mercoledì 23 settembre 2020

LA QUISTIONE MERIDIONALE

Vi confesso, logicamente solo a posteriori, che non è che avessi soverchie speranze per questo referendum: troppo compatto e dominante il fronte del SI, che in questo tipo di consultazioni finora aveva perso sempre, ma ogni volta c'era uno schieramento deciso e organizzato per il NO, stavolta solo voci sparse quando non "libertà di coscienza". Il conto della ulteriore aristocratizzazione della carriera politica, però, arriverà per tutti, e sarò contento di vedere tutti i non aristocratici che hanno votato SI pagare la loro parte, ammesso che si renderanno conto di starlo facendo e poi anche di esserne stati concausa avallando decisioni, prese contro di essi stessi, per aver creduto alla loro presentazione mendace e dissimulatoria. Non c'è da stupirsi se torna alla mente allora il primo degli imbrogli, quello fondativo della nazione italiana: il Risorgimento con le sue buffonate tra cui i cosiddetti plebisciti, votazioni dov'era impossibile sottrarsi all'assenso senza rischiare la vita: non male, come attenuante...
Insomma, arriva come il cacio sui maccheroni il pezzo di Pasbas sulla questione meridionale vista da Antonio Gramsci, che ci aveva promesso quando ci parlò dei briganti. Infatti, tratta di due tradimenti paralleli: quello di una parte d'Italia da parte dell'altra, e quello degli epigoni del PCI nei confronti di uno dei suoi padri più nobili (quello che aveva tra le altre cose fondato il loro storico giornale, lasciato appunto morire tra mille traversie, e forse è meglio così che a continuare a raccontarvi menzogne a vantaggio del Capitale il tradimento sarebbe stato peggiore). Tradimento perpetrato anche consegnando mani e piedi gli italiani a un feroce predatore straniero, più o meno come era stato fatto con i terroni ai "piemontesi", con Gramsci tra i pochi ad aver capito e denunciato la cosa.
Al termine del post, che vi invito a leggere con attenzione,, vi saluto con il tributo ad Antonio Gramsci di un cantautore da poco scomparso e forse già dimenticato, uno che dello stare "dalla parte del torto" ne aveva fatto un manifesto artistico e politico: Claudio Lolli, Quello lì.

La Quistione Meridionale di Antonio Gramsci

di Pasbas

Per Gramsci (da qui in avanti G.) la Quistione Meridionale (da qui in avanti Q.M.) è strettamente legata alla storia del Risorgimento, così come narrata dalla retorica del potere piemontese. Lo stato di abbandono nel quale versa il sud (nei primi decenni del ‘900) è principalmente dovuto alla politica coloniale di predazione delle risorse industriali, finanziarie e naturali presenti nell'ex regno borbonico. L’analisi dell’insieme dei problemi del sud riscontrati nei primi due decenni del ‘900 è stata condotta inizialmente da G. con modalità e metodiche ancora frammentarie, attraverso articoli su diversi giornali di orientamento socialista e democratico (Ordine Nuovo, Avanti!). Questi appunti in ordine sparso, scritti tra il 1916 e la scissione di Livorno (1921), vengono sistematizzati e finalizzati da G. nello scritto (rimasto incompiuto) del 1926 “La Quistione Meridionale”. Nello scrivere intorno a questi temi emerge la sofferenza di Antonio, giovane sardo che si reca nella capitale industriale d’Italia per studiare all'università e porta con sé un bagaglio esperienziale tipico di una realtà contadina, isolana e isolata dal resto d’Italia. Questo sofferto provincialismo ha condizionato fortemente il giovane Antonio e traspare in modo evidente, soprattutto dai primi scritti sul Mezzogiorno e le sue problematiche post-unitarie.
La Q.M. ha visto molti intellettuali di inizio secolo misurarsi con le problematiche proprie del Sud; G. attento osservatore ne cita diversi: Francesco Coletti, economista e membro autorevole dell’Accademia dei Lincei, scriveva che “... l’unificazione delle regioni italiane sotto uno stesso regime accentratore, aveva avuto per il Mezzogiorno conseguenze disastrose”. E ancora G. scrive “l’unificazione pose in intimo contatto le due parti ... l’accentramento bestiale ne confuse i bisogni ... l’effetto fu la migrazione di ogni denaro liquido dal Mezzogiorno al Settentrione e l’emigrazione degli uomini all'estero (fino al 1861 l’emigrazione era appannaggio esclusivo del nord Italia) ... il protezionismo industriale rialzava il costo della vita al contadino calabrese ... le guerre eritree, quelle di Libia, ... assorbirono i risparmi degli emigrati (meridionali). Si parla ... di mancanza di iniziativa nei meridionali, è un’accusa ingiusta ...”. Aggiungerei, col rispetto dovuto ad Antonio, che infatti non è possibile spiegare altrimenti la imprenditorialità estremamente creativa ed efficace degli emigrati del Sud in  Canada, Stati Uniti, Australia, Venezuela, Messico, Europa! Emigrati che contribuirono loro malgrado, con i risparmi sudati spediti in patria alle poverissime famiglie e intercettati dall'insaziabile sete di denaro dell’indebitato stato italo-piemontese (le cui reiterate spese militari avevano aperto una voragine nei conti dello Stato), a ripianare l’enorme buco di bilancio creato dalle scellerate scelte militari di un colonialismo italicamente straccione .
Si evince inoltre da quanto sopra riportato che la propensione di G. per uno Stato organizzato in modo federale fosse implicitamente una scelta ponderata; a questo proposito scrive: “il Mezzogiorno non ha bisogno di leggi speciali e di trattamenti speciali. Ha bisogno di una politica generale, estera ed interna, che sia ispirata al rispetto dei bisogni generali del paese ... per compensare i danni che le regioni hanno subito per causa della guerra”. E inoltre: “Il protezionismo in Italia ... ha saputo abilmente rendere antagonisti gli interessi immediati delle campagne con quelli delle città e di una parte dell’Italia contro l’altra ... spetta ai proletari urbani ... meglio preparati alla lotta ... con la loro resistenza ed opposizione, anche violenta, di smontare la vecchia macchina camorrista”.
G. sbugiarda inoltre la propaganda populista basata sul motto “La terra ai contadini!”: gli agrari del Nord fanno fissare il prezzo massimo del grano sulla base della bassa produttività dei terreni del Sud; così facendo spuntano per i cereali prezzi molto alti se comparati alla grande produttività dei terreni padani, realizzando così guadagni enormi e prima impensabili. Il richiamo di G. è al proletariato del nord, pesantemente penalizzato dall'aumento immotivato del prezzo del pane: “Uno sciopero a Torino, per un minacciato aumento del pane, può salvare la Sardegna e la Calabria dalla mania disastrosa di tagliare gli alberi per seminare il grano” ( su terreni improduttivi), mentre gli stessi alberi sono “la vera e più redditizia fonte di ricchezza” (per il Sud).
Il potere degli industriali e dei grandi latifondisti approfondì la cesura tra nord e sud, mettendo in contrasto gli interessi dei contadini meridionali con quelli del proletariato industriale del settentrione. G. smascherò questa politica del divide et impera esortando più volte le masse proletarie del Nord ad allearsi con i contadini poveri del Sud, per costruire una forza politica rivoluzionaria in grado di rovesciare lo stato borghese “ ... anche in modo violento ...” e edificare la nuova società comunista. Per fare questo è però necessario, secondo G., che il contadino povero cambi la sua radicata psicologia, che lo costringe in una logica egoistica e che lo spinge quindi a fiammate violente di ribellione che non conducono mai ad un qualche duraturo cambiamento della realtà sociale. “Il contadino ... non comprendeva l’organizzazione, non comprendeva la disciplina ... era impaziente e violento selvaggiamente nella lotta di classe”.
Paradossalmente la prima guerra mondiale ha realizzato una sorta di unità d’Italia reale, basata sulle sofferenze, la solidarietà, il cameratismo e la ricerca del bene comune, creando così in trincea “... un’anima comune unitaria ...” tra i militari provenienti da ogni angolo d’Italia. I contadini poveri hanno alla fine “... concepito lo Stato”. E parlando delle alleanze strategiche : “il problema della unificazione di classe degli operai e dei contadini ... si fonderà sulla ... vita comune in trincea”.
Ed ancora sul rapporto strategico nord-sud: “.... gli operai d’officina ed i contadini poveri sono le due energie della rivoluzione proletaria. Per loro ... il comunismo rappresenta una necessità essenziale ... La rivoluzione comunista è essenzialmente ... organizzazione e ... disciplina ... è necessario saldare le città alla campagna”. Questa estrema attenzione verso il rapporto contadini-operai, città-campagna, Nord-Sud, nasce in G. dall'analisi delle enormi differenze tra la Rivoluzione Francese ed il Risorgimento: i giacobini vinsero includendo a pieno titolo i lavoratori agrari nel processo rivoluzionario, il Risorgimento invece, diretto e orchestrato dall'infame Destra Storica del Conte di Cavour, puntò sulla divisione netta tra ricchi e poveri, tra industria del Nord e agricoltura povera del Sud (alleandosi però strategicamente con i latifondisti del mezzogiorno ben foraggiati e protetti dal governo piemontese).
In G. comincia a farsi chiara l’idea che l’alleanza nefasta tra città e campagna, così come realizzata nel periodo post-risorgimentale da industriali e latifondisti, avrebbe portato presto (nel tempo presente) a sbocchi reazionari, cosa che puntualmente si verificò di lì a poco con l’avvento del fascismo. Il motto demagogico La terra ai contadini! , coniato dalle forze di conservazione, deve essere per G. svuotato dai contenuti originari e interpretato in modo progressivo: “... le aziende agricole e le fattorie moderne devono essere organizzate per azienda agricola e fattoria ... le terre a coltura estensiva devono essere amministrate dai Consigli dei contadini poveri ...”. Cosa ottiene il contadino che occupa una terra incolta non avendo credito bancario, né macchine agricole né abitazione sul terreno, né cooperative di supporto? Soltanto la disperazione e la rabbia violenta, indisciplinata e feroce, che lo escluderanno per sempre da qualsiasi ipotesi di lotta organizzata. “... Gli operai e i contadini rivoluzionari ... hanno visto ... il cretinismo parlamentare, l’illusione riformista ... la controrivoluzione. ... La borghesia settentrionale ha soggiogato l’Italia meridionale e le isole e le ha ridotte a colonia di sfruttamento .. le masse contadine meridionali asservite alla banca e all'industrialismo parassitario del settentrione ... il controllo operaio sull'industria rivolgerà l’industria alla produzione di macchine agricole .. stoffe e calzature, luce elettrica per i contadini”.
Qui G. fa un accenno alla “favola” dell’inferiorità biologica e culturale dei meridionali: il riferimento implicito è chiaramente al criminologo veronese Lombroso che da positivista sosteneva che i meridionali avessero una naturale propensione a delinquere, confermata dai loro tratti somatici che li indicavano come anello di congiunzione tra la scimmia e l’uomo; Lombroso fu consigliere comunale a Torino nelle fila (indovinate un po') dei socialisti! In feroce polemica con lui (e con i suoi sodali) G. sostiene che non c’è ovviamente nessuna evidenza scientifica che indichi nel meridionale tendenze criminali a priori o una presunta deficienza cognitiva, e aggiunge: “... invece di studiare le origini di un evento collettivo e le ragioni del suo diffondersi ... si isolava (il soggetto) e ci si limitava a farne la biografia patologica ... (infatti) per una élite sociale gli elementi dei gruppi subalterni hanno sempre un che di barbarico e di patologico”. E ancora: “è noto quale ideologia sia stata diffusa in forma capillare dai propagandisti della borghesia delle classi settentrionali: il Mezzogiorno è la palla di piombo che impedisce i più rapidi progressi allo sviluppo civile dell’Italia; i meridionali sono biologicamente degli esseri inferiori, dei semi-barbari o dei barbari completi, per destino naturale”. (N.d.R: non vi ricorda qualcosa? a me, la sintassi del cosiddetto "vincolo esterno", secondo cui solo l'Europa può alla fine salvarci da noi stessi...). G. scrive questo nel 1926 e il riferimento al criminale (altro che criminologo!) Lombroso è evidente. Per questo bastardo e viscido servitore della causa piemontese la Q.M. è così risolta: il malumore dei contini del sud, il brigantaggio? Un problema di strutture anatomiche, di atavismo criminale!
E’ dunque questo uno dei miti fondanti dell’unità d’Italia, cioè che il Mezzogiorno d’Italia sia popolato da barbari e feroci criminali? E se così è, si può pensare ad un’Italia veramente unita senza riformare la coscienza degli italiani, a cominciare dalla falsa narrazione del Risorgimento e senza interpretare correttamente il fascismo come prosecuzione necessaria della politica coloniale nei confronti di un sud derubato, a partire dal 1860, delle sue ricchezze, come i meridionali della propria dignità?

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