capire?
Poi un bel giorno, alle quattro del pomeriggio, dopo che avevamo scopato tutta la notte nella sua stanza a Boulogne (divideva un appartamentino con un’altra studentessa corsa), e che giurando che era stata la notte migliore della sua vita aveva voluto rifarlo alle dieci del mattino, improvvisamente mi disse che era tutto finito, che era stata solo un’infatuazione e che le dispiaceva di avermi illuso. Non mi ha dato nessun’altra spiegazione, anzi non mi ha mai più voluto parlare a quattr’occhi. Sarà che io in quel periodo già ero uscito male da una storia precedente, ed avevo voluto a mio rischio e pericolo credere a quest’altra forse perché ne avevo bisogno, sarà: tant’è che non dormii né mangiai per due settimane, in cui mi capitò un paio di volte di pensare sul serio al suicidio.
Quindi non c’era quasi niente di strano che io ora facessi quella paternale al mio amico: in realtà la stavo facendo a me stesso, come spesso capita in questi casi. La cosa strana fu che mentre dicevo quelle cose mi sentii come sdoppiato, bello assiso ad un paio di metri da noi a vedermi parlare. Ebbene: ero preciso identico per mosse e frasario ad un mio vecchio zio, quella volta che mi portò al parco, da bambino, e invece di farmi giocare mi raccontò sotto forma di storia le sue pene d’amore.
Mon oncle Jean-Louis diceva che la vita non bisogna tentare di capirla col cervello, ma col naso. Non guardarla, cioè, ma odorarla. Perché ogni volta che pensi di aver capito e sei tranquillo, ogni volta che ti rilassi e sorridi, sereno fino al profondo del tuo animo, allora succede qualcosa che ti smentisce, ti sveglia, ti costringe a mischiare le carte, e guai se non sei pronto. Era già un uomo di altri tempi quando l’ennesima ragazza di cui si era innamorato perdutamente - di molto più giovane di lui - lo aveva piantato in asso dopo averlo illuso con parole d’amore e averlo convinto a sposarla, e senza ancora essersi concessa: lui le aveva creduto, quando lei gli aveva detto di essere vergine, che la prima volta voleva farlo con lui, ma al momento giusto. Lei però intanto scopava a destra e a sinistra, come tutte le sue coetanee della Parigi fin de siècle, e non ci volle molto per venirlo a sapere. Soffrire ancora? No, proprio no: stavolta lui si era rotto i coglioni sul serio. Giurò, e mantenne, che sarebbe rimasto da solo per sempre.
Quando cominciava a parlare, spesso si perdeva in divagazioni, e apriva ellittiche che si scordava di chiudere, in un intreccio di trame di cui si perdeva il controllo e l’origine, senza che però il tutto perdesse di interesse. Quella volta mi raccontò la favola di un vecchio che camminava per una strada tutta sua, padrone soltanto di tutto ciò che riusciva a portare con sé, incurante degli sfottò dei giovani sfaccendati in cui si imbatteva, che attirava per via del suo aspetto stralunato. Volendo disegnare su una mappa i suoi spostamenti nessuno avrebbe potuto trovare un senso logico al suo percorso, tanto che l’unica sintesi possibile era che “errasse senza meta”.
In realtà la sua meta non era riconoscibile solo perché non era di quelle “solite”, intelligibili col senso comune, verso le quali quindi il percorso appare lineare: Dio, la Fede, la Speranza, l’Ultima Frontiera, la Verità, la Filosofia di Vita, il Nirvana, la Famiglia e i Figli. No, il vecchio aveva una strada precisa da fare, ma dentro di sé, e quando arrivò alla Meta, la sola vera meta di tutti noi, lui fu l’unico pronto alla bisogna.
Si sedette ad un tavolino, ed attese che la Grande Puttana facesse la sua prima mossa, che - si sa - tocca sempre alle donne. Poi cominciò a giocare la sua onesta partita. Iniziò rintuzzando facilmente gli attacchi dell’Amica di tutti, quindi l’attaccò a sua volta, e solo dopo mille e mille ancora mosse, quando la partita era patta da un pezzo, ben sapendo che la Nera Notte non poteva istituzionalmente contemplare la possibilità che si stava delineando, cioè perdere, allora, con una tattica geniale, ...si fece praticamente scacco matto da solo, lasciando sbigottita Signora Morte di fronte alla sua ultima imprevedibile mossa. Non poteva vincere, questo lo sapeva già prima. Ma non era stato sconfitto. E quando Lei aprì il suo mantello le sue capienti braccia erano protese in un abbraccio d’amore, come così raramente oramai le capitava...
Cosa potesse capire un bambino di otto anni di una favola del genere non lo saprei dire neanche adesso, ma mi ricordo che lo ascoltavo attonito, in silenzio perfetto, ed a bocca aperta, cosicché Jean-Louis suscitò l’invidia di tutte le mamme, nonne e baby-sitter che stavano impazzendo lì intorno nel tentativo vano di controllare la naturale effervescenza dei miei coetanei.
Dopo quella volta all'università, mi successe di nuovo di impersonare mio zio Jean-Louis, ed ogni volta ero più consapevole e con maggiore controllo. Quello che mi veniva meglio era il pezzo che attaccava con “è questione di naso, capire la vita!”. Il mio problema, però, era un altro: Jean-Louis era davvero quello delle sue storie, io recitavo, o al massimo inconsapevolmente assumevo quel comportamento.  In effetti, per restare dentro la stessa metafora, il mio naso era piuttosto intasato, ed il mio “raffreddore” perenne ha continuato ad impedirmi di evitare le fregature. In comune con Jean-Louis, veramente, ebbi solo la scelta di restare single, e forse è stato meglio, vista la fine che abbiamo fatto sicuramente noi di Exodus, e forse tutti gli altri sulla Terra. Per tutto il resto, non sarò mai come lui, lo so.
Jean-Louis ogni mattina, splendido ottantenne, ancora snello ed elegante, se ne andava a piedi fino al quartiere latino, si sedeva al solito bistrot di una vita, e chiacchierava con i pochi amici ancora vivi, con gli studenti della vicina Sorbona presso cui ormai era arcinoto, e con quei turisti che incuriositi si fermavano ad ascoltare. Poi, passeggiando, rincasava, più preciso dell’orologio a cipolla che teneva nel taschino. Un giorno, forse perché aveva subodorato che qualcosa nel suo corpo gli avrebbe presto impedito di essere totalmente libero e indipendente come sempre, allungò la camminata fino alla Senna, e scelse quel tratto di quai vicino alla statua della Libertà, il più vicino tra quelli meno incasinati, un tratto in cui la sponda è dolcemente scoscesa, di erbetta curata, per lasciarsi semplicemente scivolare in acqua. Senza parole, stavolta. Come dire, in punta di naso.
QUESTIONE DI NASO
È questione di naso capire la vita
- disse il vecchio al nipote nel parco –
e mi bruciano gli occhi se guido di notte, e la notte è lontana,
e non so se ho guardato davvero.
Il lamento sospirato della vita mia
è lo scontro ininterrotto con la fantasia.
Ogni volta che ho riso son stato smentito,
e ogni volta che ero tranquillo,
e ogni volta che ero sicuro di averci capito qualcosa
sono stato costretto a mischiare
le carte.
Lei
mi ha portato a parlare d’amore,
mi ha lasciato con un palmo di naso,
quello di su,
e con meno di un palmo di quello di sotto
posto sopra le cose che mi sono rotto,
così…
È questione di naso capire la vita
- disse il giovane al compagno di scuola
ripetendo a memoria le frasi e le mosse del vecchio parente,
inventando ricordi e credendoci -
l’avventura più bella è quella che non hai,
alle donne, alle donne non credere mai.
Ogni volta che ero certo di qualcosa
quel qualcosa è andato a puttane
E ho evocato il fantasma di come ero prima di avere una donna,
ma ci ho perso e si è impossessato
di me.
Lei
mi ha servita soltanto a una cosa:
mi ha convinto di avere buon naso,
quello di giù,
ma è bastato soltanto a rinviare di un mese
il ritorno in cantina, con più l’interesse
del sei…
La scenetta nel parco si fa più patetica:
il nipote sostiene il nonnino,
ma vicino alla casa di cura c’è un lago che dicon fatato,
vi si vede la verità nei cerchi.
Si, lo specchio incantato non fa confusione,
dice: vecchio e nipote son la stessa persona.
È questione di naso capire la vita,
specie per chi non guarda le stelle
e non vede di notte ma teme sia peggio la luce infinita,
ed io son quasi sempre col naso
otturato
intasato
raffreddato
costipato
bloccato
irritato
otturato…

IL VECCHIO
Il vecchio passava per la strada un giorno
e pensarono “guarda un po’ come sbarella!”,
la strada che faceva non aveva ritorno,
la strada che faceva era la più bella:
“non andava verso Dio,
non andava verso la fede,
la sua meta non era la speranza”
ci racconta chi lo vide.

Ma il vecchio continuava il suo cammino
incurante di tutti e con il passo incauto,
non si ricorda che un giorno era stato fermo
e quando andava era come se seguisse un flauto:
“non andava verso il confine,
non cercava la verità,
non credeva neanche alla filosofia”
ci dirà chi lo vedrà.

Chissà quando arriverà all'appuntamento
che ha dato cent’anni fa alla sua sorte,
chissà se vincerà la sua eterna partita
che sta giocando ormai da anni con la morte:
“non voleva perdere mai
perché era un grande campione,
ha vissuto soltanto centun’anni
ma ha vissuto da leone;
rispondeva ad ogni mia mossa
e correva sempre più forte,
ho provato migliaia di modi per fermarlo
- ci dirà signora Morte –
ma quel vecchio maledetto
prima dello scacco matto
ha da se fermato il cuore dentro al petto:
non è stato mai sconfitto”
...

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