venerdì 20 agosto 2010

VEDO GUARDO OSSERVO FACCIO

Niente è come sembra (F. Battiato)
Addestrare i propri occhi solamente a guardare è una rinuncia inutile e disonorevole (C. Castaneda)
Se puoi vedere, guarda, se puoi guardare, osserva (F. Meirelles)
Di queste tre citazioni, la prima nelle intenzioni di Gemma Serena, autrice del pezzo qui sotto, doveva essere il titolo, la seconda la chiosa finale, mentre la terza ce l'ho aggiunta io. Un blog è un diario personale, a meno che non nasca a più voci, e se il suo autore vi ospita qualcuno è perchè bene o male lo considera in linea con i suoi pensieri o perlomeno in sintonia: ci si può attendere dunque che lo commenti in apertura o in chiusura. Il bell'articolo che segue, come gli altri di Gemma, mi trova fondamentalmente daccordo: la dicotomia parola/azione, che già fu del leniniano "che fare?" promosso a testata del loro ciclostile dai contadini di Fontamara, vi viene svolta fino quasi al consiglio spicciolo, che poi è (di nuovo) in sintonia con il tanto toccato tema della decrescita. La terza citazione l'ho aggiunta solo perchè mi è subito venuta in mente, avendola letta pochi giorni fa nel Quaderno di Saramago che poi è la trascrizione parziale del suo blog, dove infatti l'ho ritrovata facilmente: c'è un terzo livello, dopo vedere e guardare, e ha già molto a che fare col fare, come dimostrano perlappunto le "osservazioni" quotidiane del premio Nobel recentemente scomparso, così preziose a farci da bussola nel mare in tempesta del mondo di oggi.
Dobbiamo dunque osservare e tenerci pronti: le discontinuità della storia non si sa mai quando arriveranno, a chiudere bruscamente uno scenario ed aprirne un'altro in cui magari ciò che siamo e siamo riusciti a difendere dal fortunale torna ad essere moneta spendibile nel bazar della vita.
....
Sono tempi difficili, questi. Inutile negarlo. E chi si illude che la situazione potrà cambiare nel giro di poco è un romantico, ingenuo sognatore. Lo strappo è troppo grande, non si ripara con qualche punto messo a casaccio qua e là. Ci vogliono impegno, volontà, determinazione. Bisogna crederci, credere che ne usciremo. Parecchio ammaccati, certo, ma ne usciremo. L'istinto ci porterebbe a organizzare la fuga, proprio come dalle navi che affondano, e se restiamo è perché sappiamo che la nave è già affondata e noi abbiamo imparato a respirare sott'acqua. Scalciando un po', neanche troppo, ci siamo adattati e abbiamo persino cominciato a credere che è normale quello che accade, che è normale vivere così, in un Paese così, con un governo così, con una disperazione così. Abbiamo lasciato che ci fiaccassero per bene, che ci prendessero per sfinimento e siamo stati al gioco distruttivo della speranza. Quella che andiamo dicendo ci hanno portato via, tenuta in ostaggio, massacrata, occultata e che invece noi, ostinati, abbiamo deciso di continuare a coltivare nonostante tutto, nonostante una realtà tanto oggettiva da non poter essere interpretata che per quella che è: un disastro. I dati sono sconfortanti, le prospettive inquietanti. Ma noi sempre qui a sperare, il massimo che riusciamo a fare, viatico per il paradiso la sopportazione. Naturale conseguenza, proprio quello che si aspettavano da noi che a furia di riempire il tempo dell'attesa - quello che ci separa dal cambiamento - abbiamo chiuso, buon per loro, il cerchio speranza-sopportazione-rassegnazione. Già, perché, diciamoci la verità: noi siamo proprio rassegnati, ma di quella rassegnazione che anestetizza, che ci fa accettare ormai qualunque cosa senza batter ciglio, senza provare sgomento, vergogna, indignazione. Ci scivola tutto addosso, come se indossassimo un impermeabile, una corazza paracolpi. Tanto le dobbiamo prendere, allora meglio attrezzarsi. Ci hanno tolto la voce in cambio della speranza, non abbiamo fatto un buon affare.
Eppure siamo tanti - realisti al limite del pessimismo più cupo, immuni dai condizionamenti della morale cattolica e da quelli dei mass media, resistenti per vocazione, inaddomesticabili - ci ritroviamo qui e altrove come carbonari, discutiamo fra di noi, ci interroghiamo, spesso ci sembra di avere le risposte giuste, non come quelli che si parlano addosso in tv; ci troviamo le soluzioni in tasca, provetti allenatori di una squadra scalcagnata che siamo certi sapremmo raddrizzare. E' vero: siamo capaci di analisi, studiamo i dati, elaboriamo teorie che confrontiamo fra di noi, punti di vista articolati, documenti alla mano. Quanto parliamo, quante cose ci diciamo… Sottovoce, però. Ce le diciamo e basta. Poi restiamo fermi, immobili, quasi a compiacerci e a indugiare sulle conclusioni a cui siamo giunti argutamente col nostro realismo, a dimostrare, inconsapevolmente, che pure l'analisi sta nella logica della sopportazione. Caspita! Allora, ci siamo finiti anche noi nella trappola della speranza… No, non è possibile, noi no. Noi abbiamo semplicemente dimenticato che essere realisti non significa soltanto saper valutare una situazione con senso pratico, ma anche e soprattutto dare realtà alla nostra azione. In una parola agire.
Noi siamo tanti, siamo la vera maggioranza, tuttavia abbiamo rinunciato all'azione e per non mortificarci troppo diciamo che pure loro - i "nostri" politici - ci hanno rinunciato, visto come vanno le cose. Del resto, hanno permesso agli altri di compiere liberamente la destrutturazione del Paese e delle coscienze senza muovere un dito e con in più la pretesa di presentarsi ancora come nuovo, come alternativa. Va bene, non sono esattamente come loro, ma non sono neppure troppo diversi se poi ci ritroviamo ad ammettere, fra di noi, che quando si tratta dei loro interessi privati - conservare il potere, tanto per dirne uno - sono capaci, eccome, di agire. Quanto agli altri, si muovono agilmente armati di arroganza e di sistemi illeciti - la corruzione come filosofia - e sta a vedere che c'è pure qualcuno che li considera degni di ammirazione e di fiducia ulteriore. Pure fra di noi c'è chi, quando si fa avanti un politico diverso, un "realista attivo", prende a guardarlo in cagnesco e lo massacra di critiche: ma dove pensa di stare questo qua che si mette a parlare di lavoro, di ambiente, di libertà dei soggetti, di rispetto della diversità?! Per carità…
E, invece, quello ti dice, realismo per realismo, smettiamo di guardare al marcio, lo facciamo da anni, lo conosciamo bene ormai. Ora prendiamo il buono che è rimasto - non ci siamo lasciati scorticare fino all'osso - vediamo cosa possiamo farne, vediamo se si può ripartire da questo. Cerchiamo di capire, tutti insieme, ognuno con il proprio contributo di idee e risorse, se proprio dal vecchio si può concepire qualcos'altro. Un po' come facevano le nonne con i vecchi maglioni che disfacevano per ricavarne gomitoli da rilavorare. Con quella lana realizzavano altre maglie, coperte, scialli. Sì, la materia prima non era nuova, ma quella avevano, e a sferruzzarla ancora ci si poteva ritrovare fra le mani un prodotto persino migliore. Perché, in fondo, in quel vecchio maglione, loro riuscivano a scorgerla una simile possibilità. Noi, invece, non ce l'abbiamo questa visione, non riusciamo a costruirla: noi abbiamo in mente il cambiamento, possibilmente radicale, magari con qualche effetto speciale, ma siamo ancora poco inclini a metterci le mani. Dopotutto, con il nostro voto abbiamo delegato, cosa li abbiamo mandati a fare quelli là se poi, comunque, tocca a noi rimboccarci le maniche? Ora, a parte il fatto che "quelli" non sono neppure quelli scelti da noi, che ormai pure i bambini hanno chiaro che stanno lì non per il bene comune ma per il loro tornaconto; ecco, quelli hanno interesse a tenerci nell'immobilismo, godono a fornirci materiale per le nostre disquisizioni. Quelle che ci terranno occupati e distratti il tempo necessario perché loro combinino qualche altro casino che renderà più complicato chiudere questo circo di nani e ballerine. Fa paura, certo, pensare al cambiamento mentre loro si adoperano affinché nulla cambi davvero. Fa paura pensarci soli, privi di alleati, smarriti, disorientati e disillusi come siamo. Fa paura perché il disastro che hanno combinato è spaventosamente grande e non ci riesce di immaginare il modo per ripararlo. Proporzionalmente, ci vengono in mente azioni gigantesche, eclatanti e allora la paura aumenta insieme al senso di impotenza. Ma in questo disastro, non dimentichiamolo, c'è anche la distorsione della nostra capacità desiderante. Un altro inganno, come quello della speranza. Questo più frustrante, però, perché si confonde coi bisogni, quelli che hanno creato ad arte, indotti in ogni modo fino a renderli carne. Il mondo in vetrina e noi fuori con gli occhi sgranati, frustrati e avviliti dalla logica del guardare senza poter toccare: venghino, signori, venghino. Perché i bisogni li hanno creati ma poi non ci hanno messo, almeno non a tutti, nella condizione di poterli soddisfare. Così, un po' alla volta, abbiamo smesso di sentire il desiderio di ciò che non ci è dato di avere - che raramente corrisponde a quello di cui abbiamo davvero bisogno - mortificando, quasi fino a convincerci di averla persa, la nostra stessa capacità di desiderare. In questo modo, le impossibilità sono divenute distanza, disinteresse; sono diventate l'impermeabile su cui lasciamo scivolare gli eventi come se non ci riguardassero. I sogni che ci erano stati offerti sono diventati il nostro tormento e la loro - di quelli - arma migliore, quella che sostanzia il loro potere: abbiamo modificato la nostra scala dei valori difendendo e incrementando consumi non necessari . Così combinati non riusciamo ad aprirci una breccia, ancorché simbolica, in questo muro che ci impedisce la vista del cielo; non riusciamo a pensare a un futuro in cui la parola speranza non suoni più come una presa in giro, come una trappola mortale. Non riusciamo a smettere di usarla, di pensarla proprio, di pensarci noi in questi termini anche se, cominciamo appena a capirlo, contiene il germe pericoloso dell'attesa rassegnata. Non ci riesce ancora di sostituirla con la parola desiderio: volitiva, performativa, capace di creare la realtà perché ci concede di immaginarla, di definirne i contorni, un moto che ci spinge a cercare rotte nuove dopo tanto navigare a vista. Forza vitale, al contrario della speranza, istanza vera di cambiamento che ci aiuta a definire con maggiore lucidità gli obiettivi e li rende reali nell'attimo in cui li diciamo necessari. E ora ripartire è necessario, ripartire da noi stessi, desiderare il cambiamento oltre i bisogni e agirlo liberandoci dai laccioli della rassegnazione in cui siamo caduti più o meno tutti, per ragioni diverse. E' necessario compiere, fra gli altri, il gesto rivoluzionario di smettere di volere per noi quello di cui non abbiamo realmente bisogno, degli oggetti simbolo dell'omologazione di cui la nostra perenne insoddisfazione ci ha resi schiavi. Smettiamo di guardare e basta. Sforziamoci, invece, di vedere. Anche questo è realismo, anche così si rianima l'azione soffocata dalla speranza. Dicendo che noi ci siamo, che partecipiamo all'elaborazione di quello che il guardare ci restituisce. Possiamo mettere al mondo qualcosa di molto diverso se, finalmente, decidiamo di riappropriarci del senso di quel che finora abbiamo guardato e basta.
Gemma Serena

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