E' il caso di questo racconto in prima persona, che ci consente di commemorare l'attentatuni in modo molto più efficace rispetto a quanto abbiate mai trovato in questo spazio, figurarsi rispetto alle tirate sulla mafia (che dimenticano sempre di parlare delle cause) o alle articolesse strappalacrime (che la buttano sul privato delle vittime per solleticarvi il velopendulo) che vi propinano da 28 anni e vi toccano anche dopodomani.
Francesca
di L'ElioEra da tempo che non mi capitava di essere aggredito dai fantasmi del passato.
Quando meno te lo aspetti vieni completamente avvolto dal tetro velo dei ricordi; basta una immagine apparentemente innocua; una parola profferita senza quasi volerlo; uno sguardo diretto di uno sconosciuto; un profumo noto che non riesci a catalogare e il ricordo comincia ad affacciarsi timidamente alla finestra della tua memoria, per poi, pian piano, diffondersi come una macchia d’olio sulla superficie del mare ed impossessarsi della tua mente, fino a non farti chiudere occhio per tutta la notte, sempre più anticamera di una notte più buia.
Angoscia, frustrazione, stanchezza: solo alcune delle sensazioni che provavo seduto su quella sedia, dopo aver subito l’ennesima umiliante perquisizione ed irreggimentato in una fila di disperati che condividevano il mio stesso destino nell'attesa della terza ed ultima dettatura del tema, nella terza ed ultima giornata di quella estenuante tortura.
Ero lì all'ennesimo concorso (questo era il più ambito, quello di magistratura), stiracchiando una stentata conversazione con il candidato seduto davanti a me, nel tentativo di allentare la morsa della paura, quando noto nel grigiore dell’immensa sala, gremita di gente ed illuminata dal neon nonostante l’ora del mattino, una figura femminile sul banco della commissione che sprigiona un’aura luminosa. Non so dire se fosse bella, ma destò la mia attenzione.
Subito chiesi al mio vicino di posto chi fosse. Lui, quasi stupito della mia ignoranza, mi rispose: “Ma come? Non la conosci? E’ la moglie di Falcone, Francesca Morvillo”. La guardai meglio, mi sembrava l’unica nota intonata in un concerto stonato e disarmonico. Aveva uno sguardo altero, ma, morbido; una eleganza nei movimenti che strideva con le mosse disarticolate dei tristi figuri che si aggiravano nei dintorni; un sorriso caldo come un raggio di sole di una primavera ormai inoltrata, ma, del tutto inesplorata fino a quel momento.
Mentre mi perdevo nei meandri della mia fervida immaginazione, cominciarono a dettare la traccia del tema; il battito forte del cuore mi fece capitombolare nella cruda realtà e mi sforzai di recuperare un minimo di facoltà mentali per cercare di scrivere qualcosa di dignitoso.
Alla fine della giornata, dopo aver scritto per ore discettando su inestricabili questioni giuridiche, decisi che più di tanto non avrei potuto fare e, con la testa teatro di una battaglia fratricida in corso tra neuroni, mi recai a consegnare il mio compito.
Alla cattedra della commissione ad accogliermi con un morbido sorriso c’era proprio lei, che, inaspettatamente, mi chiese: “Allora? Com'è andata?”. Un effluvio di calore inondò la mia gelida anima, inariditasi in quel deserto artico vissuto per tre lunghissimi giorni, e con banale timidezza accennai ad un: “Bene, almeno spero”. E lei: “In bocca al lupo!”. Le ricambiai il sorriso e uscii da quell'inferno soffocante respirando finalmente quell'aria suadente che solo l’ultima parte della primavera coincidente con l’estate incipiente sa donare. In un centesimo di secondo le mie funzioni vitali si riaccesero e mi accorsi che la vita intorno a me in quel periodo era continuata, noncurante delle mie stupide afflizioni concorsuali. Senza neanche accorgermene, entrai in una chiesa nelle vicinanze e, forse per la prima volta nella mia vita, pregai: certo una preghiera laica senza formule sacramentali, ma una preghiera vera che mi sgorgò dal profondo in maniera spontanea e che mi procurò uno stato di benessere quasi estatico, agevolato dal silenzio assoluto e mistico di quel luogo.
A distanza di tempo ho dovuto ammettere che quella preghiera è stata ascoltata, il che ha cominciato a far traballare le mie atee convinzioni e a far germinare dentro me stesso il seme quanto meno del dubbio circa l’esistenza di qualcosa oltre la morte.
Dopo questo momento di isolamento spirituale, mi dedicai ad attività più prosaiche e soprattutto a tuffarmi in quel mare che tante volte avevo desiderato in quei mesi di ritiro forzato a casa.
Ci organizzammo per i giorni successivi con la mia compagna del tempo, anche lei presa dalle mie stesse beghe concorsuali, per andare al mare.
Leggerezza, desiderio, vitalità: solo alcune delle sensazioni che provavo guardando negli occhi quella meravigliosa creatura che avevo accanto, mentre, guidavo la mia auto verso la meta agognata.
Ci fermammo ad un bar sulla strada per fare colazione e vi entrammo, come solitamente ci capitava, ridendo senza motivo, solo perché pensavamo di essere felici.
C’era un televisore in quel bar e all'improvviso vidi quel viso che tanto mi aveva colpito e che, ora, non era più attraversato da un dolce sorriso, ma, era serio quasi contrito. La riconobbi, comunque, subito ed ascoltai le parole del cronista che mi lasciarono in uno stato di ebetismo per qualche minuto. Era il 23 maggio 1992, Francesca Morvillo, insieme al marito, Giovanni Falcone, e agli uomini della scorta, era saltata in aria a causa di un attentato della mafia a Capaci, località vicino Palermo, durante il viaggio di ritorno da Roma, dove lei aveva appena finito di lavorare quale membro della commissione per il concorso in magistratura, lavoro che aveva accettato per stare più vicino al suo compagno di vita, e ora di morte, anche lui a Roma per coordinare la lotta a quella organizzazione criminale sua acerrima nemica da sempre.
Ci chiudemmo in un totale mutismo, del resto, qualsiasi parola non avrebbe avuto senso. Pensammo anche di tornare a casa, ma, anche questo non avrebbe avuto senso. Trascorremmo quelle giornate con un senso di morte addosso ed un velo negli occhi che divenne, poi, con gli anni, sempre più spesso, anche per le vicende più o meno catastrofiche che travolsero la nostra vita.
Rimane dentro di me l’immagine di quella donna che mi ricorda che può andare tutto in malora; che puoi essere attorniato da appuntiti gelidi stalattiti; che puoi sentire tutta l’indifferente ferocia di cui è capace l’umanità; ma, la gentilezza di un gesto inaspettato da parte di uno sconosciuto lascerà sempre accesa una flebile fiammella che ti consentirà di leggere la bellezza tra le righe della vita.
1 commento:
Molto bello. Grazie per averlo pubblicato
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