domenica 20 agosto 2023

CARLETTO E TONINO

Per una di quelle strane coincidenze della vita, sono morti il 19 agosto i due decani allenatori dei due massimi sport nazionali, come se si fossero dati appuntamento. Sono moltissimi i punti di contatto, infatti, tra i profili di Carletto Mazzone e Tonino Zorzi, a cominciare dalla lunghissima carriera in panchina (record in serie A il primo, il secondo non so ma la sfilza di squadre allenate è impressionante): il carattere vulcanico (con le sole differenze di colore dovute alla latitudine di provenienza), il carisma paterno indiscutibile che gli consentiva di gestire parimenti il giovane emergente e la stella affermata, l'universale riconoscimento della loro statura tecnica e umana su e giù per lo stivale. Ma la similitudine più importante, quella più significativa al momento dell'addio, è l'appartenenza a un modo di intendere lo sport professionistico che purtroppo si è perso. E non fate così, non giratevi guardando alle spalle, perché sto indicando ciascuno di voi: è colpa vostra. O se no, disdite l'abbonamento televisivo e guardate le partite solo allo stadio, anche poche se non potete permettervele (tanto se fate tutti così prima o poi i prezzi scenderanno), e se non avete a tiro uno stadio di serie A o B andate al campetto a seguire la squadra locale nel campionato minore, senza stare continuamente a guardare il telefonino per la diretta o fosse anche solo il livescore del vostro squadrone del cuore di A.

E no, non è un vizio moderno. Da bambino mio padre mi portava, come tutti, allo stadio. La Reggina era dapprima in B, poi retrocesse per un lungo purgatorio tra C1 e C2. I telefonini non c'erano, ma molti si portavano le radioline per seguire Tutto il calcio minuto per minuto. Ma anche il cervello di quelli che le radioline non se le portavano era mezzo altrove, tanto che di quando in quando si sollevava una voce qua e là a chiedere "chi faci u Milan?" o "chi faci a Juventus?". Mio padre, a cui l'ironia non mancava (non gli sarebbe mancata neanche in punto di morte), ribatteva a voce alta, per percularli, "chi faci u Canicattì?", che era molto più efficace di un diretto "ma guardati la partita che hai davanti e non rompere i coglioni, scemo!", frase che invece non risparmiava ogni tanto a quegli ultras che passavano tutta la partita spalle al campo a dirigere i cori, che proprio allora iniziavano a spadroneggiare e che lui non riusciva proprio a capire. E nemmeno io, che di li a poco smisi di seguire il calcio per dedicarmi al basket della mia Viola, allora prepotentemente emergente.

Il Paròn (come tutti chiamavano Zorzi e prima di lui Nereo Rocco, per dire), un nordico di mare, allenò a Reggio Calabria in ben cinque distinti periodi, gli ultimi due effimeri per una squadra che già si capiva fosse senza futuro; ma lui diceva che a Reggio ci sarebbe tornato sempre, ogni volta che fosse stato chiamato, perché con la barca a vela da Trieste era un attimo. Dei tre periodi precedenti, molti ricordano giustamente il primo, eroico, con tanto di promozione in serie A, ma nel mio cuore resta incisa più di tutte l'impresa firmata nel 2001, quando raccattò i rottami della squadra costruita negli autogrill dopo il "ciclone Barbaro", che aveva subito tredici sconfitte iniziali consecutive, e aiutò a ricostruirla pezzo dopo pezzo alla fine sfiorando i playoff e costituendo l'ossatura che con Lardo avrebbe poi sfiorato lo scudetto. Di Carletto, che Totti giustamente ricorda essere nato il 19 marzo e non per caso, in questi giorni vi mostrano di continuo la corsa contro la curva dell'Atalanta dopo il miracoloso 3 a 3 del suo Brescia (con Baggio, che rivitalizzò), ma non vi dicono il vero motivo per cui quel gesto piace a tutti: è contro tutti i tifosi facinorosi e biechi, per qualunque squadra tengano e di qualunque sport. Perché ciascuno di voi, di noi, è in fondo in fondo ancora quel bambino che andava allo stadio o al palasport con suo papà, e che vorrebbe che tutti gli allenatori fossero come Carletto o Tonino.

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