La contraddizione a me sembra solo apparente, e se no sticazzi. D'altra parte, anche un altro prete è stata una figura fondamentale per la mia formazione (e di tutta una carrettata di miei concittadini, e immagino sia stato lo stesso nelle altre città che ha girato finché ce l'ha fatta): Gernaldo, il mio insegnante di religione al liceo. Uno che a scuola ci raccontava le barzellette e ci faceva educazione sessuale, ma poi mezza città andava regolarmente a gremire le messe della sua parrocchia in collina, e si anche perché quando non esistevano i cellulari se volevi incontrare qualcuno dovevi andare dove sapevi che si ritrovavano in tanti (e in tante), ma soprattutto perché le sue omelie erano impagabili. E uno con cui parlare, come a un amico, era così bello e istruttivo che l'ora di religione volava, mentre magari altri ne approfittavano per andare a giocare in cortile o se era l'ultima uscirsene prima, a chiacchierarci di adolescenza o disquisire di teologia. E alla fine mi dava Ottimo in religione, a uno ripeto non credente.
Ma torniamo a Don Milani. Se vi capita, in queste sere stanno passando, specie su alcuni canali secondari del digitale terrestre, sia documentari che fiction sulla sua vita, tra cui un bel film in cui lo impersona Sergio Castellitto: se potete, soffermatevi a guardarli. Sarà istruttivo, anche se probabilmente nessuno di essi mostrerà fino in fondo (girandoci invece attorno) la potenziale dirompenza del suo pensiero e della sua azione (mai disgiunti). La scuola, come ogni altra istituzione di una data società, ha la sua funzione principale e fondativa quella di riprodurre quella società. L'alfabetizzazione di massa non è una bella concessione ai sudditi nel loro interesse, ma una conseguenza logica della rivoluzione industriale volta a una almeno minima riqualificazione della manodopera nell'interesse quindi dei potenti. Questo assioma marxiano, che ritroviamo in varie salse fino ai giorni nostri, era particolarmente palpabile nell'Italia del secondo dopoguerra, dove il sistema scolastico era dichiaratamente (e senza vergognarsene) estremamente classista. Ora, che il cristianesimo delle origini e il marxismo di base abbiano molti punti di contatto è certificato, più ancora che da ragionamenti filosofici, dalle barzellette (tipo quella in cui Marx chiedeva a Gesù come mai visto che ogni suo messaggio in fondo era simile ai suoi lui stava in paradiso alla destra del Padre mentre lui stava all'inferno, e Gesù rispondeva "perché tu hai detto che io non esisto"), che se non si basano su un fondo di verità non fanno ridere. Ma che fosse un prete di campagna, anzi mandato in campagna per punirlo di certe sue posizioni, a denunciare a parole e combattere a fatti questo classismo, ebbe una eco così grande che ai tempi in cui crescevo io non solo non si era ancora spenta (a oltre dieci anni dalla morte del protagonista) ma stava ancora dispiegando tutto il pieno dei suoi effetti.
Due sono i suoi scritti più famosi: la sua lettera di risposta ai cappellani militari che si schierarono contro la nascente obiezione di coscienza (la leva era obbligatoria, e chi si voleva sottrarre a questa inutile e assurda corvée o si faceva raccomandare, spesso riuscendoci, o si dichiarava obiettore, e all'inizio andava in galera, poi una legge lo consentì ma senza impedire angherie e ingiustizie: ai miei tempi una commissione sindacava volgarmente i tuoi principi e poi comunque ti facevano fare otto mesi di servizio in più, cioè se non avevi un lavoro allontanando il momento che potevi cominciare a cercartelo, se come me lo avevi togliendoti 20 mesi di stipendio, 26 se eri di marina, comunque otto in più), famosa per la frase che dà il titolo a questo post, è perfettamente adatta a descrivere anche quello che sarebbe successo nei decenni successivi fino alla guerra in cronaca; e la Lettera a una professoressa, scritta assieme ai suoi alunni, folgorava sulla via di Damasco noi ragazzi che la leggevamo in quegli anni. Anche voi che non seguite mai i link di cui dissemino i miei post, e siete la maggioranza, per i due di questo capoverso fate uno sforzo, è per il vostro bene.
La professoressa trattando tutti uguale credeva di essere giusta, ed era invece sommamente ingiusta in un contesto in cui le differenze di partenza erano enormi, e un famigerato articolo della Costituzione declamava che era compito della Repubblica neutralizzarle. Cos'altro sarebbe, se non questo, la democrazia? L'obbedienza non è una virtù, poi, se vogliamo è una stella polare, per l'esistenza di chi obbedisce a un ordine solo quando lo ha capito e in qualche modo condiviso, costi quel che costi. Cos'altro sarebbe, se non questo, la libertà?
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