Giuro che ho una foto di me adolescente identico a Lucio in questa tratta dalla copertina di Cambio |
Lucio Dalla nasce il 4 marzo 1943, e questo lo sanno tutti perché è il titolo del suo brano più noto, anche se ne ha scritti centinaia di quasi altrettanto famosi. Da ragazzino suona in orchestrine jazz, e poco più che ventenne esordisce come "urlatore" con un 45 giri dal titolo Paff-Bum. Fa comparsate poi piccole parti al cinema, e intanto si fa largo come interprete grazie a una fisicità particolarissima, che ispira simpatia immediata anche nei bambini (vedi sopra). A Sanremo canta ancora, e qualche anno dopo è il successo: sfiora la vittoria con la canzone scritta dalla paroliera Pallottino che personalizzerà per sempre grazie al titolo/data, poi porta Piazza grande di Ron, che canta invece la sua Il gigante e la bambina (i due sono già più che amici, in tempi in cui non si poteva dire), pezzi ancora tra i più karaokati di tutti. L'anno Sono anni in cui vende tanti dischi, e sforna brani di successo come La casa in riva al mare, Il cielo, Anna Bellanna, Ma a Lucio non basta: nasce dal jazz, viene dal blues e dal soul - suonava le cover di James Brown con un gruppo chiamato gli Idoli (ho un live pubblicato molti anni dopo) - e fiuta che per la musica leggera italiana è venuto il tempo di un'aria nuova. E' fra i primi a cambiare strada, e paga la scelta con anni di fame vera: già nell'album Storie di casa mia, quello di 4 marzo, infila pezzi come Il bambino di fumo e Il colonnello che fanno presagire la svolta. Nei primi anni 70 pubblica tre capolavori assoluti, due che hanno venduto pochissimo (Il giorno aveva 5 teste e Anidride solforosa), uno che lo rilancia (Automobili, quello con Nuvolari e la futurista Mille miglia prima e seconda), scritti a 4 mani col poeta Roberto Roversi.
Fu allora che lo vidi dal vivo la prima volta: suonò alla Festa dell'Unità a Reggio Calabria, avevo 13 anni, lui aveva le pezze al culo, era venuto in treno e meno male che la villa comunale era vicina alla stazione. Era già matura la svolta della sua carriera, stava già scrivendo i suoi primi testi per l'album della consacrazione definitiva. Comprai Com'è profondo il mare pochi giorni dopo la pubblicazione, con i soldi racimolati a Natale, a dicembre del 1977. Era il mio primo vinile. Parlo per chi ha meno di trent'anni: comprare un vinile era un'esperienza. Costavano cari, con gli amici ci si divideva l'incombenza in base ai gusti e poi ci si faceva le cassette: non è vero che la pirateria è figlia dell'informatica, sono quei cretini dei discografici che oggi pretendono di venderti caro e amaro un pezzettino di plastica che si sente uguale a quanto scarichi gratis - allora ti vendevano un oggetto che non potevi duplicare. Io conservo tutti i miei vinili come reliquie, sono come nuovi e si sentono ancora benissimo, molto ma molto meglio dei CD (grazie anche allo stereo dell'epoca, perfettamente funzionante perché prodotto in tempi antecedenti a quelli dell'obsolescenza programmata e del consumo di massa), e di tutti i più belli ricordo perfettamente, come fosse adesso, l'emozione nel tagliare la plastica, sfilare il disco, e ascoltare le prime note sfogliando la copertina. Ricordo esattamente cosa pensai alla schitarrata iniziale di The Joshua tree, a quella a tradimento dopo pochi secondi di Love over gold, agli effetti di The final cut, e al fischio di Com'è profondo il mare.
Negli anni 70 e 80 Dalla sfornò solo capolavori, nel 79 io e mio cugino Filippo per poter vedere Dalla e De Gregori in Banana Republic ci dovemmo appollaiare sul muro di cinta dello Stadio comunale di Reggio, in tre anni da decine di spettatori a decine di migliaia, pericolosamente sporgenti con le schiene su un baratro di venti metri. Filippo e io qualche anno prima ci eravamo scambiati i regali della prima comunione, lui a me una racchetta io a lui una chitarra, così adesso i pomeriggi passavano lui suonando io cantando le meraviglie di allora, da Bennato a De Gregori, da Guccini appunto a Dalla. Ma anche gli anni seguenti hanno visto Lucio, pur se via via a tratti impersonante come tanti altri una caricatura di se stesso, uscire con gioiellini nascosti magari dentro album dalla qualità media nettamente inferiore, perché anche la creatività di un genio ha andamento di parabola: Apriti cuore, Siciliano, Ayrton, per dirne alcune. E sono andato a rivedere a teatro lui e De Gregori con un filo di preoccupazione, felice di essere smentito: hanno proposto una scaletta di perle, senza cedere alla tentazione di promuovere gli ultimi dischi.
Tra questi capolavori sono indeciso se salutare il mio amico scomparso con Siamo Dei o l'altra qui sotto: tra il dissacrante e il romanticamente significativo scelgo quest'ultimo perché riconosco che oggi è giusto prevalga la tristezza. Ma prima aggiungo un'altra noticina autoreferenziale, con un pensiero e un abbraccio a un altro amico (solo fisicamente) lontano: Antonello. Eravamo compagni di banco al liceo, al primo banco perché avevamo capito che era il modo migliore per farsi i cavoli propri senza farsi beccare, e io gli scrivevo sul diario i testi delle canzoni, che ricordavo a memoria. Facevo già il DJ in radio, erano tempi d'oro, e ne sapevo parecchie, ma spesso insistevo con Dalla anche perché era il suo preferito, e talvolta la memoria mi tradiva, ma da buona norma radiofonica piuttosto che lasciare il rigo bianco improvvisavo qualcosa di metricamente azzeccato. Fu così che il verso di Cara "io lì sotto ero uno sputo" diventò il titolo di questo post, e io ancora oggi quando sento quella magnifica canzone d'amore immagino Lucio Dalla sudato, peloso col cappellino di lana in pieno agosto, che sputa nel piatto, lì accanto un bicchiere di rosso di Pellaro. Sono 35 anni che come due scemi io e Antonello quando ci vediamo ricordiamo questa cosa e ci spanziamo di risate: ti abbraccio amico mio, salutiamo assieme il nostro amico Lucio con un brano dal titolo che non è un modo di dire.
p.s. Dimenticavo: con Antonello eravamo in prima fila al concerto di Dalla davanti al Botteghelle, che di li a qualche giorno avrebbe visto l'esordio in A1 della Viola Reggio Calabria di Basket proprio contro la Virtus Bologna. Sapendo che era un appassionato di pallacanestro e grande tifoso virtussino, avevamo deciso di provocarlo urlando tutti in coro Forza Viola ad ogni cambio di canzone. Dopo 4 o 5 volte, forse anche perché aveva capito che era l'unico modo per zittirci, Lucio rispose: "a parte che forza Viola sono d'accordo anch'io. Io sono un grande giocatore di basket, lo sapete? gioco pivot! e spero che la Viola faccia un gran campionato, a parte ovviamente la prima partita". Ho il nastro, se riesco lo digitalizzo e posto, per ora fidatevi. La Viola battè la Virtus, che qualche anno appresso la salvò da un fallimento che dopo qualche anno ancora avrebbe accomunato il destino di entrambe le squadre. La Virtus è tornata in serie A, la Viola è rinata e prima o poi ce la farà: Lucio, uno dei nostri cori al palazzetto era "noi non moriamo mai".
2 commenti:
Poteva anche essere un lamento nei confronti di un impiattatore troppo parsimonioso... Gran post, al solito.
Invece ora ho scoperto che nel citofono di casa sua, a Bologna, la targhetta è del suo pseudonimo preferito: Commendator Domenico Sputo. Incredibile personaggio...
A proposito, il programma di fumetti che presentava non era Gulp, ma Eroi di cartone, il che dimostra che è vero che ho scritto a braccio e di getto il post.
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