domenica 29 agosto 2010

MORTO CHE PARLA

Il blog è vivo, i lettori quotidiani, oramai a decine (basta accontentarsi), sicuramente allarmati da oltre una settimana senza post, benchè forse ad agosto da un lato possa ritenersi probabile dall'altro possano essere qualcuno di meno, possono stare tranquilli: ero in un'isola del sud Italia, quindi niente wi-fi gratuito, poca e incerta linea nella pennetta, e nessuna voglia di andare all'Internet point.
Ho come il sospetto che se fossi stato in un qualsiasi altro Paese sedicente avanzato e democratico non avrei avuto nessun problema ad acchiappare col mio netbook una connessione veloce e gratuita, ma oggi non voglio parlare di politica. Oggi è il mio quarantasettesimo compleanno.
Ho già superato da un po' quella che era l'aspettativa di vita media fino a un centinaio o poco più di anni fa, e so bene che c'è chi contesta questo discorso perchè era la mortalità neonatale e infantile ad abbassare la media ma superata quella fase critica era normale già allora raggiungere la settantina, e d'altronde oggi superarla non è che sia sempre un buon affare. Ma anche gli antimodernisti più sfegatati non possono non convenire che avere la mia età oggi non è la stessa cosa che avercela avuta 50 o 100 anni fa. Joao Mau-Tempo di Alentejo, una vita nei campi, aveva un aspetto molto meno giovanile, quando 44enne fu preso dalla guardia e torturato. Anche se, a dirla tutta, aveva una tempra che gli ha consentito di sopravvivere per mesi ad un trattamento cui io non sopravviverei per pochi minuti. Eppoi, e questo viene sia a me che contro di me, modo dialettale di dire che mi da torto e ragione allo stesso tempo, a dire il vero io bambino con asma bronchiale cronica a fine 800 non sarei arrivato a 7, di anni, altro che 47, se è vero come è vero che d'altronde se avessi avuto ai miei tempi i betabloccanti non avrei trascorso la mia infanzia con una bombola d'ossigeno accanto al letto e tanta precoce familiarità col concetto di fragilità della vita. Arrivato all'adolescenza con 'na cascetta larga un diu, un torace mingherlino (Faber mi perdoni), a causa  diretta (muscoli intercostali ipotrofici) e indiretta (nessun gioco di strada con gli altri bambini, a formarmi il fisico) dell'asma, nella società pre-welfare o ero nato nobile o borghese oppure qualsiasi lavoro mi avrebbe ucciso, salvo forse appunto la pittima. Insomma l'evoluzione darwiniana avrebbe spedito il sottoscritto in un ramo secco, e con ottime ragioni - e allora forse è vero che i conti tornano...
Se anche poi le stesse energie dell'anima che mi hanno spinto dopo i 15 anni a iniziare palestra tennis basket e mille altre attività, cosa che mi ha dato un aspetto normale e fa di me l'iperattivo che sono ancora a dispetto appunto dell'età, fossero riuscite in epoca antica nello stesso risultato per altre vie, chè lo sport è cosa da società opulente, resta da valutare l'aspetto mentale: con questa testa, non avrei fatto strada. Oggi, forse, con un po' di fortuna, se magari non sei di Scampìa o dello Zen, tanto per restare nell'occidente sviluppato, avere un carattere che non te ne tieni una e fare discorsi come quelli politici che leggete su queste pagine senza avere un'arma tanti amici e un fisico alla Tyson, ci arrivi intero alla mezza età; ieri, la stessa configurazione comportava in trent'anni tante occasioni di aver detto una parola di troppo alla persona sbagliata che la probabilità di avere suscitato una reazione potenzialmente letale è praticamente pari a uno: Impastato o Antenòr, un Cugino d'altri tempi non sarebbe vivo ad affliggervi oggi con queste menate.
Inoltre, se davvero il mondo della decrescita è imminente, come io credo che sia, e si imporrà tramite shock perchè l'umanità è palesemente troppo lontana dall'aver capito che si tratta di un processo che va guidato per non doverlo subire tanto è inevitabile, non solo ricorderemo i tempi in cui ciascuno aveva un lavoro una casa una pensione e cure mediche più o meno gratuite come una breve fortunata parentesi della storia dell'umanità, e quelli da me in poi si troveranno da vecchi senza i mezzi materiali per sopravvivere, ma probabilmente assisteremo a un rimodellamento delle aspettative di vita salute e tempo di lavoro che per ragioni sistemiche non si assesteranno fino a che non saranno livellate su tutto il pianeta o quasi, e somiglieranno più a quelle di 150 anni fa che a quelle di 20.
Ragion per cui, si può tranquillamente affermare che un tipo come me può esistere solo in una finestra spaziotemporale ben limitata che peraltro sta chiudendosi, e in qualsiasi altra era del passato e del futuro, come in molti altrove del mondo attuale, io oggi sarei morto, e forse da tempo.
Ecco perchè il fatto che io stia qui a parlarvi dei 47 anni che compio, anche se mia nonna direbbe che trasìa 'nte quarantottu, sono "entrato" nei 48, perchè giustamente una volta gli anni si contavano mentre li vivevi e non quando li compivi, mi fanno pensare a un noto versetto della smorfia che fu tra l'altro utilizzato per titolare uno di quei filmetti che solo Totò riusciva ad elevare a esilaranti. E di cui posto un estratto, con tanti auguri a me.

venerdì 20 agosto 2010

VEDO GUARDO OSSERVO FACCIO

Niente è come sembra (F. Battiato)
Addestrare i propri occhi solamente a guardare è una rinuncia inutile e disonorevole (C. Castaneda)
Se puoi vedere, guarda, se puoi guardare, osserva (F. Meirelles)
Di queste tre citazioni, la prima nelle intenzioni di Gemma Serena, autrice del pezzo qui sotto, doveva essere il titolo, la seconda la chiosa finale, mentre la terza ce l'ho aggiunta io. Un blog è un diario personale, a meno che non nasca a più voci, e se il suo autore vi ospita qualcuno è perchè bene o male lo considera in linea con i suoi pensieri o perlomeno in sintonia: ci si può attendere dunque che lo commenti in apertura o in chiusura. Il bell'articolo che segue, come gli altri di Gemma, mi trova fondamentalmente daccordo: la dicotomia parola/azione, che già fu del leniniano "che fare?" promosso a testata del loro ciclostile dai contadini di Fontamara, vi viene svolta fino quasi al consiglio spicciolo, che poi è (di nuovo) in sintonia con il tanto toccato tema della decrescita. La terza citazione l'ho aggiunta solo perchè mi è subito venuta in mente, avendola letta pochi giorni fa nel Quaderno di Saramago che poi è la trascrizione parziale del suo blog, dove infatti l'ho ritrovata facilmente: c'è un terzo livello, dopo vedere e guardare, e ha già molto a che fare col fare, come dimostrano perlappunto le "osservazioni" quotidiane del premio Nobel recentemente scomparso, così preziose a farci da bussola nel mare in tempesta del mondo di oggi.
Dobbiamo dunque osservare e tenerci pronti: le discontinuità della storia non si sa mai quando arriveranno, a chiudere bruscamente uno scenario ed aprirne un'altro in cui magari ciò che siamo e siamo riusciti a difendere dal fortunale torna ad essere moneta spendibile nel bazar della vita.
....
Sono tempi difficili, questi. Inutile negarlo. E chi si illude che la situazione potrà cambiare nel giro di poco è un romantico, ingenuo sognatore. Lo strappo è troppo grande, non si ripara con qualche punto messo a casaccio qua e là. Ci vogliono impegno, volontà, determinazione. Bisogna crederci, credere che ne usciremo. Parecchio ammaccati, certo, ma ne usciremo. L'istinto ci porterebbe a organizzare la fuga, proprio come dalle navi che affondano, e se restiamo è perché sappiamo che la nave è già affondata e noi abbiamo imparato a respirare sott'acqua. Scalciando un po', neanche troppo, ci siamo adattati e abbiamo persino cominciato a credere che è normale quello che accade, che è normale vivere così, in un Paese così, con un governo così, con una disperazione così. Abbiamo lasciato che ci fiaccassero per bene, che ci prendessero per sfinimento e siamo stati al gioco distruttivo della speranza. Quella che andiamo dicendo ci hanno portato via, tenuta in ostaggio, massacrata, occultata e che invece noi, ostinati, abbiamo deciso di continuare a coltivare nonostante tutto, nonostante una realtà tanto oggettiva da non poter essere interpretata che per quella che è: un disastro. I dati sono sconfortanti, le prospettive inquietanti. Ma noi sempre qui a sperare, il massimo che riusciamo a fare, viatico per il paradiso la sopportazione. Naturale conseguenza, proprio quello che si aspettavano da noi che a furia di riempire il tempo dell'attesa - quello che ci separa dal cambiamento - abbiamo chiuso, buon per loro, il cerchio speranza-sopportazione-rassegnazione. Già, perché, diciamoci la verità: noi siamo proprio rassegnati, ma di quella rassegnazione che anestetizza, che ci fa accettare ormai qualunque cosa senza batter ciglio, senza provare sgomento, vergogna, indignazione. Ci scivola tutto addosso, come se indossassimo un impermeabile, una corazza paracolpi. Tanto le dobbiamo prendere, allora meglio attrezzarsi. Ci hanno tolto la voce in cambio della speranza, non abbiamo fatto un buon affare.
Eppure siamo tanti - realisti al limite del pessimismo più cupo, immuni dai condizionamenti della morale cattolica e da quelli dei mass media, resistenti per vocazione, inaddomesticabili - ci ritroviamo qui e altrove come carbonari, discutiamo fra di noi, ci interroghiamo, spesso ci sembra di avere le risposte giuste, non come quelli che si parlano addosso in tv; ci troviamo le soluzioni in tasca, provetti allenatori di una squadra scalcagnata che siamo certi sapremmo raddrizzare. E' vero: siamo capaci di analisi, studiamo i dati, elaboriamo teorie che confrontiamo fra di noi, punti di vista articolati, documenti alla mano. Quanto parliamo, quante cose ci diciamo… Sottovoce, però. Ce le diciamo e basta. Poi restiamo fermi, immobili, quasi a compiacerci e a indugiare sulle conclusioni a cui siamo giunti argutamente col nostro realismo, a dimostrare, inconsapevolmente, che pure l'analisi sta nella logica della sopportazione. Caspita! Allora, ci siamo finiti anche noi nella trappola della speranza… No, non è possibile, noi no. Noi abbiamo semplicemente dimenticato che essere realisti non significa soltanto saper valutare una situazione con senso pratico, ma anche e soprattutto dare realtà alla nostra azione. In una parola agire.
Noi siamo tanti, siamo la vera maggioranza, tuttavia abbiamo rinunciato all'azione e per non mortificarci troppo diciamo che pure loro - i "nostri" politici - ci hanno rinunciato, visto come vanno le cose. Del resto, hanno permesso agli altri di compiere liberamente la destrutturazione del Paese e delle coscienze senza muovere un dito e con in più la pretesa di presentarsi ancora come nuovo, come alternativa. Va bene, non sono esattamente come loro, ma non sono neppure troppo diversi se poi ci ritroviamo ad ammettere, fra di noi, che quando si tratta dei loro interessi privati - conservare il potere, tanto per dirne uno - sono capaci, eccome, di agire. Quanto agli altri, si muovono agilmente armati di arroganza e di sistemi illeciti - la corruzione come filosofia - e sta a vedere che c'è pure qualcuno che li considera degni di ammirazione e di fiducia ulteriore. Pure fra di noi c'è chi, quando si fa avanti un politico diverso, un "realista attivo", prende a guardarlo in cagnesco e lo massacra di critiche: ma dove pensa di stare questo qua che si mette a parlare di lavoro, di ambiente, di libertà dei soggetti, di rispetto della diversità?! Per carità…
E, invece, quello ti dice, realismo per realismo, smettiamo di guardare al marcio, lo facciamo da anni, lo conosciamo bene ormai. Ora prendiamo il buono che è rimasto - non ci siamo lasciati scorticare fino all'osso - vediamo cosa possiamo farne, vediamo se si può ripartire da questo. Cerchiamo di capire, tutti insieme, ognuno con il proprio contributo di idee e risorse, se proprio dal vecchio si può concepire qualcos'altro. Un po' come facevano le nonne con i vecchi maglioni che disfacevano per ricavarne gomitoli da rilavorare. Con quella lana realizzavano altre maglie, coperte, scialli. Sì, la materia prima non era nuova, ma quella avevano, e a sferruzzarla ancora ci si poteva ritrovare fra le mani un prodotto persino migliore. Perché, in fondo, in quel vecchio maglione, loro riuscivano a scorgerla una simile possibilità. Noi, invece, non ce l'abbiamo questa visione, non riusciamo a costruirla: noi abbiamo in mente il cambiamento, possibilmente radicale, magari con qualche effetto speciale, ma siamo ancora poco inclini a metterci le mani. Dopotutto, con il nostro voto abbiamo delegato, cosa li abbiamo mandati a fare quelli là se poi, comunque, tocca a noi rimboccarci le maniche? Ora, a parte il fatto che "quelli" non sono neppure quelli scelti da noi, che ormai pure i bambini hanno chiaro che stanno lì non per il bene comune ma per il loro tornaconto; ecco, quelli hanno interesse a tenerci nell'immobilismo, godono a fornirci materiale per le nostre disquisizioni. Quelle che ci terranno occupati e distratti il tempo necessario perché loro combinino qualche altro casino che renderà più complicato chiudere questo circo di nani e ballerine. Fa paura, certo, pensare al cambiamento mentre loro si adoperano affinché nulla cambi davvero. Fa paura pensarci soli, privi di alleati, smarriti, disorientati e disillusi come siamo. Fa paura perché il disastro che hanno combinato è spaventosamente grande e non ci riesce di immaginare il modo per ripararlo. Proporzionalmente, ci vengono in mente azioni gigantesche, eclatanti e allora la paura aumenta insieme al senso di impotenza. Ma in questo disastro, non dimentichiamolo, c'è anche la distorsione della nostra capacità desiderante. Un altro inganno, come quello della speranza. Questo più frustrante, però, perché si confonde coi bisogni, quelli che hanno creato ad arte, indotti in ogni modo fino a renderli carne. Il mondo in vetrina e noi fuori con gli occhi sgranati, frustrati e avviliti dalla logica del guardare senza poter toccare: venghino, signori, venghino. Perché i bisogni li hanno creati ma poi non ci hanno messo, almeno non a tutti, nella condizione di poterli soddisfare. Così, un po' alla volta, abbiamo smesso di sentire il desiderio di ciò che non ci è dato di avere - che raramente corrisponde a quello di cui abbiamo davvero bisogno - mortificando, quasi fino a convincerci di averla persa, la nostra stessa capacità di desiderare. In questo modo, le impossibilità sono divenute distanza, disinteresse; sono diventate l'impermeabile su cui lasciamo scivolare gli eventi come se non ci riguardassero. I sogni che ci erano stati offerti sono diventati il nostro tormento e la loro - di quelli - arma migliore, quella che sostanzia il loro potere: abbiamo modificato la nostra scala dei valori difendendo e incrementando consumi non necessari . Così combinati non riusciamo ad aprirci una breccia, ancorché simbolica, in questo muro che ci impedisce la vista del cielo; non riusciamo a pensare a un futuro in cui la parola speranza non suoni più come una presa in giro, come una trappola mortale. Non riusciamo a smettere di usarla, di pensarla proprio, di pensarci noi in questi termini anche se, cominciamo appena a capirlo, contiene il germe pericoloso dell'attesa rassegnata. Non ci riesce ancora di sostituirla con la parola desiderio: volitiva, performativa, capace di creare la realtà perché ci concede di immaginarla, di definirne i contorni, un moto che ci spinge a cercare rotte nuove dopo tanto navigare a vista. Forza vitale, al contrario della speranza, istanza vera di cambiamento che ci aiuta a definire con maggiore lucidità gli obiettivi e li rende reali nell'attimo in cui li diciamo necessari. E ora ripartire è necessario, ripartire da noi stessi, desiderare il cambiamento oltre i bisogni e agirlo liberandoci dai laccioli della rassegnazione in cui siamo caduti più o meno tutti, per ragioni diverse. E' necessario compiere, fra gli altri, il gesto rivoluzionario di smettere di volere per noi quello di cui non abbiamo realmente bisogno, degli oggetti simbolo dell'omologazione di cui la nostra perenne insoddisfazione ci ha resi schiavi. Smettiamo di guardare e basta. Sforziamoci, invece, di vedere. Anche questo è realismo, anche così si rianima l'azione soffocata dalla speranza. Dicendo che noi ci siamo, che partecipiamo all'elaborazione di quello che il guardare ci restituisce. Possiamo mettere al mondo qualcosa di molto diverso se, finalmente, decidiamo di riappropriarci del senso di quel che finora abbiamo guardato e basta.
Gemma Serena

lunedì 16 agosto 2010

BAMBINI E TIRANNI

Ti riprometti di non pensare alla politica italiana per almeno quei pochi giorni attorno a Ferragosto, quelli che torni a casa per farti quel tuffo di testa in acqua partendo da terra che solo il mare di certa Calabria ti consente e che rappresenta il fischio d'inizio delle Ferie Estive, e quasi ci riesci.
Poi mentre ti rilassi con un bel libro, magari il primo di Teresa De Sio che consiglio a tutti per quanto è magico e nero, vicino a te si piazza una famigliola col bambinotto di quell'età indefinita attorno a un anno, due mesi più due mesi meno, che frigna e strilla e rompe i santissimi a tutta la spiaggia, a te, e anche ai genitori che visibilmente fanno ricorso a tutta la memoria biologica per non pigliarlo a pacchere. E pensi che i bambini sono dei tiranni. Che forse non è un caso che la vita per te abbia riservato altro destino. Che quasi tutti i tuoi amici da quando il primo frugoletto si è introdotto nella loro casa sono divenuti i loro schiavi. Alcuni, per sempre, ben dopo l'università. Ma tutti, almeno per quel periodo in cui l'erede non è che un tubo con un input e un output con un cervello che mentre sviluppa sinapsi esegue solo programmi volti alla crescita del corpo di cui è parte, come il software di VGER nel primo film di Star Trek. Perchè come dicono a Napoli, e certi dialetti sono imbattibili nella sintesi, "'a criatura nun buò sapè nient". Non c'è modo di farlo ragionare, l'hai voluta la bicicletta e ora pedali.
E poi pensi che in fondo, anche quando crediamo di crescere, tutti noi restiamo così almeno in parte, o a momenti. Tu compreso. E forse da questo punto di vista il bianco e il nero di un mondo di grigi sono quelli che tentano di frenare questo istinto primordiale e quelli che ci si abbandonano, non vogliono sapere niente, è l'universo intero che deve piegarsi al loro volere. D'altronde, sempre la fantascienza ci suggerisce, e qui è il mitico Blade Runner, che ciascuno di noi potrebbe essere un replicante appena creato e tutto quello che ricorda fino a un istante fa essergli stato inoculato dal creatore, e quindi, portandola alle estreme conseguenze logiche, essere l'unico essere dell'universo che per quanto gli riguarda muore con lui. Tra chi la pensa così, tutti tentano di dominare il proprio ambiente di riferimento, alcuni ci riescono, ma solo pochissimi riescono a dominare l'intera entità politica di appartenenza, piegandola ai propri voleri. Sono i tiranni, qualche migliaio su svariati miliardi da quando siamo bipedi. I tiranni sono dei bambini.
Allora ti ricordi che colui che da diciott'anni sta avvelenando forse mortalmente la scena politica del tuo Paese quando "scese in campo" ebbe a dichiarare, in un'intervista, di considerare l'elettore come "un ragazzino di dieci anni neanche troppo intelligente". Aveva ragione. Ma aveva ragione anche chi ci avvertì che non si sarebbe fermato fin quando non avesse avuto tutto quello che voleva, cioè tutto. Adesso ci proverà sul serio, tentando di portarci al voto anticipato con una legge elettorale truffaldina e prima che i suoi oppositori vecchi e nuovi si organizzino. I bambini non si toccano, per carità. Ma qui siamo sotto metafora, possiamo ben comportarci come avrebbe fatto un educatore di inizio secolo: diamogli un bel ceffone, e lasciamolo a frignare. E pensi pure che il mondo è tutto suo, rinchiuso dentro al box mentre noi spicciamo casa, che l'abbiamo lasciato in giro e guarda che ha combinato, a momenti la demolisce. Sti ragazzini, gli dai un dito e si pigliano il braccio, signora mia! Se ti fai mettere i piedi in faccia è finita, senti a me! Ma quale fame? ha mangiato pure troppo! ... (continuate a piacere, funziona con tutti i luoghi comuni sui bambini rompiballe, provare per credere...)

giovedì 12 agosto 2010

GIRO GIIRO TOOOONDO...

Oggi voglio dimostrare che il superenalotto ci suggerisce che non bisogna permettere la coltivazione di OGM.
L'evidenza matematica di alcune cose fondamentali per la nostra stessa esistenza, a volte, sfugge dal senso comune, e in questi casi, essendo la nostra mente una specie di cipolla in cui solo la buccia e magari il primo strato esterno hanno a che fare con la logica aristotelica mentre tutto il resto funziona secondo un'altra logica, il senso comune stravince. Purtroppo.
Per questa via, ad esempio, gli italiani si affannano a riempire le casse dell'erario con una sorta di Tassa Volontaria, giocando ogni mese milioni di euro per tentare la sorte. I numeri precisi li lascio agli esperti, e sono impressionanti, ma cerco di vulgare in breve alcune verità matematiche evidentemente ignorate dai più:
  • la probabilità di prendere un sei secco giocando due colonne non è significativamente diversa da quella che hai giocandone duecento: anche se quest'ultima è cento volte maggiore della prima, siamo sempre molti zeri dopo la virgola, ben lontano da quell'uno per cento che pure ciascuno di noi se lo avesse come probabilità che un suo qualsiasi affare andasse a buon fine scarterebbe l'affare; dunque se giocare due colonne al superenalotto è puntare pochi spiccioli su un culo pazzesco, giocare sistemi è una cosa tanto più idiota quanto più soldi metti, visto che per vincere ti serve lo stesso culo pazzesco; giocare quote di sistemi è invece tanto più stupido tante più quote ci sono: il culo che serve è sempre lo stesso, ma se vinci devi dividere, al punto che magari manco svolti...;
  • secondo lo stesso principio, comprare uno o venti biglietti alla lotteria è statisticamente equivalente, se ne compri cento pure, e non ti lamentare della pressione fiscale, stupidino - se poi cerchi di comprarli tutti a Roma o in autogrill "perché lì vincono" l'offesa cresce: la probabilità di ogni biglietto è identica, se senti che in un posto vincono di più è solo perché lì vendono più biglietti;
  • i discorsi fatti fin qui si attenuano leggermente per quei concorsi dove bisogna pronosticare dei risultati, tipo Totocalcio, perché il valore relativo delle squadre altera di un filo la probabilità teorica; qui ha senso anche giocare dei sistemi, ma a parte che il fattore fortuna è ancora predominante, l'esistenza di un appiglio logico è probabilmente una delle cause per cui in un'epoca di analfabetismo di ritorno il totocalcio è in crisi;
  • l'altro motivo della crisi del totocalcio è la legalizzazione delle scommesse: in effetti, le agenzie sono oggi un banco più onesto dello Stato, come ieri lo erano i gestori delle scommesse clandestine, camorristi compresi;
  • il banco più esoso, infatti, è proprio lo Stato, in quanto trattiene una quota variabile tra i vari lotto, totocalcio, superenalotto, gratta e vinci, eccetera ma comunque ammontante a decine di punti percentuali - all'altro estremo i casinò (i banchi più equi) hanno un "aggio" minimo: se per capirci facessimo che l'unica puntata è quella sul numero secco, che ti da 36 volte la posta mentre i numeri grazie allo zero sono trentasette, ecco che al lungo andare per la legge dei grandi numeri un casino incassa sempre circa un  trentasettesimo dei soldi che girano attorno alle sue roulette (mi sa che campano con gli altri giochi e le slot machine);
  • sorvolo per pietà umana su quelli che fanno gli studi sui ritardi dei numeri: hanno la stessa scientificità degli oroscopi, cioè zero spaccato, anzi meno; alla fine di ogni estrazione, infatti, i numeri vengono rimessi dentro, e ciascuno torna ad avere una possibilità su 90 di estrazione, indipendentemente se sia stato estratto l'ultima volta la settimana prima o cent'anni, e questo è vero come la morte;
  • il comportamento dei media che indulgono su queste questioni, e magari sono pieni di servizi sul fortunato di turno o su chi lo cerca quando non si trova, si spiega soltanto con l'ordine dall'alto di incentivare la "tassa sulla speranza": vedere chi vince tanto infatti invoglia chiunque a giocare, e aiuta quella sospensione del giudizio logico che spiegavo su, incrementando in definitiva gli introiti dell'erario;
  • nello stesso tempo, dall'altro lato, questo stesso fenomeno si aggiunge incrementandoli e venendone incrementato ai tanti altri meccanismi culturali di abbandono dell'individualismo responsabile che sta alla base dello Stato liberale e della democrazie, favorendo (proprio come le veline scosciate) l'idea che la mobilità verticale nella nostra società sia possibile solo mercanteggiando il proprio corpo, se se ne ha uno spendibile, oppure tentando la fortuna; detta in termini dotti, incentivare scommesse e giochi a premi è un meccanismo di riproduzione sociale. Attuato consapevolmente, non ho studiato solo io: chi ci vende macchine da duecento all'ora sa benissimo che noi non abbiamo nessuna percezione istintiva del pericolo quando corriamo in orizzontale, perché lo facciamo da troppe poche generazioni, mentre invece la memoria biologica di specie ha avuto il tempo di instillare in ciascuno di noi la paura di camminare sopra un muro alto due metri e largo venti centimetri, anche se la probabilità di cadere è molto inferiore a quella di incidente in autostrada, e cadere da due metri significa un impatto a meno di 50 all'ora...
Allo stesso modo, e il fatto che qui siano protagonisti degli scienziati dimostra sia che nessuno in fondo può prescindere dalla biologia  sia che d'altra parte che quando ci sono interessi economici seri in ballo si tradisce a cuor leggero anche il proprio stesso substrato professionale, si può analizzare la leggerezza con cui da anni ci viene detto che gli Organismi Geneticamente Modificati sono il futuro dell'agricoltura e promettono di risolvere addirittura la fame nel mondo senza nel contempo costituire un rischio apprezzabile per l'ecosistema. In prima fila in Italia ad affermare ciò c'è un soggettino come Veronesi, distintosi per affermazioni ugualmente irresponsabili relativamente alle centrali nucleari, e questo già dice tanto. Il fatto è che il fenomeno può essere inquadrato in quelli per cui il numero di variabili in gioco è definitivamente sconosciuto a chiunque, anche e soprattutto a chi si affretta a dire che le ha analizzate tutte e può dire che non ci sono rischi. Non esiste e non è nemmeno ipotizzabile un computer così potente da riuscire ad analizzare gli effetti che può avere a medio/lungo termine l'introduzione in natura di organismi selezionati artificialmente. Chi dice il contrario, o è un cretino, o mente sapendo di mentire. D'altronde, abbiamo tonnellate di esempi: selezionare artificialmente non è prerogativa dell'industria genetica, gli uomini sanno farlo da quando esistono l'agricoltura e la pastorizia, ma appunto infinite volte è già successo che interi ecosistemi venissero rovinati da un'azione incauta, per quanto limitata dal fatto che ad esempio un incrocio tradizionale se almeno in teoria in natura non è possibile in pratica non funziona, e pace. Invece con l'ingegneria genetica si può osare tutto, e senza dubbio lo si farà senza uno stop drastico, e quindi le variabili da calcolare diventano tendenzialmente infinite. Il computer di wargames farebbe tilt anche senza tris, persino Hal 9000 intonerebbe il suo girotondo d'addio senza che nessuno gli stia disattivando le memorie. E infatti, ecco che già è cronaca di una pianta OGM sfuggita al controllo dei suoi creatori. La questione è così delicata che riesce a spaccare persino la granitica Lega, al cui interno chi è vicino al territorio non accetta il cuor leggero con cui improvvisamente considera la faccenda chi si è troppo avvicinato al Sole di Arcore. Purtroppo non basta nemmeno che tutta l'Europa venga blindata nel bando agli OGM: il mondo è unico e prima o poi dei semi di nuove specie aggressive e magari potenzialmente devastanti potrebbero arrivare comunque, ma forse resistere per un paio di decenni potrebbe essere sufficiente, poiché nel frattempo in Usa potrebbe scoppiare una grana così grossa da costringerli ad abbandonare il settore e tentare di bonificare le terre contaminate. E se no, sarebbe solo un'altra delle cause del prossimo spegnimento della vita sul nostro pianeta, e nemmeno, se pensiamo al nucleare e a quello che è successo in Russia in questi giorni, la più determinante.

lunedì 9 agosto 2010

EXTRATERRESTRE PORTAMI VIA

Nei prossimi giorni, osservando il cielo in cerca di stelle cadenti, provate a chiedervi se siamo soli nell’universo, se fra tutti quegli astri che brillano sulla nostra testa ve ne sia qualcuno abitato. Pensate a un’altra galassia, un pianeta lontano, un luogo pieno di laghi e ruscelli, colline e distese erbose, dove il clima è sempre mite, gli abitanti ascoltano concerti di silenzio e vivono il triplo di noi.
Siete tanto scettici da non riuscire a concepire un posto così? Avete l’immaginario rovinato da anni di Visitors e alieni malintenzionati? Allora Il Pianeta Verde è il film che fa per voi. Non è una novità cinematografica – la pellicola è del 1996 – eppure il messaggio è attualissimo e vale la pena recuperarlo.
Sul Pianeta Verde, infatti, la natura è intatta; gli abitanti, del tutto simili a noi, non hanno bisogno di case e dormono fra l’erba. Le giornate sono scandite da bagni nel lago, da giochi che fortificano, dallo studio: lezioni di telepatia, di intuizione del futuro, di viaggi interstellari, di matematica dello spazio, di archeologia. Non ci sono gerarchie: il pianeta è governato da tutti e da nessuno. Una volta all’anno c’è un’assemblea coi delegati del pianeta che si ritrovano in cima a una montagna perché quando si cammina due ore in salita si è più intelligenti. In quell’occasione, si decidono quanti matrimoni fare e quanti bambini far nascere a seconda del raccolto; si ricordano quelli che non ci sono più, tutti morti felici e saggi oltre i 250 anni; si offrono cibo e servizi e, soprattutto, si decidono i viaggi: i pianeti sui quali andare per osservare, informarsi, studiarne l’evoluzione. Sono duecento anni che nessuno vuole andare sulla Terra. Del resto, lì non c’è niente da imparare, gli abitanti sono arretrati, il livello evolutivo è incredibilmente basso. Vi sono Paesi dove le donne portano un velo sul viso e non hanno diritto di guidare la macchina. Eh già, perchè - pensate - hanno ancora le automobili! Sono ancora in piena era industriale, quella che il Pianeta Verde ha vissuto tremila anni prima: un’epoca di competizione, contabilità, produzione in massa di oggetti inutili; la guerra, il nucleare, la distruzione della natura, le malattie senza rimedio. La preistoria, insomma. Inoltre, sulla Terra la gerarchia è in qualunque cosa: tutti si credono capi, gli uomini si credono superiori alle donne, la gente di città a quella di campagna, gli umani agli animali e alle piante. E poi ci sono le razze, specie umane molto diverse. Il giorno che si sono incontrate, le più degenerate si sono sentite superiori ed è stato un massacro. Adesso sono i degenerati che comandano.
Per queste ragioni anche durante l’ultima assemblea sembrano mancare i volontari, ma finalmente si offre Mila, la cui madre era una terrestre. Desiderosa di conoscere il pianeta materno, la donna arriva sulla Terra, nella Parigi di fine anni Novanta dove, grazie ai programmi di "sconnessione" di cui è dotata, riuscirà, semplicemente parlando, a mettere in moto il livello di coscienza delle persone che incontra. Queste sono tutte piuttosto sgarbate, corrono senza curarsi di niente e di nessuno; l’aria è inquinata, c’è tanto traffico e tutto è ricoperto di cemento e asfalto. Il mondo che Mila vede è un posto dove vivere è difficilissimo, dove si usa ancora la moneta senza la quale non si può avere nulla, neppure il cibo benché mangiare sia una necessità perché si muore, se non si mangia. Così, la donna si trova costretta più volte a dover usare la sconnessione – il sistema che fa avanzare più in fretta le persone - grazie alla quale assistiamo a scene davvero divertenti come quella dello stadio dove i calciatori, nel mezzo di una partita importante, smettono di inseguire la palla e iniziano a danzare tutti insieme, l’arbitro si mette a cantare ‘O sole mio e i due portieri prendono a baciarsi appassionatamente.
Anche i figli maggiori di Mila arrivano sulla Terra attratti da due ragazze viste telepaticamente in compagnia della loro madre ma, nel tentativo di raggiungerla, finiscono per errore nel deserto australiano dove incontrano gli aborigeni che vivono in questo Paese da 40.000 anni e non hanno rovinato assolutamente nulla qui, sono molto belli, tutti neri, hanno le nostre stesse medicine e il cibo è ottimo. E, inoltre, sono fortissimi in telepatia. Sono avanzati quanto noi.
Si chiarisce così ulteriormente il punto di vista degli abitanti del Pianeta Verde – punto di vista che diventa il nostro ed è questo il vero obiettivo della narrazione - per i quali ciò che noi consideriamo progresso è preistoria; il nostro presente è il loro passato, quello che hanno superato per arrivare allo stadio evolutivo avanzato in cui si trovano ora. Dopo l’era industriale, da noi ci sono stati i grandi processi. Chi fabbricava prodotti nocivi per la salute degli umani, degli animali e delle piante, è stato accusato di genocidio e crimini contro il pianeta: le industrie agroalimentari e chimiche, i fabbricanti di armi, tabacco e alcool, le industrie farmaceutiche e nucleari, i costruttori di automobili, gli architetti, i medici, e i politici che si erano arricchiti lasciando fare. E’ stata la guerra civile e poi il boicottaggio: tutto quello che era stato nocivo per la salute non si comprava più o si buttava. Fu l’arma vincente: senza vendite niente potere, l’esercito e la polizia erano impotenti… Quell’epoca fu chiamata “caos pre-rinascimento”.
La visione di questo film è un salto e un ritorno nel futuro arcaico. E’ la possibilità che ci viene offerta di guardare la Terra da lontano, con gli occhi di chi ha capito che la vera evoluzione non ha nulla a che fare con la nostra idea di progresso, che non è lo sfruttamento indiscriminato delle risorse, non è il dominio di un popolo su un altro popolo o degli uomini sulle donne, non è il petrolio che inquina il mare e distrugge le coste, non è l’arroganza di quanti si credono migliori solo perché sono nati e vivono in una parte di mondo industrializzato e ricco. E’ lo spunto per riflettere sulla condizione di quanti, convinti di essere dei privilegiati, sono in realtà da commiserare: poveri di spirito, incapaci di ascoltare, di esprimere sentimenti ed emozioni, vittime del proprio egoismo e della propria superbia, costretti a respirare, bere e mangiare veleni.
Non importa se la storia, seppure – o proprio perché - narrata con l’artificio della comicità, risulta a tratti inverosimile e un po’ ingenua. La sua forza sta nella capacità di non lasciarci indifferenti, di metterci davanti a interrogativi ai quali non si può più sfuggire: in che modo e in che mondo vogliamo vivere? Siamo certi che è solo dallo sviluppo industriale che possiamo ricavare il necessario per stare bene ed essere felici? Siamo disposti a valutare l’idea che per evolvere dobbiamo tornare a uno stadio primordiale del sentire e del vivere la vita nel pieno rispetto della natura e degli altri esseri viventi?
Forse è il caso di riflettere e se non siamo ancora convinti ricordiamoci delle parole di Orso in Piedi, uno degli ultimi capi indiani Sioux:
Quando l'ultimo albero
Sarà stato abbattuto,
L'ultimo fiume avvelenato,
L'ultimo pesce pescato,
L'ultimo animale libero ucciso,
Vi accorgerete
Che non si può mangiare il denaro
Dopo aver visto questo film potrebbe persino capitarvi, intercettando una stella cadente, di ritrovarvi a canticchiare il vostro desiderio: “extra terrestre vienimi a cercare, voglio un pianeta su cui ricominciare…
Gemma Serena
...
E brava Gemma, sei andata a recuperare dalla cineteca questo film francese divertente e leggero (quasi un ossimoro), che non è piaciuto affatto a certa critica ma a me si: poter andare a vedere al cinema titoli che in altre città non arrivano è una delle ragioni per cui amo vivere a Roma. Perchè i film si vedono al cinema, punto e basta. Ma questo deve essere talmente fuori dai circuiti commerciali, ormai, che c'è in visione integrale su Google video, per cui credo sia da un lato legale e dall'altro opportuno farvelo vedere da qui. Godetevelo: vale la pena proprio per le riflessioni che attiva, come giustamente sottolinea Gemma che però chiude con un verso di Finardi estrapolato da un testo che finisce ben diversamente da come comincia, come vedrete se avrete la pazienza di leggervelo tutto o riascoltarvi il pezzo.
Questo per dirvi: andate in uno dei posti consigliati dagli esperti in una delle prossime notti o almeno nel posto vicino a voi più lontano dalle luci di città, a guardare le stelle sdraiati per terra, ma appunto mentre la vista è incantata dal firmamento non dimenticate di lasciare una parte dei vostri meccanismi dell'attenzione attivata sul tatto, a sentire dove avete poggiato il culo.

sabato 7 agosto 2010

SE PAR AZIONE

Non ho il livello nè di preparazione nè di visibilità per entrare nella polemica teorica tra Pallante da un lato e Badiale e Bontempelli dall'altro. Ieri è andato in scena il terzo atto, e da qui potete farvi un'idea dell'intera faccenda, che è davvero molto interessante ed istruttiva, se seguite i link e magari leggete i commenti. Per chi non avesse voglia o tempo, la riassumo così. Esisterebbero due vie alla decrescita:
  • una che nelle accuse dell'altra passa per la restaurazione di istituzioni sociali oppressive della lilbertà individuale - ma nella propria visione individua nella premodernità tratti ingiustamente e strumentalmente denigrati nella modernità (ad esempio, la famiglia estesa e la vita agricola) togliendo legittimità al "verso della storia" necessariamente orientato dalla prima alla seconda già nei nomi;
  • l'altra che nelle accuse della prima risente del mancato affrancamento dall'idea di progresso tipica delle teorie della crescita sia di destra che di sinistra (capitaliste e comuniste) e appunto dal verso della storia di cui sopra - ma nella propria visione individua un concetto di postmodernità nel cui quadro sarebbe possibile concentrarsi sui beni anzichè sulle merci, o come direbbe Marx sul valore d'uso anzichè su quello di scambio.
Lo sò, l'ho detta difficile, per quello vi riinvito alla lettura completa di entrambe le campane: con questo livello di sintesi non riesco a fare meglio. Quello che però mi interessa è sottolineare alcune cose:
  1. la decrescita non è negoziabile: anche se ancora a parlarne siamo una piccola minoranza, sono sempre di più i segnali all'evidenza di tutti che il modello capitalistico oramai globalizzato non regge più; il motivo è elementare agli occhi di uno studentello di fisica: un modello in equilibrio di crescita non è compatibile con un sistema chiuso a risorse date (petrolio, acqua, foreste, terra, ecc.), e la cosa si palesa drammaticamente e imprevedibilmente man mano che ci si avvicina all'esaurimento di quelle risorse;
  2. anche se siamo una piccola minoranza, come sempre abbiamo già iniziato a dividerci in fazioni; "non c'è niente da fare, è un vizio della sinistra" verrebbe da dire ridendo, ma si può dirlo più seriamente: più ragioni con la tua testa, più ci tieni a rimarcare l'originalità della tua posizione, ma se facciamo la tara a questo vezzo, Pallante potrebbe accettare che il verso della storia c'è eccome, dato che tornare ad organizzazioni sociali che scoraggino l'individualismo non è nè possibile pacificamente nè auspicabile, e Badiale e Bontempelli che hanno sbagliato bersaglio, perché in fondo Pallante è "dei nostri" e nonostante a parole rifiuti (legittimamente) inquadramenti ed etichettature gli sforzi suoi e di tutto il movimento per la Decrescita Felice si può ben dire siano volti alla costruzione di un modello postmoderno e non alla restaurazione del Medio Evo - per cui prendiamo atto della diversità necessaria tra le nostre concezioni, e a questo modello, magari rinunciando a definirlo post-qualcosa, lavoriamoci assieme che c'è tanto bisogno; anche perchè...
  3. non ce ne sono solo due, di vie alla decrescita, ma ce n'è almeno una terza, quella che già ci stanno facendo percorrere da un po'; un'altro vezzo di noi sinistrorsi, è infatti, ragionare presumendo di essere gli unici capaci di farlo, e invece io scommetto che queste stesse cose che ci diciamo e ci portano a ragionare di una via per la decrescita felice per tutti "loro" le conoscono bene da tempo, solo che non ce lo dicono (si, proprio come i ricconi di 2012, per imbarcarsi solo loro sulle arche: stanno lavorando a una decrescita felice per pochi...): cosa credete che sia in corso dalla reaganomics in poi, se non un processo che ha per obiettivo di lungo periodo l'appiattimento delle condizioni materiali dei lavoratori di tutto il mondo al limite della sussistenza, come in occidente agli inizi della rivoluzione industriale, per essersi resi conto che il modello welfare-oriented, cui erano stati costretti ad aderire per via della crisi del 29 della guerra e delle lotte sociali, non poteva reggere? La decrescita dissimulata è già stata avviata, anche se a livello superficiale si parla ancora di sviluppo e PIL, e anzi il modello superficiale viene mantenuto proprio perchè aderendovi il lavoratore restituisce risorse a costo di indebitarsi, e tutto il sistema finanziario con le sue bolle non è che rastrellamento di beni reali, alla fin fine, come le privatizzazioni di ieri e i federalismi demaniali di oggi.
Proprio per questo dobbiamo muoverci adesso, lasciando da parte divisioni strumentali come l'antica tra destra e sinistra e la nuova tra teorici della decrescita. Le persone reali, checchè ne possiamo pensare, sono già, pronte in gran parte: i dati su volontariato consumo consapevole et similia parlano chiaro, la gente è molto migliore di quanto non sembri. Non ci vuol tanto a instaurare un cambiamento radicale nel senso comune, come è dimostrato dall'esempio (negativo ma probante) della flessibilizzazione del lavoro (altro strumento di "decrescita infelice" attuato dissimulandolo): siamo noi quaranta/cinquantenni che inorridiamo, i ragazzi nati dentro questo sistema lo considerano "normale" e neanche intuiscono quanto possa essere devastante in prospettiva. Ma lo stesso paradigma, applicato ai consumi, può declinarsi così: la mia generazione considerava normale avere un solo paio di jeans o di scarpe alla volta, e comprarne un altro solo quando si rompeva (e irreparabilmente: prima c'erano i rattoppi e il calzolaio) quello che avevi, niente impedisce che si torni a ragionare così nel giro di una generazione o due. E si può sì incentivare il ritorno in auge della famiglie allargate che magari ripopolino le campagne e si diano all'agricoltura, ma intanto questo come già si può vedere può essere favorito dalla tecnologia anzichenò (Internet, ma anche la microproduzione energetica eolica e solare, oltre che il recupero delle tecnologie costruttive "di una volta" e del patrimonio abitativo esistente), e poi non c'è nessun bisogno che questo significhi l'abbandono dell'individualismo moderno, cioè ad esempio che chi vuol continuare a vivere da single o in famiglia nucleare in città - grazie anche magari alla "filiera corta" - non debba avere i suoi servizi sociali (si, anche gli asili "condivisi"), beni senza essere merci.
Quindi, cari teorici della decrescita, fate i bravi e anziché speculare su ciò che vi divide sforzatevi di mettere a fattor comune i vostri ragionamenti: separarsi in questo momento potrebbe sembrare un modo di agire ma è restare immobili mentre altri la decrescita la stanno già mettendo in pratica a danno nostro.

mercoledì 4 agosto 2010

O LA BORSA O LA VITA

Facciamo un puro esercizio di stile, tanto le mie quote le ho già date e le dichiarazioni di oggi già mi danno pericolosamente ragione e non c'è nessuna speranza per questo sciagurato Paese, il cane non molla l'osso neanche a morire, dicevo facciamo un esercizio di stile e poniamo che ci sia davvero in Italia qualcuno che voglia tirarci fuori dai guai una volta che Cesare sia finalmente andato a godersi il maltolto in una delle sue residenze tropicali cui fin'ora ha rinunciato per servire la Patria. Che cosa dovrebbe fare, in pratica, o meglio: c'è qualcosa che possa fare, questo qualcuno?
Badiale e Bontempelli oggi li ha letti Cabras per tirar fuori un pezzo lucidissimo e terribile, che illustra con precisione sintetica la storia degli ultimi quarant'anni dell'occidente capitalista e dell'Italia in particolare. Letto attentamente il pezzo, e smaltito lo shock, occorre rammentare però che la Storia non ha quasi mai, come niente in natura, un percorso lineare, il che significa anche che quello che oggi sembra solidissimo domani rotola nella polvere. E che talvolta è solo tra le macerie, sollevatasi la polvere, che si può iniziare a distinguere indaffararsi quelli che ricostruiranno.
Dunque, non sarà Grillo nè Vendola, men che meno uno dei maggiormente compromessi tipo Fini e Casini, ed un papavero del PD non è nemmeno da prendere in considerazione. Le macerie, quelle già si può fare qualche previsione/speranza (in inglese è meglio: wishfull thinking) di cosa saranno: il federalismo (pace all'anima sua) e la Lega, l'Europa a esclusivo collante finanziario, il palazzinarismo, la Fiat e la grande industria "all'italiana" (privatizzare i profitti e socializzare le perdite), il Ponte sullo stretto le centrali nucleari e tutte le grandi opere della fissa di sua sorella (questa non ve la spiego, ma vi do la nota bibliografica: Camilleri, La concessione del telefono). Non c'è più un euro, boys, e ve ne accorgerete se davvero il vostro beneamato cavaliere (oggi l'hanno revocato a Tanzi, il titolo: io comincio a togliere la maiuscola, hai visto mai...) riesce a farsi rieleggere a novembre, quanto in fretta vi porterà alla bancarotta conclamata, stavolta.
Ma c'è del lavoro da fare, e ancora qualcosa su cui ricostruire. Il famoso 60 per cento del patrimonio artistico mondiale, per cominciare. La totale liberalizzazione della microproduzione di energia solare ed eolica, a far da volano alla famosa piccola impresa. I servizi pubblici come reddito "da decrescita": a un aumento di quante centinaia di euro al mese equivarrebbe l'asilo nido gratis, ad esempio? Divieto di transito ai TIR sotto Bologna: le merci viaggino per mare e si incentivi la nascita di un nuovo settore di smistamento merci dai porti alle località dell'interno. Insomma, ci sono tutti i presupposti perchè un circolo virtuoso una volta avviato si inneschi, ma come avviarlo?
I soldi già stanziati per il Ponte sono un buon esempio, ma la sostanza vera è altrove: secondo da ultimo Famiglia Cristiana, l'evasione fiscale vale 156 miliardi, la criminalità organizzata 140, la corruzione 50, sono numeri talmente grossi che anche a recuperarne un decimo l'anno non servono più manovre finanziarie. Le spese delle missioni "di pace" fanno un altro mezzo miliardo, e quello si può recuperare istantaneamente, basta rispettare l'articolo 11 della Costituzione e fare rientrare le truppe domani, a me piacerebbe si processasse per alto tradimento chiunque abbia votato a favore negli ultimi dieci anni, cioè la quasi totalità della classe politica, ma mi accontenterei del ritiro immediato e incondizionato. E quanto è entrato dallo scudo fiscale? decuplichiamolo per decreto, nottetempo: le liste sono ancora lì. Per le altre voci il risultato è più lento, ma non troppo. Basterebbe una riforma vera della giustizia, che sleghi completamente le mani ai giudici di modo che dopo qualche anno di terrore chiunque tremi alla semplice idea di intascare una bustarella o evadere un euro di tasse, dopo un paio d'anni vedrete che si possono abbassare finalmente le aliquote, a cominciare dalla media. I mafiosi non tremano, ma a quelli li freghi colpendoli nel portafoglio: domani, liberalizzazione di tutte le droghe a livello mondiale, e zac il trenta per cento in meno di fatturato (per la ndrangheta, il settanta), dopodomani, tassazione pesantissima di tutti gli immobili non occupati personalmente o affittati a canone concordato, e arizac, speculatori immobiliari sotto i ponti e profitti della criminalità ulteriormente tagliati di fonte e di sbocco. Quanto vale in termini di reddito "di decrescita" avere una casa a poco? I prezzi sono una cosa relativa, quello che conta è poter vivere, col proprio reddito, non a quanto ammonti nominalmente... Ah, dimenticavo: una riforma della borsa da far impallidire quella di Obama più altre misure sul lato monetario da riportare il rapporto tra economia finanziaria e reale a un livello fisiologico.
Sono consapevole di aver dato fiato ai pensieri o poco più, ma ripeto la Storia non è lineare, e ad esempio chi si trovò a dover ricostruire dopo la guerra non era più realista di me oggi a vagheggiare di una nuova Italia nel 1939 quando l'organizzazione socioeconomica fascista sembrava inattaccabile ed eterna. Stavolta il regime mostra le sue crepe ben prima della caduta, e speriamo che la crisi che dovremo attraversare non sia un conflitto di quella portata, ma ciò non toglie che abbiamo il dovere di pensare a cosa fare per ricostruire, e a dove cominciare a prendere le risorse iniziali. Anche perchè stavolta non ci sarà un Piano Marshall. Ma ripassiamo l'abc: una testa, un lavoro, una casa, e il resto a girarci intorno. La favola che ci hanno raccontato, che il mercato lasciato libero ci avrebbe dato questo ed altro, si è rivelata per quello che è. Le favole, anche quelle televisive, si raccontano ai bambini; speriamo che finalmente questa occasione ci faccia diventare un popolo adulto.

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