C'era una volta un diciassettenne con la testa piena di parole che in parte traduceva in poesie (come moltissimi a quell'età, passata la quale scrivono poesie solo i poeti e i cretini, come diceva De Andrè citando Croce), in parte usava per intortarla alle ragazze (di allora: mica era facile convincerle a concederti qualcosa che almeno in parte tacitasse i tuoi ormoni in ebollizione) e filosofeggiare a due lire con gli amici. La scena di cui si tratta si svolge dentro la panda 30 (quella coi sedili ad amaca e il motore della 126) dell'unico della truppa che avesse già una macchina. I cinque riflettevano a voce alta sul fatto che a giorni avrebbero fatto gli esami di Stato e poi chissà se si sarebbero visti più, in ogni caso quel quinquennio di liceo era passato. Il nostro eroe, approfittando di un attimo di silenzio, se ne uscì con una frase dal tono accorato: "simu 'i passaggiu", e non credo occorra tradurla. Gli altri, presi in contropiede dalla incongrua serietà dell'espressione di austera saggezza, tacquero tutti, per qualche secondo di totale silenzio e serietà che allora sembrò un'eternità. Poi uno dei quattro lo prese dal gomito e glielo spinse via, accompagnando l'inequivocabile gesto (quello del "ma mi faccia il piacere!" di Totò all'onorevole Trombetta, per capirci) con un sonoro "ma vafantoculu!", anche questo non necessario di traduzione, seguito da spintoni e perculamenti collettivi. Che ancora continuano, a oltre quarant'anni di distanza, ogni volta che uno della truppa (in parte i nostri sono ancora amici e si vedono ricorrentemente) rievoca l'episodio.
Quel diciassettenne infatti un paio di giorni fa ha compiuto sessant'anni, ed è l'ultimo della compagnia ad aver raggiunto questo traguardo. E (come disse Totti il giorno del ritiro dal calcio? "pensavo di morire prima") a stento ci crede. La sua frase di allora era incongrua ma ovviamente corretta, e a 60 anni la cosa si tocca con mano: se a 50 anni ancora potevi pensare, sia pure con molto ottimismo, di essere "nel mezzo del cammin di nostra vita" e di averne davanti altri 50, adesso semplicemente non puoi più, e l'orizzonte davanti a te inizia a mostrare con evidenza quanto sia corto. E tu oscilli tra due meravigliose canzoni di Vecchioni: Sogna ragazzo sogna ("la vita è così grande che quando sarai sul punto di morire pianterai un ulivo, convinto ancora di vederlo fiorire") e La viola d'inverno (che in modo strano per me si intreccia con un altro capolavoro del cantautore partenomilanese: Figlia).
Di quella classe, un paio se ne sono andati troppo presto, alcuni chissà dove sono finiti, ma molti ancora si sentono e un gruppetto, come detto, ogni tanto si vedono. Come è normale, hanno passato tutti i loro guai, chi piccoli chi grossi chi enormemente indicibili, ma si sono continuati a voler bene, spesso aiutati o sostenuti l'un l'altro, talvolta concretamente. Ma sempre, sempre, ogni volta che si ritrovano, non sono dei sessantenni a incontrarsi e relazionarsi, ma dei diciassettenni con fattezze strane per quell'età. "Sweet dreams are made of this..."
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