venerdì 16 ottobre 2020

BRIGANTI, I PARTIGIANI DEL SUD

Meno male che ogni tanto ci pensa Pasbas a mandarmi un post su argomenti diversi: io sto periodo se penso di scrivere mi viene da parlarvi di covid19, e in particolare da ricordarvi come e quanto io avessi su queste pagine previsto quello che stanno facendo adesso (avvisando che concesso una volta l'arbitrio, sarebbe stato impossibile da fermare altre volte: con questi numeri possono terrorizzarvi e danneggiarvi ogni anno, e se gli serve lo faranno), e mi freno per non tediarvi, oppure vi propino un'altra di quelle recensioni musicali di cui avete già dimostrato che non ve ne frega niente.

Oggi torna sui briganti: l'altra volta avevamo messo un punto interrogativo, oggi lo togliamo. Prima o poi, vedrete, sarà verità storica ufficiale e condivisa chi erano veramente questi eroi prima massacrati e poi coperti di ignominia, com'è successo coi pellerossa, che da bambino mi immaginavo come "i cattivi" perché così ce li rappresentavano ma poi da ragazzo ho visto Soldato blu e ascoltato De Andrè, eccetera. Magari non sempre, ma spesso il tempo è galantuomo: oggi nessuno più si sogna di dire che Kennedy lo ha ammazzato Oswald, ormai oltre il 50% degli americani in sondaggi ufficiali ha dichiarato di non credere alla versione ufficiale dell'11 settembre, quindi è tempo che una narrazione alternativa della guerra di conquista truffaldina e antipopolare che chiamano Unità d'Italia si affermi fino a diventare luogo comune. Per la verità sul coronavirus è ancora troppo presto, ma salterà fuori anche quella. Intanto dilettiamoci con questa accuratissima ricerca storica.

I Partigiani del Sud

di Pasbas

La Guerriglia

E’ stato per me interessante scoprire che i Partigiani del Sud non erano poi così rozzi e inesperti (come hanno voluto farci credere) visto che tra loro molti erano gli ex militari (ufficiali, sottufficiali e soldati) del disciolto esercito borbonico. Quasi certamente avevano studiato a fondo le gesta del comandante germano Hermann, Arminius per i Romani, il cui monumento si erge nella zona del TeutoBurgerWald ed è visibile da molti chilometri di distanza, incutendo ancora timore. Egli attirò l'esercito romano guidato da Publio Quintilio Varo in una trappola creata precedentemente all'interno della foresta. I guerrieri tedeschi attaccavano le retrovie delle tre legioni, il cui corteo si dispiegava per alcune decine di chilometri, depredando le salmerie e uccidendo soldati e intere famiglie al loro seguito. Nessuno che li precedeva si rendeva conto di cosa stesse accadendo dietro di loro. Colpisci e fuggi fu la tattica vincente, i guerrieri continuavano a colpire distruggendo le retrovie. Quando gli ufficiali romani si accorsero di quanto accadeva tentarono una reazione ma, strette le truppe negli angusti sentieri dei boschi, per il potente esercito romano non ci fu scampo. Tre intere legioni furono completamente annientate da un numero esiguo di guerrieri ben organizzati. Nasceva così ufficialmente la Guerriglia. I Partigiani del sud impararono tanto bene queste tecniche, che il loro modo di combattere fu a lungo studiato in molte scuole di guerra. In parole povere, il Che non aveva inventato nulla, aveva probabilmente a sua volta ben studiato i cosiddetti Briganti del Sud Italia. Certo devo ammettere a denti stretti che non fu tutto bello ed eroico. Dopo una fase iniziale caratterizzata da un Brigantaggio politico di tipo lealista, in un secondo momento alle varie bande operanti in Basilicata, Campania, Puglie e Calabrie si unirono criminali di tipo comune, assassini di professione, ex galeotti. Ma il numero e l’esperienza degli ex militari ed i soldi che arrivavano dal Re Francesco II, asserragliato con la moglie nella fortezza di Gaeta, e da alcuni latifondisti della penisola (alcuni di questi conducevano uno sporco doppio gioco per mantenere comunque le loro posizioni di privilegio) consentivano alle bande di crescere in numero, armamenti e potenza di fuoco. Inoltre la popolazione li aiutava dando loro cibo, bevande, vestiario e armi e gli stessi briganti si autofinanziavano rubando ai ricchi possidenti, operando sequestri e vessazioni varie. Di converso aiutavano la parte più debole della popolazione con cibo, soldi e protezione dagli invasori, tanto che li potremmo definire in un certo qual modo dei moderni Robin Hood. Va anche ammesso però che l’immagine romantica del brigante galantuomo, difensore degli umili e degli oppressi, spietato con i forti e generoso con i deboli non sempre corrispondeva a verità (costa ammetterlo, ma lascio volentieri agli altri la scarsa obiettività). Ma cominciamo a fare la conoscenza di questi personaggi in bilico tra storia e leggenda.

Vita da Briganti/Partigiani

  • Carmine Crocco, il Generale dei Briganti
Detto Donatello o Donatelli, è stato uno dei più noti briganti del Risorgimento. Nato a Rionero in Vulture nel 1830, morì in carcere a Portoferraio agli inizi del Novecento a 75 anni. Fu il capo delle bande del Vulture-Melfese, ma il suo potere si estese anche in Capitanata ed Irpinia. Da bracciante agricolo divenne dapprima militare borbonico, poi si diede alla macchia e combatté per Giuseppe Garibaldi. Fino a diventare comandante di un esercito di duemila uomini e protagonista della guerriglia anti-sabauda. Probabilmente il destino feroce di Carmine Crocco fu segnato nel 1836, quando, ancora bambino, assistette ad una vicenda drammatica: Il fratello Donato uccise con un randello un cane levriero. Il padrone del cane, tale don Vincenzo, aggredì con un frustino Donato. Nel tentativo di difenderlo, la madre, incinta di cinque mesi, subì un calcio al ventre e abortì. Dopo questo triste evento Crocco, attraversando varie peripezie, si arruolò nell'esercito di Ferdinando II diventando sergente; ma abbandonò l’esercito dopo aver ucciso un uomo che si era invaghito della sorella.Tornato a Rionero, fu arrestato e rinchiuso nel bagno penale di Brindisi il 13 ottobre 1855, ricevendo una condanna a 19 anni di carcere. Il 13 dicembre 1859 riuscì ad evadere, nascondendosi nei boschi di Monticchio sul Monte Vulture. Aderì ai moti liberali del 1860 unendosi agli insorti lucani, seguendo Garibaldi fino al suo ingresso a Napoli. Crocco però non ricevette la grazia promessa (come tutte le promesse dei garibaldini anche questa fu promessa da marinaio) e fu così arrestato dai garibaldini stessi. Ma riuscì nuovamente a scappare e a rifugiarsi nei boschi del Vulture. Allora fu approcciato da membri di comitati filoborbonici che gli diedero l'opportunità di riscattarsi, di diventare il capo dell'insurrezione legittimista contro lo stato italiano appena unificato, offrendogli un solido supporto di uomini, soldi e armi. Crocco decise così di passare alla causa di Francesco II. Anche per via dello stato di miseria in cui viveva il popolo lucano, che spingeva molti contadini ad unirsi ai rivoltosi, divenne il comandante di 43 bande al servizio di Francesco II, e quindi di fatto guidò la rivolta anti-sabauda. Però ad un certo punto l’esercito di Crocco si indebolì per il tradimento di uno dei suoi fedelissimi, il brigante Caruso, che rivelò piani e nascondigli di “Donatello” al generale piemontese fontana. Egli quindi fuggì nello stato pontificio nella convinzione che, dato il suo impegno nella difesa delle istituzioni cattoliche, il papa Pio IX lo avrebbe accolto. Invece fu catturato dai militari del Papa a Veroli e da qui estradato verso il nuovo stato unitario. Fu quindi condannato a morte l’11 settembre del 1872, ma la pena fu commutata nei lavori forzati a vita. Morì il 18 giugno del 1905 dopo aver completato la sua biografia, scritta peraltro in un italiano corretto (i piemontesi e i Savoia, ignoranti che non conoscevano l’italiano, parlavano ancora un dialetto francesizzante). Durante il processo intentato contro di lui, il Presidente della giuria, rivolgendosi all'imputato, esclamava: "Voi siete stato carcerato sotto il governo passato, carcerato a Roma, carcerato ora, respinto dalla reazione, respinto dai liberali, pare che per voi non vi è stata mai pace!" A queste parole l’ex capo-brigante replicava: "Mai pace in nessuna epoca e con nessun governo, cerchiamo di fare pace ora per carità…"
  • Il Sergente Pasquale Domenico Romano
Nacque a Gioia del Colle il 24 agosto 1833 e nel 1851 si arruolò nell'Esercito Borbonico, conquistando i gradi di Sergente, appunto. Visto l’immobilismo del comitato clandestino scelse la lotta armata, riunendo i compagni d’arme del disciolto Esercito Borbonico. Con essi formò la prima banda che attaccava guardia nazionale e piemontesi per procurarsi armi e munizioni. Il 28 luglio 1861 conquistò Gioia del Colle, col supporto determinante dei cittadini, mettendo in rotta i piemontesi e la guardia nazionale. Gli sconfitti per ritorsione perseguitarono la sua famiglia e gli amici più cari (metodo tipico dei bastardi invasori, sempre pronti a vendicare le sconfitte sui più deboli). Unita la sua banda con quella del Generale Carmine Crocco nel 1862, bloccò le strade di accesso per Andria e Corato. I partigiani distrussero le masserie di liberali ed ex garibaldini della zona, uccidendo senza pietà i “traditori del Popolo meridionale”. Il 1 Dicembre 1862 fu sorpreso con i suoi nella masseria dei Monaci, sede abituale della banda, in quel momento sguarnita di sentinelle, e la banda fu sterminata dai piemontesi; lui ed altri pochi partigiani riuscirono però a fuggire. Riuscito ad arruolare un’altra piccola banda ma il 4 gennaio del 1863 venne catturato vicino a Gioia del Colle. I piemontesi lo uccisero ma prima di morire gridò “EVVIVA O RRE!”, riferendosi ovviamente a Francesco II. Il suo corpo spogliato della divisa Borbonica fu caricato ed esposto in Gioia del Colle per un intera settimana. Con lui finì il brigantaggio in Puglia.
  • Chiavone, il brigante che ammirava Garibaldi
All'anagrafe Luigi Alonzi, era nativo di Sora ed era stato luogotenente del famoso Mammone (guerrigliero figlio di un mugnaio originario di Alatri che lavorava a Sora nei mulini concessigli in affitto). Fu chiamato Chiavone per quella enorme chiave di casa che da bambino aveva il compito di custodire al suo collo durante il lavoro che i genitori svolgevano nei boschi, era un "figlio d'arte". Infatti suo nonno, Valentino Alonzi, era un brigante sanfedista (tra l'altro, molto interessato al look militare dell’epoca, si era fatto una uniforme da generale, con galloni d'oro, bottoni, speroni, e scudiscio) distintosi per la sua capacità, fedeltà ed astuzia: nel gennaio del 1799 aveva guidato una rivolta nelle città di Sora e Isola Liri, insorgendo contro l'occupazione francese. Luigi invece dapprima aveva in grande simpatia garibardo che riteneva un grande comandante e che come lui sapeva affascinare ed irretire il popolino, gente povera che lo considerava una sorta di mitico eroe. Dopo una giovinezza dissoluta si arruolò nell'esercito borbonico e tornato a Sora fu nominato guardia forestale. Usò questo ruolo per accattivarsi le simpatie di montanari, carbonari e bracconieri, favorendo le loro attività illecite senza operare alcun controllo. Scoperto, evitò a malapena il carcere, ma continuò a tenere sotto il suo controllo la popolazione di Sora e dei dintorni. Tornato a Sora, fu arruolato nella guardia nazionale, dalla quale però uscì rifugiandosi a Casamari. Da qui minacciò il nuovo intendente di Sora e la guardia nazionale, intimandogli di abbandonare la cittadina immediatamente, pena la morte; rientrato in città rimase qui padrone incontrastato per cinque giorni, installandosi con i suoi nel municipio dove distrusse sistematicamente tutte le effigi dei Savoia e la bandiera sabauda, mentre risparmiò tutte le immagini di garibardo. Dopo di ciò, rifornite di armi e munizioni le sue truppe, tornò sulle montagne dimorando nell'abbazia di Casamari, dove teneva i contatti con Francesco II. Il piemontese De Sonnaz (uno dei tanti criminali di guerra, come già raccontato) tentò di catturare lui e la sua banda-esercito all'interno del convento, ma Chiavone ed i suoi riuscirono a fuggire. Ricevuta la chiamata alle armi dal generale borbonico Lagrange, Chiavone fu uno dei primi a rispondere aderendo con la sua banda alle azioni di guerriglia contro i piemontesi. Così, scacciò i piemontesi da Bauco (Bovelle Ernica), provocando molte perdite all’esercito invasore. Dopo questa vittoria, continuò con i suoi la lotta contro i piemontesi del colonnello Quintili: andò negli Abruzzi dove il 28 gennaio, a Frieti, il colonnello piemontese aveva sconfitto Christen e Chiavone uccidendo quasi tutti i loro uomini (i due avevano avuto appena il tempo di rientrare, accompagnati soltanto da alcuni briganti, negli stati del Santo Papa). Da questo momento in poi condusse una guerriglia frontaliera spostandosi tra stato pontificio e regno borbonico; tali scaramucce peraltro non portarono ad alcun risultato di rilievo sul piano militare. La fine cruenta ed infamante di Chiavone riassume la tragedia che aveva colpito l'antico regno. Infatti il capo brigante fu fatto fucilare proprio da un Comandante legittimista, il generale Rafael Tristany. Aveva infatti, per i Legittimisti, infranto il giuramento fatto a Francesco II di combattere secondo l’etica borbonica e non , come fece in più occasioni, utilizzando i cruenti e criminali metodi dei piemontesi. Difatti questo era il giuramento dei Legittimisti: "Io giuro fedeltà a Sua Maestà Francesco II, Re delle Due Sicilie. Io giuro obbedienza alle leggi di guerra, che dichiaro di aver compreso. Io giuro di vivere da prode soldato e di morire, se Dio lo vuole, per la difesa della nostra santa causa. Amen." Credo sia importante qui considerare l’abisso di etica civile e militare che separava i meridionali dai piemontesi, mai colmato.
  • Pizzichicchio
Questo brigante faceva scorrerie nel tarantino, tra Martina Franca e San Marzano. La leggenda dice di un immenso tesoro che voleva consegnare ad un massaro suo amico; sembra però che questi abbia rifiutato, conoscendo la provenienza di quei soldi, dovuti a rapine e malversazioni varie. Musulino (vero nome del bandito) organizzò una banda di 37 uomini, pastori, artigiani e contadini, tutti giovanissimi, che lo veneravano come un eroe. La sua fama si diffuse anche nel barese, teramano e salentino, luoghi nei quali divenne capo anche di bande locali. Il suo covo si trovava nel bosco delle Pianelle, nella zona detta “Tavola del brigante”. Partendo lui con i suoi da lì per un raid nel materano, fu intercettato dai piemontesi e dalla guardia nazionale che li sterminarono quasi tutti nella masseria Belmonte. Pizzichicchio riuscì a fuggire nascondendosi e imboccando sembra un passaggio segreto. Dopo qualche tempo gli uomini della guardia nazionale, in perlustrazione nella zona di Crispiano, entrarono nella masseria Ruggirruddo per riparasi dal gran freddo. Scorsero un anello nella cenere del camino e, guardando in alto, scoprirono il partigiano nascosto nella canna fumaria. Consegnato alla Corte Marziale di Potenza, fu condannato a morte; come estremo sfregio alla sua dignità fu fucilato alla schiena, come fosse un traditore.
  • Francesco Monaco
Come tanti altri partigiani fu tradito e morì per mano dei suoi stessi compagni. Aveva rapito una ragazza compaesana ma con il suo consenso: se l’avesse seguito avrebbe ricevuto un premio in denaro. Una volta alla macchia lei visse accanto a lui condividendone disagi e rischi. Un giorno alcuni della banda tentarono di violentare la ragazza, allora Monaco intervenne e decise di disarmare l’intera banda e allontanare i responsabili della tentata violenza. Per vendetta questi ultimi gli tesero un agguato e lo uccisero.
  • Papa Ciro
Don Ciro Annichiarico, prete di Grottaglie, entrò in rivalità con don Giuseppe Motolese, un altro prete che come lui era innamorato di una certa Antonia. In un accesso di gelosia Ciro uccise il suo rivale e fuggì dal paese per non essere arrestato. Per 15 anni questo brigante spretato imperversò nella zona di Francavilla d’Otranto compiendo razzie e crimini vari con la sua banda, una setta chiamata I Decisi.Alla fine le truppe regolari lo stanarono nella torre della Masseria Scasserba, dove la setta si era asserragliata per tentare un’estrema ultima difesa. Catturato, dopo aver confessato 70 omicidi, fu fucilato nella piazza di Francavilla d’Otranto.

Vita da Brigantesse/Partigiane

Donne coraggiose queste nostre brigantesse, che ricordano da vicino le nostre partigiane della seconda guerra mondiale impegnate come soldati, servizi di intelligence, staffette e supporto logistico durante l’unica vera rivoluzione che abbia visto questo nostro Paese, la Resistenza appunto. Ma una differenza c’è e non è trascurabile: nel primo caso si trattava di donne nate nella prima metà dell’800 al Sud, perlopiù in piccoli centri, con poca istruzione, e che destavano scandalo nei rispettivi paesi di provenienza per la loro indipendenza e la loro intelligenza. Anche qui le donne ebbero più ruoli durante la lotta partigiana di contrasto all'invasione dei criminali piemontesi, cioè supporto logistico, compagne o mogli dei partigiani, addette alle vettovaglie, alla cura dei feriti e alla gestione della vita famigliare, inclusa la cura dei figli. Per ultimo le soldatesse partigiane in alcuni casi divennero anche capobanda. Queste ultime erano donne decise, capaci di sparare, progettare e tendere agguati e in molti casi mostravano una cattiveria e una crudele spietatezza da far tremare le gambe agli invasori. In tono dispregiativo queste partigiane venivano appellate col termine Drude, cioè donne di malaffare o donne sottomesse ai propri uomini (il termine druda comunque nella sua accezione corretta significa donna e amante fedele, e viene dal provenzale, lingua dei trobadores). Queste donne furono perseguitate come gli uomini e, quando erano di base nel loro paese e rifornivano i partigiani sulle montagne, venivano arrestate e maltrattate dai piemontesi come e più di quelle che si erano date alla macchia. Oltre questo dovevano subire anche le critiche e le malvagità dei compaesani, scandalizzati dal loro sfrontato comportamento. Queste donne erano in genere molto religiose e devote alla Madonna e pregavano spesso perché i loro uomini si ravvedessero ottenendo così il perdono di Dio. Desideravano sostanzialmente il ritorno ad una vita normale, lontane dalla miseria allevando i propri figli e amando fedelmente i loro uomini. E adesso è giunto il momento di fare la conoscenza di alcune delle brigantesse più note del periodo post-unitario.
  • Michelina De Cesare
Nata nel 1841 in Terra di lavoro, a Caspoli provincia di Caserta, si sposò nel 1861, ma il marito morì dopo brevissimo tempo. L’anno dopo incontrò un ex militare borbonico (Francesco Guerra) di cui si innamorò e che seguì in montagna, entrando a far parte della banda di Rafaniello. Quando nel 1861 Rafaniello morì, il Guerra divenne capobanda, e in un certo senso anche lei: infatti, Michelina partecipava alle scorrerie comportandosi dal punto di vista militare come e meglio degli uomini, che di conseguenza la rispettavano come un capo. Ed è proprio come una capobanda che lei agiva nelle incursioni contro l’esercito piemontese. Ma usando i soliti meschini mezzi di corruzione monetaria in cambio di delazioni il generale Pallavicini con i suoi carnefici li sorprese in una masseria; dopo averli crivellati di colpi, e non contento dello strazio dei loro corpi, li fece denudare ed esporre sulla pubblica piazza. Lo stato dei cadaveri era così degradato che i compaesani capirono a quali tremende torture furono sottoposti prima del colpo di grazia, sparato a freddo dai soliti vigliacchi piemontesi. Di lei e di Guerra rimane il vivo e emozionante ricordo di una delle coppie di partigiani che più avevano messo in difficoltà i criminali invasori.
  • Filomena Pennacchio
Nata nel 1845 a San Sossio Baronia, si sposò molto giovane con un impiegato di Foggia. Ma il marito la maltrattava e la picchiava, e allora lei, durante un ennesimo episodio di sevizie, reagì ficcandogli uno spillone d’argento in gola, uccidendolo. Per questo omicidio si diede alla macchia entrando a far parte di diverse bande. Per la sua determinazione e la sua bellezza fu contesa da diversi capobanda tra cui Crocco e Caruso. Ma fu lei invece a scegliere il suo compagno, Giuseppe Schiavone, col quale condivise scorrerie, fughe e momenti di tenera intimità. Furono catturati nel 1864 e lui, subito e senza processo, fu passato per le armi nella piazza di Melfi. Lei invece, condannata a 15 anni di lavori forzati, riuscì in qualche modo (forse tradendo alcuni briganti) a farsi ridurre la pena a 7 anni, dopodiché sparì nel nulla.
  • Marianna Oliviero detta Ciccilla
Nata in provincia di Cosenza nel 1841, sposò Pietro Monaco, ex soldato borbonico che si era dato alla macchia dopo un omicidio. Il Monaco andava periodicamente a trovarla in paese, nel contempo però aveva stabilito una relazione con la sorella di lei. Venutolo a sapere, Ciccilla uccise la rivale con brutale ed efferata violenza, a questo punto dandosi alla macchia anche lei, e proprio col marito. Morto quest’ultimo, divenne l’indiscussa capobanda degli uomini da lui comandati. Catturata e condannata a morte, per ragioni non note la pena fu commutata in carcere duro; rinchiusa nell'orribile lager di Fenestrelle, si dice che questa bella partigiana vi morì di stenti dopo 15 anni di detenzione.

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