giovedì 5 luglio 2018

21 - CHI “CHE” C’E’

Come promesso, approfitto del cambio di grafica che ogni anno faccio a inizio luglio come regalo di compleanno al blog (è il decimo, mizzica!), per mettere in sfondo le immagini, una minima frazione di quelle che si potevano trovare, ancora molto meno di quelle che io e altri tifosi storici ci portiamo dentro, della mitica Viola Reggio Calabria, che vedrete anche stavolta risorgerà dalle ceneri in cui è stata volutamente ridotta.
La cosa non è fuori tema, dato che il basket è anche l'argomento dell'ultimo racconto (prima del lungo e articolato cappello finale) di Chi c'è c'è (mia prima e unica opera di narrativa fino all'uscita di Sushi Marina nei prossimi mesi), che è anche l'ultimo scritto, già nel 1999. Manu Ginobili ancora doveva sbarcare a Reggio Calabria, dove giovanissimo avrebbe già dimostrato la sua enormità prima di esplodere in una carriera incredibile che ancora continua oltre vent'anni dopo, per cui non è a lui che mi ispiravo. C'entra invece la mia già annosa allora passione per il basket in generale e la Viola Reggio Calabria in particolare, e in qualche modo l'avere sfiorato (e non senza rimpianti) la generazione di chi il poster di Che Guevara a casa proprio non gli poteva mancare. Così mi è nata l'idea che uno dei 21 campioni chiamati a rappresentare la chance di perpetuazione della razza umana fosse un asso dello sport, condannato dall'animazione sospesa a sognare e risognare di quando, alla sua prima consacrazione nel gotha del basket mondiale, fece l'outing della sua eroica ascendenza. Vencereemos, aadelante-e!

21 - CHI “CHE” C’E’

Ecco, lo speaker sta chiamando tutti gli altri uno per uno, e il pubblico esplode in ovazioni! Dio, quanta gente! Ma perché mi emoziono tanto? Calmo, ragazzo: oramai è dall’inizio del campionato che hai a che fare con platee del genere! Ma, Cristo, qui tengono tutti per me…! E ci sono centinaia di milioni di telespettatori al mondo che ci guardano. Ho il cuore in gola. Non mi pare vero, solo un anno fa…
Non ti distrarre, stronzo: tocca quasi a te.
“20 anni, ala forte, 2 metri e 12 per 113 chili, da Cuba, per i Miami Heat, RICARDO GUEVARAAAAAA!”.
Non capisco più niente. Sono io, qui, in mezzo a questi campioni che qualche anno fa guardavo in TV? In mezzo a questo pubblico? Sentili: “RICKY, RICKY, RICKY”….sono io. Li saluto, a braccia alzate. Vincerò la gara delle schiacciate con queste braccia, nell’intervallo: sono sicuro! E a fine stagione sarò il rookie migliore della Lega. Così, in mezzo al rombo della folla, mi gira tutto intorno, e rivivo l’ultimo anno e mezzo in un flashback come quelli del cinema.
L’infortunio alla caviglia, non grave, all’inizio della mia seconda stagione con la St.Louis University (nella prima, trionfale, avevamo vinto il titolo, io avevo 18 anni ed ero stato eletto MVP), cadde quasi sotto Natale: io mancavo da casa da tanto tempo, così decisi di rientrare al mio villaggio nei pressi dell’Avana. La povertà in quelle periferie non era diminuita molto dalla fine dell’embargo, almeno a sentire nonno Enrique, e d’altra parte quella situazione veniva difficile immaginarsela molto peggiore. Con la morte di Castro, mi diceva, non c’era più nessuno a difendere la Révolucion, e piuttosto che finire in mano a un dittatorucolo i cubani avevano deciso che tanto valeva provare a fare a modo loro. Degli americani, cioè. Si sono “democratizzati”: si dice così: Libere elezioni.
Risultato? Come previsto: i ricchi erano più ricchi, i benestanti più numerosi, ma i poveri erano sempre poveri, e in più andavano perdendo quella speciale solidarietà che li aveva aiutati a sopravvivere sotto il cappio americano alla fine del secolo scorso. Io non mi interessavo di politica, ma non ci voleva molto a capire queste cose.
Inoltre non vedevo mio nonno da anni: mio padre mi aveva portato via da Cuba che ero bambino, per sottrarmi al mio destino diceva, e per lo stesso motivo non era voluto mai tornare. Ma io ora ho i miei soldi, e l’infortunio mi ha dato il tempo, così eccomi a tu per tu col mio amato Enrique. Che ovviamente se ne approfitta: prima mi lavora ai fianchi con le condizioni materiali dei miei fratelli, raccontandomele e facendomele vedere, poi affonda con la storia di suo nonno Ernesto.
Ed ecco che io anziché tornare in America prendo un aereo per Buenos Aires, compro una moto e cominciò a vagabondare. Ho un libro in tasca, ma non ne seguo le tracce, non letteralmente almeno. Non serve: troppe cose sono simili, troppe le riconosco senza averle mai viste. Risalgo le pampas, attraverso le Ande ed entro in Perù; mi fermo sempre dove capita, ma non mi perdo Cuzco: io sono nero ma lì mi sento indio, anzi non percepisco più la differenza. Perché, dov’è? Poi, sul libro non c’è (non ci può essere, a pensarci bene) ma io lo trovo lo stesso, un certo posto di polizia nell’entroterra boliviano.
Arrivo in Messico, e improvvisamente mi rendo conto che sono passati dei mesi: chiamo Saint Louis senza neanche essermi preparato cosa dire, ma non serve. Sono felici di sapermi vivo e sano, credevano mi avesse rapito chissachì. Sto per dirgli la verità, ma mi fermo un attimo, faccio cadere la linea. Cosa debbo fare della mia vita, Ernesto, cosa, nonno Enrique? Cosa devono rispondermi, se non quello che voglio sentire, quello che è giusto, quello che è nei miei valori prima che in quelli che proietto in loro? Sii te stesso, fai bene ciò che sai fare, e non scordarti mai dei tuoi fratelli. Anche se hai l’asma, e la barba ti cresce in un certo modo, non puoi essere il Che, se non a modo tuo.
Così decido che da oggi in poi guadagnerò il doppio di quanto desidero, e darò la metà dei miei guadagni ai miei fratelli. Torno, mi alleno, rientro per i play-off, poi in estate sono sesta scelta assoluta, e lascio anticipatamente il college per la W.B.A.. Inizio di stagione travolgente, ed eccomi qui per questa incredibile convocazione!
Intanto si è cominciato a giocare, ed io come in trance ne butto dentro una dopo l’altra. 45 punti finali, MVP al mio primo All Star Game: vengo chiamato al microfono. “RICKY, RICKY, RICKY”, fa il pubblico del Madison Square Garden. Li calmo, agitando le mie manone aperte a palme in giù, e dico “grazie, grazie davvero. Ma non chiamatemi Ricky, vi prego: il mio nome non è Richard, è Ricardo. Se volete un nomignolo, ve lo do io, è anche più breve: chiamatemi Che”.
Lo pronunciano bene, penso, chissà come lo scriveranno, e chissà se qualcuno di loro si ricorda di ciò che significa. E continuo: “dedico questo premio, come tutti gli altri che verranno, al popolo cubano, e a tutti i diseredati del mondo. Hasta la victoria siempre!”.

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