mercoledì 22 settembre 2021

SI NASCE LIBERI, MA...

Il titolo del post è dell'autore, che volutamente ci lascia i puntini per completarlo. La frase che è venuta a mente a me è "...ma chi rinuncia alla libertà per la sicurezza perde sia l'una che l'altra". Gli è che il post di Pasbas dimostra un'altra frase lapidaria, di cui spesso dimentichiamo la validità intrinseca: "chi dimentica il passato è condannato a ripeterne gli errori". E dunque affrontiamolo con la giusta chiave di lettura: sembra, parlare di ieri, ma purtroppo parla di oggi.

Si nasce liberi, ma...

di Pasbas

Uno.

«E’ dai ragazzi che bisogna cominciare se vogliamo cambiare qualcosa, caro Gennaro».

Gennaro Nuvoletta, carabiniere, racconta: «Domenico, bravissimo ragazzo, lavorava alla Prefettura di Palermo, Il prefetto lo sceglie come autista e come agente di scorta....».

Il procuratore generale di Agrigento Pietro Giammanco dice di lui: «Si distingue per intelligente, oculata, intensa e proficua attività, per versatilità d’ingegno, ottima cultura e retto senso giuridico. Nelle istruttorie affidategli dimostra capacità, zelo e correttezza. Rappresenta degnamente l’ufficio nelle udienze penali dando prova di possedere talento e acume».

Papa Francesco lo racconta così: un uomo e magistrato che «continua ad essere un esempio, anzitutto per coloro che svolgono l’impegnativo e complicato lavoro di giudice…..è un esempio non soltanto per i magistrati, ma per tutti coloro che operano nel campo del diritto: per la coerenza tra la sua fede e il suo impegno di lavoro, e per l’attualità delle sue riflessioni».

Due.

Pietro Nava ha detto “lo rifarei” perché si è sentito ben protetto da uomini di alta umanità e professionalità, capaci anche di giocare con i suoi ragazzi… Anche se non supportato in alcun modo dallo Stato.

Ultime parole del magistrato: “no picciotti, che fate?

Tre.

Guido Soragni: « ...un poliziotto, arrivato di corsa, sparò una raffica a bruciapelo contro un ferito, che morì sul colpo. L'altro ferito, mentre cercava di soccorrere il caduto, venne raggiunto da una raffica di mitra sparata sempre dallo stesso poliziotto... ». 

Compagno Ovidio Franchi, compagno Afro Tondelli
E voi Marino Serri, Reverberi e Farioli
Dovremo tutti quanti aver d’ora in avanti
Voialtri al nostro fianco per non sentirci soli

La CGIL: accusò i latifondisti di voler "soffocare nel sangue le organizzazioni dei lavoratori".

«Alle 3 del mattino lascio la mia casa e vi ritorno alle ore 3 del pomeriggio e dopo 12 ore di duro lavoro ritorno ai miei cinque figli con nemmeno 500 lire e con la schiena rotta.»

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C’è un filo che unisce queste frasi dette in circostanze diverse, in luoghi diversi e da persone diverse, il filo è l’aspirazione dell’essere umano alla propria dignità attraverso la sua capacità di autodeterminazione, grazie alla intoccabile Libertà di decidere della propria vita. 

A tal proposito, ecco come la Treccani definisce il termine Libertà: “facoltà di pensare, di operare, di scegliere a proprio talento, in modo autonomo”. E nel diritto: “Dal punto di vista giuridico, per L. si intende in linea di massima il diritto di ogni individuo di disporre liberamente della propria persona”. E’ per questo diritto inalienabile del singolo che le persone protagoniste delle storie di cui parlo hanno combattuto, anche a costo della vita.

Adesso però ricominciamo dall’inizio: ho scelto di raccontare questi eventi perché sono emblematica testimonianza di quanto gli uomini (pochi purtroppo) siano intenzionati a spendersi per preservare a tutti i costi la loro “facoltà di pensare, di operare, di scegliere a proprio talento, in modo autonomo”.

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Uno.

Siamo nel ’43, più precisamente  è l’8 settembre, momento chiave nella storia recente dell’Italia. Forze armate allo sbando, truppe tedesche hanno invaso l’Italia entrando in massa dal Brennero, l’Italia firma la resa con gli Alleati (ennesimo tradimento!?). Il caos è totale, centinaia di migliaia di militari che si danno alla fuga, ma non tutti: alcuni rimangono e si uniscono alle forze partigiane già operanti in Italia (P.ta S. Paolo - P.le dei Partigiani ne è uno degli esempi più noti e importanti).
E’ dai ragazzi che bisogna cominciare se vogliamo cambiare qualcosa, caro Gennaro”. Questo diceva il generale al suo agente di scorta. L’8 settembre ’43, mentre tutti abbandonavano la nave che affondava, si era arruola nei Carabinieri per partecipare alla lotta partigiana. E’ il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa. Appena finita la guerra gira l’Italia a caccia di delinquenti di ogni genere, anche se “predilige” la lotta alla mafia. Opera 15 anni a Corleone, poi Firenze, Como, Milano e Roma. Quindi a Palermo nel ’66 e nel ’77 è al Comando Reg. N.O. ; arresta Curcio e Franceschini e diviene coordinatore delle forze dell’ordine contro il terrorismo BR. Indaga, con capacità indiscussa e dedizione, sulla brutale esecuzione di Moro, firmando così inconsapevolmente la sua condanna a morte. Manda una lettera al Presidente del Consiglio di allora, Spadolini: “La corrente Democristiana Siciliana facente capo ad Andreotti, sarebbe stata la famiglia politica più inquinata da contaminazioni mafiose”, lo stato ha fallito! Ormai il suo destino è segnato, isolato e abbandonato dalle istituzioni viene nominato prefetto a Palermo, dove continua con pochissimi mezzi ed in completa solitudine la sua attività investigativa, custodendo gelosamente la sua valigetta con l’incartamento sul delitto Moro.
Il suo agente di scorta Domenico Russo, nato il 27 dicembre 1950, è all’epoca dei fatti Guardia Scelta della Polizia di Stato, in servizio presso la Prefettura di Palermo; viene poi assegnato alla scorta del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa; sposa una ragazza siciliana, Fina, dalla quale ha due figli, Dino e Toni.
L’ho conosciuto, Domenico Russo – racconta Gennaro Nuvoletta, carabiniere e fratello di un altro Nuvoletta, Salvatore, ucciso dalla camorra a Marano il 2 luglio del 1982 – Io facevo già da autista e da scorta al generale Dalla Chiesa da quattro anni. Quando venne nominato prefetto di Palermo il 30 aprile, mi portò con sé. Domenico Russo, bravissimo ragazzo, lavorava alla Prefettura di Palermo. Facemmo subito amicizia, perché lui era campano come me. Il prefetto lo scelse come autista e come agente di scorta. Il generale mi chiese di istruirlo per una ventina di giorni perché conoscevo già le sue abitudini e i suoi metodi di lavoro. Avevamo in dotazione una Croma blindata col telefono a bordo che portai a Palermo i primi di maggio di quell’anno. Il ragazzo di Santa Maria Capua Vetere si dimostrò subito all’altezza”. 
Ho nostalgia della vita passata nella villa di campagna…la vita scorreva serena, ma il nostro dovere era di ritornare qui, sempre in prima linea, perché questa è proprio guerra, sai? E delle più difficili da combattere’’. Emanuela Setti Carraro nasce nel 1950 a Borgosesia, segue le orme della madre diplomandosi infermiera volontaria della Croce Rossa Italiana, esercita presso ospedali civili e militari, lavora anche nel campo delle disabilità.
Questi i protagonisti, ora i fatti.
Il generale e prefetto di Palermo Carlo Alberto dalla Chiesa il 3 settembre 1982 esce dalla prefettura a bordo di una Autobianchi A112 beige, alla guida la moglie Emanuela Setti Carraro; l’Alfetta dell’agente Domenico Russo segue a breve distanza. In via Isidoro Carini, una motocicletta affianca l’Alfetta di Russo che viene colpito da diversi proiettili esplosi da un AK-47. Una BMW 518 con a bordo i killer spara una pioggia di fuoco contro il parabrezza della A112, Dalla Chiesa e la moglie sono uccisi da trenta pallottole. Emanuela, crivellata di colpi, viene finita con un colpo di pistola al volto (sa dove gli incartamenti segreti del generale sono nascosti)..Russo, l’agente di scorta, morirà dodici giorni dopo, il 15 settembre all’ospedale di Palermo. “Qui è morta la speranza dei palermitani onesti", è la scritta apparsa sul luogo della strage). Questi tre difensori della legalità erano pienamente coscienti di cosa li aspettava, nonostante questo hanno lavorato, sofferto e sono morti per la nostra Libertà.

Due.

E adesso passiamo ad un’altra tipica “storia italiana”, la storia incredibile ma vera di Pietro Nava, “testimone di giustizia senza tutela” dello Stato. «Perché ho fatto questa scelta? Semplice: io ho avuto una famiglia che mi ha insegnato che devi avere senso di responsabilità, che quando tocca a te tocca a te. La persona ammazzata era un giudice, ma se fosse stato un pastore sarebbe stato uguale». E’ agente di commercio ed in auto sta percorrendo la statale che conduce da Canicattì ad Agrigento, quando qualcosa di strano accade nel suo specchietto retrovisore: un uomo scende dall’auto inseguito da tre individui, poi degli spari è più nulla.
Lo rifarei!” questo risponde all’intervistatore che gli chiede se sarebbe pronto a ripercorrere lo stesso arduo cammino. In mezzo ad un mucchio di Pilato dello stato e contro l’omertà si staglia la figura di quest’uomo comune, “eroe per caso”. Da quel momento la sua vita e quella della sua famiglia diventano un calvario, 30 anni passati a nascondersi, protetti da agenti che lui definisce persone impagabili. La loro vita va paragonata a quella di reclusi con condanne di 30 anni e nonostante questo lo stato gli fa difficoltà per rendere la sua pensione reversibile e quindi, in caso di decesso, lasciare alla moglie di che vivere: si premiano i pentiti ma si penalizzano i testimoni, è evidente che qualcosa nell’ordinamento italiano non funziona.
E da qui ci leghiamo all’altra storia, quella del giovane che fugge dall’auto bianca e che Nava vede nel suo specchietto retrovisore. Il procuratore generale di Agrigento Pietro Giammanco così ne parla: «Si distingue per intelligente, oculata, intensa e proficua attività, per versatilità d’ingegno, ottima cultura e retto senso giuridico. Nelle istruttorie affidategli dimostra capacità, zelo e correttezza. Rappresenta degnamente l’ufficio nelle udienze penali dando prova di possedere talento e acume».
Invece ai giovani magistrati inesperti chiamati a lavorare su fronti antimafia  non affiderebbe “nemmeno l’amministrazione di una casa terrena, come si dice in Sardegna, una casa a un piano con una sola finestra, che è anche la porta”, Francesco Cossiga, presidente della Repubblica e noto per la sua attività antidemocratica e  golpista (fonda lui Gladio). E con questa infame definizione diretta ad un integerrimo e scrupoloso magistrato, l’infame Presidente della Repubblica mette una pietra tombale sull’assassinio del “giudice, ragazzino”  (così da lui definito in tono chiaramente dispregiativo) da parte di tre sicari della Stiddha!
Nel 2019 Papa Francesco però dirà di lui che «continua ad essere un esempio, anzitutto per coloro che svolgono l’impegnativo e complicato lavoro di giudice. Lavorava in un tribunale di periferia: si occupava dei sequestri e delle confische dei beni di provenienza illecita acquisiti dai mafiosi. Lo faceva in modo inattaccabile, rispettando le garanzie degli accusati, con grande professionalità e con risultati concreti: per questo la mafia decise di eliminarlo. Livatino è un esempio non soltanto per i magistrati, ma per tutti coloro che operano nel campo del diritto: per la coerenza tra la sua fede e il suo impegno di lavoro, e per l’attualità delle sue riflessioni».
Rosario Livatino, il “giudice ragazzino”, è un magistrato di 37 anni che si occupa di investigare sulle proprietà e gli introiti della mafia agrigentina, in particolare la Stiddha, mafia emergente in conflitto con quella storica. Il 21 settembre 1990 l’auto del magistrato viene speronata da un’automobile e da una moto lungo la statale SS640 Agrigento-Caltanissetta. Quel giorno Rosario in tribunale avrebbe dovuto decidere alcune importanti misure di prevenzione che avrebbero minato gli interessi dei mafiosi (e quindi anche dei suoi assassini). Il magistrato esce dall’auto e cerca di scappare a piedi ma viene raggiunto e ucciso con 4 colpi di pistola. “Cosa fate picciotti?” sono le sue ultime parole. Un altro eroe, suo malgrado, nella infinita lotta tra il Bene ed il Male, la lotta per la nostra Libertà.

Tre.

Guido Soragni: « ...un poliziotto, arrivato di corsa, sparò una raffica a bruciapelo contro un ferito, che morì sul colpo. L'altro ferito, mentre cercava di soccorrere il caduto, venne raggiunto da una raffica di mitra sparata sempre dallo stesso poliziotto... ».L’ordine del Presidente del Consiglio nonché criminale Tambroni alle forze di polizia è "aprire il fuoco" in "situazioni di emergenza". .E’ il 6 luglio 1960 e la Camera Confederale del Lavoro di Reggio Emilia indice uno sciopero generale provinciale dalle 12 alle 24 «in seguito ai gravi fatti avvenuti a Licata e a Roma». Si dirotta il comizio nella centrale Sala Verdi (ridotto del teatro Ariosto) perché la Prefettura lo proibisce all'aperto, e viene vietato l’uso altoparlanti per diffondere il contenuto degli interventi all'esterno, su piazza della Libertà (sic!). 20.000 manifestanti sfilano in corteo e alcuni operai iniziano a cantare canzoni di lotta. Ma ecco che alle 16.45 una carica di un reparto di 350 poliziotti, al comando del vicequestore Panico, attacca. I carabinieri, al comando del tenente colonnello Giudici, partecipano alla carica entrando in piazza dal lato opposto. E’ una carneficina.
Lauro Farioli (1938), operaio di 22 anni, orfano di padre, sposato e padre di un  bambino; Ovidio Franchi (1941), operaio di 19 anni, il più giovane dei caduti; Marino Serri (1919), operaio[3] di 41 anni, ex-partigiano della 76ª SAP, sposato e padre di due bambini; Afro Tondelli (1924), operaio di 36 anni, ex-partigiano della 76ª SAP, è il quinto di otto fratelli; Emilio Reverberi (1921), operaio di 39 anni, ex-partigiano nella 144ª Brigata Garibaldi (commissario politico distaccamento "Amendola"), sposato, con due figli. Sono i "martiri di Reggio Emilia". Tutti uccisi a colpi di mitra e di pistola; si contano anche 21 feriti da arma da fuoco. Effettuati 23 arresti e molti manifestanti vengono denunciati. Le forze dell’ordine (?) sparano in tutto 182 colpi di mitra, 14 di moschetto e 39 di pistola. Al funerale, in forma civile e unico per le cinque vittime, partecipano 150.000 persone, fra le quali molti esponenti politici, ulteriore segno di istituzioni incapaci, ipocrite e colpevolmente negligenti;  Tambroni. criminale primo ministro, si dimette insieme con il suo becero governo appoggiato dai fascisti dell’MSI. Adesso i cinque operai assassinati dallo stato italiano riposano fianco a fianco nel cimitero monumentale di Reggio Emilia, compagni nella morte come nella vita.
Questo è quanto ha pagato in termini di sangue e dolore il popolo di Reggio Emilia per rivendicare il diritto di tutti noi alla Libertà.

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