venerdì 24 novembre 2017

9. AL DI LA’ DELL’ORIZZONTE

In attesa di Sushi Marina, continua la pubblicazione dei racconti di Chi c'è c'è, raccolti da un "geestre" direttamente dalle menti di 21 terrestri in animazione sospesa su un astronave perduta nel cosmo, forse ultima testimonianza del nostro pianeta ormai distrutto. Qualcuno ricorderà che alcuni dei racconti li ho "ricavati" partendo da testi di mie canzoni quando ho dovuto abbandonare il sogno di cantarle: questa è una delle mie preferite, tanto che il testo è quello che ho pubblicato per primo. A sognare di essere l'armatore di Achab è, nel racconto, probabilmente una giovane astronauta scandinava.

9. AL DI LA’ DELL’ORIZZONTE

Non volevo farlo partire. Cioè, per uno che di mestiere fa l’armatore non è normale. Poi non è facile trovare un equipaggio come si deve per una baleniera, di questi tempi. Ci vuole gente tosta, disposta a stare in mare a lungo, e soprattutto ci vuole un comandante con quattro paia di palle quadrate, che trovi la gente giusta e la guidi per mare. Achab mi era sembrato di primo acchitto la persona che ci voleva. Era capitano, era colto, era un duro, aveva parecchi segni sul corpo a testimoniarne le peripezie e quindi la maturità; ma purtroppo non mi accorsi per tempo degli ancòra maggiori segni sulla sua anima.
Così cominciammo ad armare la nave, caricare le provviste, reclutare la ciurma, e intanto più tempo passavo con quell’uomo più mi convincevo della sua profonda insanità. Cominciai a temere dentro di me per la mia nave: mi era costato tanto acquistarla e rimetterla a nuovo, non mi andava di perderla. E ad ogni chiacchiera scambiata con Achab, ad ogni conferma che me ne risultava di quanto fosse sentimentale, idealista, incosciente, in una parola folle, mi si insinuava il dubbio che io quella nave se l’avessi lasciata partire quella volta non l’avrei più vista.
Poi un giorno saltò fuori la storia di Moby Dick. Capitò giù al bar del porto un vecchio marinaio irlandese che era stato imbarcato con lui. Aveva bevuto un po’ più del dovuto, e cominciò a sparlare: “...è un demonio, vi dico. E’ bianca, enorme, grande quanto quattro o cinque balene normali messe insieme. Ed è intelligente come il più intelligente degli uomini. Ed astuta. Oh, se è astuta. Ah, ma anche lui è un demonio. E’ così da quando quella gli ha staccato la gamba. Lui da allora non è più un cacciatore di balene, no: è un ossesso. Non vuole più altro dalla vita che ucciderla, ed è disposto a giocarsi tutto pur di riuscirci: la nave, la sua stessa vita, e quella dei suoi compagni. Io vi dico questo, signori: non mi rimbarcherei con lui per tutto l’oro del mondo, e chiunque di voi abbia cara la pelle...”.
Ammutolì all’ingresso di Achab nel pub. Il capitano spuntò dall’ombra silenziosissimo, come a voler confermare quella fama demoniaca che l’irlandese voleva accreditargli. Apparve prima il suo sguardo del resto, ed era già fisso sull’oratore. Che si sentì inchiodato alle spalle, smise di parlare e si voltò. Poi si sedette a continuare a bere in silenzio come se nulla fosse. Achab approfittò del silenzio generale per attaccare un’arringa, in cui combinò promesse di ricchezza e minacce in una salsa di arte oratoria e mimica tali che non mi ricordo cosa disse, ma rammento che non fui sorpreso a vedere tutte quelle mani alzate in segno di adesione quando finì, e l’avrei alzata pure io se avesse avuto senso. Uscendo di lì Achab incrociò il mio, di sguardo, e mi si gelò il sangue nelle vene. Cionondimeno lo seguii fuori, e gli chiesi di Moby Dick.
Non cercò di affabularmi. Era leale, con me: mi stimava migliore di quella feccia. Confermò tutto: la storia della gamba, l’odio, il desiderio di vendetta, la maestosità e l’intelligenza della bestia. Ma mi convinse che se c’era un uomo al mondo che poteva catturarla era lui. E che la gigantesca balena valeva da sola una stagione in mare, anche se comunque prima e dopo la sua cattura tante altre prede avrebbero reso il viaggio ancora più redditizio.
La notte prima della partenza, però, un pensiero mistico mi tolse il sonno. Dare una personalità ad un animale, per quanto intelligente, è come dargli un’anima: ciò al mio Dio non poteva piacere. Achab era senza dubbio un empio, bisognava fermarlo. Giunsi al porto all’alba, ma era già tutto pronto. Aveva intuito che avrei cercato di fermarlo, ed aveva fatto lavorare gli uomini di notte. Erano tutti lì, sul ponte, appoggiati alla balaustra, stanchi e silenziosi, e mi guardavano. Non mi avrebbero ascoltato. Però parlai lo stesso, sommersi Achab di parole, che venivano quasi da sole: io stesso mi stupii della mia inedita abilità oratoria, tanto mi parve bello e convincente il mio discorso.
Ma le mie parole scivolarono su Achab come l’acqua sulle piume di un’anatra. Era come se lui fosse più della somma delle sue parti, e non sarebbe servito a nulla smontarlo tutto: sarebbe rimasto lì, in piedi, immobile, lo stesso. Questi pensieri mi suggerirono che allora in fondo lo ammiravo, anzi no: lo temevo, ne avevo rispetto, mi ispirava deferenza. Ristetti per qualche istante, e bastò perché il capitano mi piantasse sul posto e desse l’ordine di mollare gli ormeggi. Poi si voltò a guardarmi, fisso, e prima che potessi riavermi la nave si era mossa e non mi restava ormai che aspettarne il ritorno.
Lo immaginai in piedi sulla tolda a guardare l’orizzonte, e se possibile più in là, fermo così, per ore, alla ricerca della sua ossessione. E risi di me: possibile che mi ero fatto fregare ancora da quei cacciaballe dei marinai? Siamo tutti balenieri, lo facciamo per i soldi; Moby Dick è solo una grossa balena, nella migliore delle ipotesi. E Achab è un gran trascinatore: sa bene che magari quella che lo ha ferito è già stata catturata chissà quando da chissà chi. Ma gli serve: Moby Dick è un mito, è il mostro marino che da sempre atterrisce e affascina i marinai. Che però alla fine salpano sempre: come Ulisse, che dopo venti anni di mare, finalmente tornato a casa, ne ripartì quasi immediatamente - e, si noti, tornato da solo, trovò lo stesso altri compagni disposti a seguirlo. Ulisse, quello delle Sirene, di Polifemo, di Scilla e Cariddi. Ognuno ha i suoi mostri. Per me Moby Dick non esiste.
... …
Ho perso il conto degli anni. Non so più da quanto aspetto che torni la mia nave. Ma tutti i giorni, imperterrito, mi piazzo qui sul molo, vicino al faro, a contemplare le grigie onde e ogni tanto a scrutare l’orizzonte in cerca di un segno. E sogno. Sogno di essere dentro la testa di Achab e guardare coi suoi occhi, oltre orizzonti sempre più lontani. Sogno di essere una giovane vichinga in attesa del ritorno del suo guerriero, che a furia di guardare al di là dell’orizzonte si addormenta e sogna di volare su una nave tra le stelle, e sulla nave dormire, e mentre dorme sognare di essere l’armatore di Achab. E nel sonno mi rendo conto che invece è il contrario, che c’è un Achab dentro la testa di ognuno di noi, a farci vivere anche per ciò che non vediamo ma che sappiamo che c’è, e forse è la parte peggiore di noi, ma è quella che amiamo di più.

mercoledì 22 novembre 2017

SCUOLA DI FARMACIA 2: LA BEFFA

L'attuale sede dell'EMA, a Londra
PROBLEMA
Dati:
  1. Avevamo quattro vaccini obbligatori perché le preposte autorità sanitarie avevano ponderato che solo per quelli era incontestabile il bilancio tra pericolo di diffusione della malattia e costi sia economici che sanitari potenziali della somministrazione generalizzata del farmaco. Di fatto, erano diventati sei per via dell'affermarsi progressivo della somministrazione unica con due facoltativi.
  2. I vertici mondiali della sanità, notoriamente infestati dalle lobbies farmaceutiche, decidono che l'Italia deve fare da apripista alla generalizzazione degli obblighi vaccinali, imponendo, anche per patologie scarsamente diffuse e senza chiarimenti definitivi in merito alla pericolosità dei preparati, per via politica, col consueto supporto terroristico della stampa prezzolata e compiacente che alimenta allarmismi ingiustificati, ciò che al massimo sarebbe stato accettabile ottenere tramite una campagna di persuasione consapevole e corretta.
  3. L'Italia esegue, anche perchè - si scopre - confida in cambio di ottenere una sede prestigiosa e molto redditizia: per tutti, viste le ricadute occupazionali (per quanto modeste, di sti tempi buttale via...), ma soprattutto per politici e amminestratori.
  4. A compito eseguito, com'è come non è, la prestigiosa agenzia finisce altrove - per sorteggio, e cosa pretendevi se non sei capace nemmeno di qualificarti ai mondiali di calcio?
  5. Improvvisamente, la stampa mainstream si ricorda di rimarcare che la normativa che ha imposto l'obbligo vaccinale è "piena di contraddizioni", che poi sono quelle che abbiamo citato all'inizio, e parte di quelle che andiamo ripetendo da mesi facendo eco ai pochi siti di controinformazione rimasti a fare informazione libera in Italia.
Quesito:
  • Quanto fa due più due?
Soluzione:
..............
(per quelli "de coccio", leggetevi qui Viale...)





sabato 18 novembre 2017

NOTTI TRAGICHE

Da bambino ero milanista, perché mio papà lavorava a Milano e perché ci giocava il più grande regista italiano di tutti i tempi, Gianni Rivera, uno col fisico di un "abatino" (Brera dixit) che sembrava non correre ma invece (avete presente Federer nel tennis, che sembra non faticare?) velocizzava il gioco più di tutti i corridori di oggi mandando il pallone lontanissimo dove voleva lui, segnando tanto e facendo segnare (anche mezzi brocchi) ancora di più. Quando Berlusconi comprò il Milan, e ancora non si sospettava che la cosa facesse parte di una strategia ben più ampia né si conoscevano le origini malavitose dei suoi soldi, mi ero già allontanato dal calcio da alcuni anni, perché era iniziata nei primi anni 80 la meravigliosa parabola sportiva della Cestistica Piero Viola, e il basket lascia miglia indietro il calcio per quasi ogni dimensione sportiva (frequenza e varietà di gesti tecnici, suspense, peso dei valori in campo, eccetera). Così, mentre mio cugino/fratello e molti altri milanisti famosi o meno esultavano per i nuovi trionfi rossoneri, io mi dimettevo da tifoso, e intanto capivo che quel modo di intendere il calcio, sia del presidente (comprare rose lunghissime di giocatori, tanto i soldi non sono un problema) che dell'allenatore (zona pressing a tutto campo, per tutta la partita, che così le due squadre giocano in venti metri), lo avrebbe rovinato, perché avrebbe costretto i concorrenti all'emulazione.
Fui facile profeta, e infatti i decenni a seguire videro da un lato bilanci societari sempre più gonfi e fallimentari, e dall'altro il talento calcistico sempre più mortificato, e deselezionato fin dalle giovanili, sull'altare della tattica e dell'eretismo podistico (ancora Brera, un autentico vulcano di neologismi). In questi trent'anni, qualche partita l'ho anche vista, ma mi sono sembrate quasi tutte mortalmente noiose. Sarò io, ho sempre pensato, visto che invece gli altri correvano a comprarsi l'ultimo pacchetto televisivo satellitare o digitale terrestre; dimenticavo che assistere a uno spettacolo sportivo decente è l'ultimo dei problemi del calciofilo medio, che invece si identifica con la propria squadra del cuore per ben altre ragioni (soddisfare l'atavico bisogno di appartenenza tribale, o sedare l'ansia della morte legandosi a qualcosa che viveva prima di lui e gli sopravviverà, ad esempio). E invece.
Invece finalmente una (meritatissima) disfatta toglie il velo alla verità. E anche se in tanti, non solo l'impresentabile vertice federale, si stanno prodigando e si prodigheranno per rattoppare il proprio giocattolo, è un piacere poter ascoltare delle voci autorevoli (qui Sconcerti) dare forma oggi ai miei annosi pensieri, formatisi anche per aver osservato da vicino, per varie vie, la realtà sconvolgente delle odierne scuole calcio. Posti dove si fa a pagamento quello che una volta anche da noi, e ancora oggi in mezzo mondo, si faceva gratis per strada o all'oratorio. Anzi, magari si facesse, perché quello era giocare a pallone, selezionando per natura i talenti e le personalità (se ti menavano e tornavi a casa a raccontarlo, tua madre ti rimenava), questo è un'altra cosa: imparare fin da piccoli schemi su schemi anziché il dribbling (sei pazzo? è meglio trascinare il piede così ti procuri il fallo magari da ultimo uomo...) fino sul fondo con cross a rientrare, sgomitare con gli altri per un posto in squadra nel campionato di categoria (con due fattori premianti: il fisico precoce, e le capacità di influenza dei genitori, di qualunque natura esse siano), essere alla moda e acchittati come quelli che guadagnano i milioni e vanno in televisione. Avvicinandosi a tante, troppe scuole calcio - provate - viene voglia di urlare all'allenatore qualcosa come "ma li vuoi fare giocare a pallone, sti ragazzini?", e ci si trattiene solo per non farsi picchiare... dalle mamme (tutte in tiro, e più cazzute dei papà, assieme ai quali guardano ai pargoli come a pacchi di soldi in fieri).
No, non è un caso che l'ultima generazione di campioni sia venuta fuori dal "mondo" precedente. Oggi, se vostro figlio è la reincarnazione di Rivera e lo portate a calcio, ve lo fanno ritirare dopo due mesi perché non pressa, se lo è di Bruno Conti perché è innamorato della palla, e con la stessa logica deselezionano ogni possibile nuovo Baggio, Totti, Del Piero o Pirlo, ma anche Rocca, Facchetti, Scirea per andare in difesa. E a proposito di quei campioni, scrissi a caldo su Contrappunti che vincere quel mondiale si sarebbe rivelata una iattura: il calcio aveva già mostrato tutti i sintomi della sua malattia, e senza quella inaspettata vittoria avrebbe con ogni probabilità ricevuto la giusta cura da cavallo, con sei o sette big, tra cui le romane e le milanesi, cancellate o almeno mandate a ripartire dai dilettanti, il commissario era pronto. Ma il centrosinistra precario di quel governo non poteva affrontare l'enorme calo di popolarità che gli sarebbe derivato dal proseguire su quella strada dopo la vittoria a Berlino, anche se quella cautela non gli valse nulla, e pochi mesi dopo ci ritrovammo il presidente pallonaro di nuovo in sella, grazie soprattutto alla sventatezza di quello delle figurine con l'Unità che oggi fa il cinematografaro ed era meglio per tutti avesse fatto sempre solo quello.
Così, anche solo per scaramanzia, possiamo giudicare benaugurante questa eliminazione (fosse entrato il golletto e avessimo vinto anche solo ai rigori nessuno oggi parlerebbe di crisi del calcio italiano, e ci prepareremmo alla solita overdose di "notti magiche", senza dubbio, se pensate che anche così stanno facendo di tutto, e magari ci riusciranno pure, per continuare l'andazzo come se niente fosse), hai visto mai davvero riformano il calcio (e hai visto mai gli italiani non distratti dal pallone pensano ai loro problemi e mandano al governo qualcuno di veramente nuovo che glieli risolva..).
Le idee in giro ci sono, ad esempio quelle di un certo Van Basten (uno che Sacchi voleva giubilare assieme ad altri "vecchi" e poi invece per loro fortuna cacciarono Sacchi e con Capello vinse altri 3 campionati): niente più fuorigioco per allungare le squadre (così i centrocampisti hanno di nuovo lo spazio e il tempo per ragionare come ai tempi di Rivera, e nuovi Rivera possono emergere), espulsioni a tempo al posto del cartellino giallo, e definitive dopo un tot falli, cambi volanti e reversibili, e ultimi dieci minuti cronometrati al netto. Lo so, sto scandalizzando i puristi. Ma lo spirito del calcio, quello vero, la ragione vera del suo enorme successo mondiale, non è nell'immutabilità dei regolamenti (che infatti sono cambiati moltissimo, ma spesso in peggio), è nella sua essenza di sport proletario e democratico, praticabile da tutti: da chi ha i soldi e da chi non li ha, da chi è grosso/potente/veloce e da chi è piccolo/intelligente/svelto. Se non cambiare significa tradire questo spirito, allora il cambiamento radicale è la cosa più conservatrice, in senso proprio, che si possa avere.

lunedì 13 novembre 2017

8. L’ERA DEI TOPI

Questa storia di pubblicare (in attesa di Sushi Marina) quei racconti di Chi c'è c'è (raccolti da un "geestre" direttamente dalle menti di 21 terrestri in animazione sospesa su un astronave perduta nel cosmo, forse ultima testimonianza del nostro pianeta ormai distrutto) che sono nati a partire da testi di canzoni unitamente a questi ultimi, mi è parso un esercizio di stile non sterile. Stavolta però metto sopra la canzone e sotto il racconto da essa tratto, in cui a sognare (più precisamente, a sognare di sognare) è una giovane astronauta forse anglosassone, per rispettare la cronologia esegetica, che a volerla spingere indietro si trova ancora l'ossessione per il disastro atomico incombente che pervase le nostre menti di giovani degli anni ottanta, influenzando immaginari artistici a tutti i livelli. Io avevo sentito dire che a ereditare il pianeta sarebbero stati gli scarafaggi, e a Reggio ce n'è di quelli grossi che volano, arrivati con lo sbarco degli alleati nel 43, ma per questo pezzo, che ho immaginato rock spinto duro, con intro lenta (i versi corti) arpeggiata sullo stesso giro e giro completo di assoli tra una strofa e l’altra (ma chi vuole il testo può metterci la musica che vuole, e chiedermi l'adattamento che serve), ho preferito i topi, meno probabili scientificamente ma più evocativi letterariamente.
L’ERA DEI TOPI
Alla fine di quel ciclo
evolutivo che ci ha forgiato
ci sostituirà qualcuno
che si disegnerà
nella scala evolutiva
e dove spesso noi ci disegniamo
traccerà una banda d’estinzione
ed ironizzerà:
“quegli esseri imperfetti
che credevano di sapere tutto
e di essere quasi immortali
non hanno resistito
ad un po’ di radiazioni!
e che diamine, che imperfezione!
meglio i nostri progenitori
che soli sono sopravvissuti
e hanno ricevuto in mano da Dio
lo scettro del mondo:
è da allora che è iniziata
l’era dei topi!”

Quando il sole della notte dall’oriente delle tenebre di sorgere deciderà
noi se ci fossimo potremmo osservare un mutamento di struttura nella vita,
e nel sole nero dell’estate solo schifosissimi topastri si abbronzeranno,
e nell’aria profumata solo il puzzo del loro schifoso sangue,
e le gite in montagna, e le passeggiate al mare saranno ormai loro prerogativa,
e le scuole e gli uffici e le case e le osterie le faranno anche loro e forse meglio,
e saranno presuntuosi, e si sentiranno pure loro esseri superiori,
e magari qualche nostro scienziato li ammirerebbe pure,

e la terra per loro sarà più grande che per noi, date le loro dimensioni,
e la sfrutteranno a fondo e più a lungo, date le loro minori necessità alimentari,
e oggi sono già dieci volte noi, e all’olocausto sopravviveranno tutti,
e forse faranno i nostri stessi errori ma anche le tante cose giuste,
e saranno nella grazia di Dio da quando riusciranno a alzarsi in piedi ed a guardare in alto,
ed avranno i loro santi, ed avranno i loro eroi, ed avranno la loro storia,
e nel mare puzzolente e grigio scuro sguazzeranno come noi nel mare azzurro
e quell’aria senza più l’ozono non gli farà che bene

perchè i raggi ultravioletti quando andranno via le nuvole atomiche li colpiranno
e muteranno loro, ma anche la terra in un ambiente a loro esatta misura,
e forse pure diventeranno belli, e forse un giorno si guarderanno allo specchio,
e uno di loro troverà un nome più bello per tutti che non sia topo
ma neanche uomo…
...
8. L’ERA DEI TOPI
  • Ma, professore, la preistoria è programma del primo anno!
  • E beh? devi essere preparata su tutto il quinquennio, lo sai.
  • Si, è così, d’accordo, ma in pratica agli esami di maturità si chiede sempre solo il programma dell’ultimo anno...
  • Oh, insomma! Sai rispondere, o no?
  • Si, professore, ma...
  • Niente “ma”, coraggio! Tu sei una delle migliori alunne della classe, su, io ti voglio far fare bella figura. Fammi un bel “volo di pipistrello” sulla preistoria, con particolare riferimento all’era degli uomini.
  • Bene, l’origine della nostra specie è antichissima. Come sempre accade in questi casi, molte leggende si sono sovrapposte nei secoli, a seconda della cultura dei popoli e dei tempi in cui sono sviluppate. Ma tutte hanno degli elementi comuni, che - come hanno dimostrato scienziati ed archeologi - poggiano su avvenimenti reali. Uno è il cosiddetto Grande Disastro, l’evento con cui è stata spazzata via la specie allora dominante sul pianeta, appunto gli Uomini. L’evento successivo, non si sa esattamente di quanto, è la Grande Mutazione, cioè la relativamente breve fase evolutiva con cui la nostra specie ha preso il controllo della Terra.
  • Limitiamoci agli assunti scientifici, ed andiamo con ordine.
  • D’accordo. Dall’insieme dei rinvenimenti archeologici sembra si possano dedurre una serie di informazioni sul pianeta nell’era degli umani, tra cui alcune trovano concorde l’intera comunità scientifica. Dall’esame delle rocce risulta che il livello delle radiazioni fosse molto minore dell’attuale, ma ad un certo punto dovunque si trova uno strato che testimonia che circa 5000 anni fa il livello radioattivo salì bruscamente, sicuramente per un evento straordinario, non sappiamo se naturale o artificiale. Lo Squitt ipotizza che gli umani avessero scoperto il modo di riprodurre l’energia delle stelle, o qualcosa di molto simile, che utilizzavano per il loro fabbisogno fino a che qualcosa deve essere andato storto, o di cui addirittura facevano uso militare, cosicché il Grande Disastro altro non sarebbe stato che una gigantesca guerra conclusasi con l’autodistruzione completa della specie. Ma la sua teoria non è condivisa da chi ritiene che gli umani, in quanto esseri intelligenti come noi e forse più avanzati scientificamente, avessero di certo il controllo della loro tecnologia così da tenerla - com’è ovvio - sotto la guida se non della loro etica (su cui non possiamo giurare) almeno del tornaconto collettivo. Resta pertanto l’ipotesi di una grande catastrofe naturale, come potrebbe essere la collisione con un gigantesco asteroide, il cui cratere oggi potrebbe essere sott’acqua.
  • Ma, ad esempio, che atmosfera respiravano gli umani?
  • Sempre dalle rocce risulta che l’aria avesse in percentuale molta meno anidride carbonica, anche se il valore era già in crescita durante l’era umana, con forte accelerazione negli ultimi secoli, prima del brusco aumento susseguente al Disastro. Per l’ozono invece vale il discorso opposto. Se ne deduce che il cielo dovesse avere uno strano colore azzurrognolo. L’ozono, infatti, tratteneva i raggi ultravioletti, alla cui repentina intensificazione alcuni scienziati attribuiscono la Grande Mutazione, ma a cui comunque gli umani dovevano avere ben scarsa resistenza, come pure alle radiazioni.
  • Una razza debole, dunque: meraviglia come abbia dominato tanto a lungo. E che mi dici del mare?
  • Di riflesso, letteralmente, anche il mare doveva sembrare azzurro. Quel poco che avevano. I maggiori ritrovamenti archeologici, quelli meglio conservati, sono infatti tutti subacquei, e si crede che nelle profondità degli oceani - se fosse possibile recarvicisi - si troverebbero addirittura i resti delle grandi città costiere della mitica Europa.
  • Come mai quest’enorme differenza nel rapporto acque/terra emersa?
  • Per via della differenza di temperatura innescata dal Grande Disastro, tramite una nube forse causata dalle esplosioni, forse dai detriti dell’asteroide, o anche per il mutato spettro della luce solare che attraversa l’atmosfera. Fattostà che la Terra degli Umani aveva le calotte polari enormemente più grandi, e molti ghiacciai anche a latitudini più basse: scioltosi tutto quel ghiaccio...
  • Va bene, basta così; ora passiamo alla Grande Mutazione.
  • Qualcosa su radiazioni e raggi ultravioletti l’ho già detta. Il fatto è che la nostra razza, come risulta anche dagli studi umani sui nostri progenitori (dai documenti rinvenuti pare addirittura  che li usassero come cavie per esperimenti di vivisezione: che barbari!), ha avuto sempre enorme facilità di adattamento all’ambiente, grazie anche alla prolificità ed al rapido susseguirsi delle generazioni. I nostri antenati dovevano sopravvivere in un ambiente a loro molto ostile, cosa che non gli sarebbe riuscita se la natura non li avesse dotati delle caratteristiche che ho appena detto, che fecero sì che già negli ultimi tempi del dominio umano i “topi”, come li chiamavano, sovrastassero per numero gli uomini. Erano però ancora solo animali, pur se intelligenti e sofisticati, e vivevano da parassiti, nel sottosuolo delle città degli umani, che li perseguitavano in modo massiccio. Forse inconsciamente prevedendo il loro futuro di dominatori del pianeta. E infatti i nostri avi al disastro sopravvissero in numero sufficiente, e si adattarono alle nuove condizioni ambientali nel giro di qualche generazione. Il primo esemplare di “mus erectus” il cui scheletro è stato rinvenuto risale ad appena 4800 anni fa, il primo “mus sapiens” a 4000. Ma già siamo agli albori della civiltà, e il resto è Storia.
Sempre lo stesso incubo, porca miseria. E’ da quando mi hanno addormentata che sogno di viaggiare per 5000 anni per il cosmo per poi tornare su una Terra in mano ai topi, o meglio ai loro evoluti discendenti, che ridono della nostra incapacità di mantenere in piedi la nostra stessa casa, e tracciano soddisfatti una banda di estinzione sulla scritta “razza umana” nel grafico della scala evolutiva che studiano a scuola, e che vede naturalmente loro al vertice. Con dimensioni e caratteristiche biologiche più adatte al pianeta, specie dopo la guerra nucleare, i topi hanno rifatto forse in meglio e di certo più rapidamente il nostro stesso percorso, fino a che uno di loro non si è alzato in piedi e ha guardato in alto, ha visto le stelle e ha cercato di prenderle, e non riuscendoci ha concepito l’idea di Dio. Per poi guardare dentro di sé e ritrovare lo stesso spazio infinito, assieme alla sete di conoscenza.
I topi, o come diavolo hanno scelto di chiamarsi, mi accoglieranno tra loro, novella Gulliver? O mi uccideranno, per paura che io contamini la loro saggezza coi miei valori tipicamente umani, cioè clamorosamente autodistruttivi? Mi chiederanno notizie, me ne daranno, si faranno osservare? Non lo so, e neanche lo immagino: il mio incubo si svolge sempre dentro un’aula scolastica, il giorno degli esami, e si conclude sempre con le stesse battute insulse.
  • Benissimo, Minnie, avrai un bel voto.
  • Grazie, professor Mouse, lei è gentilissimo.
  • Chiamami Mickie, bimba. A proposito, che fai stasera?

sabato 11 novembre 2017

1000 VOLTE MANU

Non è la prima volta che celebro l'immenso talento di Manuel Ginobili, su queste pagine che anche quando cambiano grafica restano su tema neroarancio, i colori sociali della Viola Reggio Calabria.
L'occasione stavolta me la da l'iniziativa della società cestistica reggina in occasione delle mille partite in NBA del campione che mosse i primi passi con la sua canotta: un bellissimo video (lo trovate in fondo) con immagini e interviste sia dell'epoca che più recenti, che lancia una maglietta celebrativa per una volta azzurra, con tanto di scudetto argentino e scritta "MANU", che la squadra indosserà nella prossima partita.
Chi è Ginobili, ai profani di basket, glielo faccio dire da due esperti, il giornalista Flavio Tranquillo e l'allenatore Gaetano Gebbia, in questo video di Reggioacanestro. Io posso solo aggiungere la mia testimonianza di tifoso neroarancio (della prima ora: fin dagli anni settanta dello "scatolone" in serie B), che:
  • quando ha visto la prima volta giocare l'allora ragazzino argentino gli riconobbe subito lo sguardo del leader pronosticandogli una grandissima carriera - e non ero certo il solo, anche se nessuno forse avrebbe mai potuto arrivare a prevedere che giocasse ancora in NBA a quarant'anni suonati avendovi vinto 5 titoli;
  • quando seguiva la Viola in trasferta in quegli anni poteva farlo con la certezza che c'era un tipo in campo che poteva farti vincere ovunque, e con l'orgoglio di avere l'invidia e il rispetto di tutti, perché lui giocava per la tua squadra.
Con un po' di fortuna, anzi con un pizzico in meno di quella sfortuna che sembra perseguitare la Viola negli anni (un giovane prospetto già convocato in nazionale che muore cascando da un muretto, un canestro buono annullato che avrebbe mandato in semifinale scudetto una squadra di campioni, un fallimento annullato in Cassazione dopo vent'anni che però intanto ha prodotto i suoi effetti nefasti, un tizio che rileva la società per farla ambiziosissima coi soldi promessi da uno sponsor che però si defila e quando cerca di metterceli lui la famiglia lo fa interdire, un altro fallimento stavolta senza redenzione se non partire dai campionati dilettantistici, insomma non ci siamo fatti mancare niente... ma d'altra parte non moriamo mai, e se moriamo risorgiamo, ormai è dimostrato), il suo amico e connazionale Montecchia (vinceranno le olimpiadi...) non si sarebbe infortunato prima dell'incontro decisivo con la Virtus Bologna per le semifinali scudetto, e forse avrebbe perfino vinto il titolo a Reggio prima di andare in NBA, passando proprio da un paio d'anni di trionfi nelle V nere.
Ma se con i "se" non si fa la storia, una promessa senza se, fatta da un tipo così, magari invece è da crederci. E allora arrivederci a presto, questa è casa tua, Manu!

mercoledì 8 novembre 2017

QUALCUNO ERA COMUNISTA

Una delle campagne promozionali più belle della
storia del marketing è di un giornale comunista
Ogni tanto giova ripetere anche le cose risapute: la Rivoluzione d'ottobre si commemora a novembre perché nella Russia zarista ortodossa era ancora in vigore il calendario giuliano, ma è proprio in questi giorni che i bloscevichi prendevano il potere, giusto cento anni fa. Una cifra così tonda che l'anniversario non si può non celebrare, anche se magari ricorda una disfatta (come per Caporetto pochi giorni fa, alla rivincita di Vittorio Veneto toccherà l'anno prossimo) o la fine di un sogno (come per il cinquantennale dell'uccisione di Che Guevara il mese scorso - a proposito, guardate cosa stanno facendo agli archivi di Gianni Minà...).
Ma se per le rievocazioni storiche è il caso di lasciar fare a chi è di mestiere (anche se scrive per i peggio traditori della sinistra italiana), un paio di riflessioni possiamo approfittare per farle anche tra dilettanti e amatori. Magari a partire dalla riuscitissima idea che il pubblicitario Panzeri (quello di "liscia gassata o Ferrarelle", non uno qualunque) partorì per uno dei tentativi di rilancio de Il manifesto.
Chi anche non avesse una foto propria o di un figlio in questa posizione, infatti, ha sicuramente almeno visto un bambino dormire così. E' farsi venire in mente uno slogan così fulminantemente efficace, che è raro, ma il punto non è questo. E' che il pugnetto ti suggerisce una cosa non vera. I bambini non sono comunisti.
Il senso del possesso, infatti, non fu solo prealessandrino (cit.), ma preumano, preprimatico, premammifero, e forse dobbiamo andare ancora più indietro, se esistono rettili o uccelli o insetti che si appropriano del cibo per dividerlo al massimo con la loro prole difendendolo dai propri simili. Il motore è l'istinto di autoconservazione, e se è vero che l'uomo è animale sociale, e deve a questa caratteristica scimmiesca la sua evoluzione verso il dominio dell'ecosistema (il gruppo ha consentito che passassero la selezione darwiniana dei cuccioli nati molto più immaturi di qualsiasi altro mammifero, ma per ciò stesso più intelligenti, dato che il cervello degli umani finisce di crescere quando già si interagisce con l'ambiente), è anche vero che ciò incide a un livello meno profondo delle forze che fanno litigare i bambini attorno a un oggetto gridando "è mio!", trionfare cupo chi se lo accaparra e piangere disperato chi lo perde.
Avere dimenticato ciò, è il peccato originale del comunismo. Si, anche del cristianesimo (e l'accostamento non è blasfemo: barzellette a parte, i primi cristiani erano decisamente comunisti, come capita a molte sette), ma peggio, se dal cristianesimo da un lato è potuta nascere l'etica protestante, senza cui non sarebbe nato il moderno capitalismo (questa non si può spiegare in breve: fidatevi, o studiate), e se dall'altro lato la doppia morale tipica dei cattolici non gli avesse consentito di edificare, mentre si predica la povertà e la condivisione, una istituzione che ha accumulato nei secoli ricchezza e potere enormi. Costruisci un sistema di potere per instaurare la dittatura del proletariato, e chi più chi meno tutti quelli che hanno in quel sistema un ruolo di responsabilità ne approfitteranno per avere per se più ricchezza e/o potere della media, nella misura in cui gli sarà possibile. Mentre tutti gli altri, esclusi dalla possibilità di accedere a qualsiasi relativo vantaggio, si consoleranno guardandosi attorno, e magari in testa capiranno che il vantaggio relativo dei burocrati è oggettivamente minimo e poi è funzionale alla Causa, ma nel cuore saranno infelici, e se magari vedranno vicino a loro altri popoli che con altri sistemi sono più dinamici e felici ne saranno invidiosi in misura crescente. Vi ho raccontato così l'ascesa e la caduta del cosiddetto socialismo reale, per una sintesi maggiore (peraltro, visto quando fu concepita, decisamente profetica) vi rimando a Bennato. In ogni caso, è una storia molto ma molto diversa da quella che vi raccontano.
Ma dimenticarsi della dimensione sociale, come il neoliberismo trionfante ha per varie vie imposto al mondo negli ultimi trent'anni, crea il problema opposto, e prima o poi toccherà rammentare che senza le briglie costituite da istituzioni democratiche e diritti irrinunciabili (e, tra questi, quelli economici sono propedeutici a quelli civili: concedere questi ultimi avendo tolto gli altri è solo una solenne presa per i fondelli, di cui peraltro prima o poi si rendono conto tutti, anche i sostenitori più sfegatati, poi non ci si sorprenda di certe scoppole) gli istinti preumani portano alla distruzione dell'umanità, tramite ogni forma di conflitto. E' esattamente quello che sta accadendo al mondo, e alla nostra società.
Nei trent'anni precedenti, quando ne aveva bisogno per solleticare l'invidia dei popoli comunisti, il capitalismo aveva accettato di ibridarsi col socialismo in quella sorta di età dell'oro chiamata Welfare State. La sua morte ha nel capitalismo globalizzato i mandanti, nei nuovi schiavi di vario tipo (migrare o accettare di vedere la realtà soltanto attraverso uno schermo sono solo i due modi limite di capitolare, in mezzo tutti gli altri modi, tra cui accettare l'erosione dei diritti senza ribellarsi) le vittime, nei politici e nei giornalisti (quelli in teoria pagati per esserne rispettivamente i guardiani e i cani da guardia) i killer prezzolati. Orwell lo aveva previsto: non parlava solo di comunismo come si può credere con superficialità. Non è possibile resuscitare quell'ibrido, anche perchè il suo modello di sviluppo è incompatibile con le risorse del pianeta e pertanto inestendibile. Ma urge trovare uno nuovo, e presto, perché gli ibridi sono sempre vincenti, e perché infatti altrimenti il nuovo ibrido vincente c'è già, ed è pronto a mettere le mani sul volante. E se non facciamo qualcosa, il processo si fermerà solo quando guadagneremo e lavoreremo quanto un cinese. Se ci va bene. In altre parole, per non aver difeso il nostro capitalismo screziato di comunismo, ci toccherà essere sudditi di un impero comunista condito di capitalismo, bell'affare...
Ora, io sono abbondantemente quello che si diceva una volta un uomo di mezza età. Le rivoluzioni le hanno sempre fatte i giovani, magari guidate da uomini più maturi ma comunque meno anziani di me oggi. Quelli come me talvolta le hanno appoggiate, ma poi sono stati i primi a rimetterci le penne. Ma non è questo il problema: è che a un certo punto capisci che le rivoluzioni a un certo punto finiscono tutte con un regime simile a quello che hanno abbattuto se non peggiore. Da giovane lo avevi studiato, ora lo capisci. Quindi non vi dico di farla, anche perché per farla bisogna essere disposti a cose che uno si deve sentire da se, e se non sei disposto a tutto e tenti lo stesso finisci presto nel ridicolo, come avete appena visto in Catalogna. Ma se smettete di votare (e oramai ad averlo fatto è la maggioranza assoluta degli elettori, quota che levita se guardiamo solo i giovani) fate il loro gioco: sappiate che lo hanno fatto apposta, a farvi venire lo schifo. Tornate a votare, oggi per Grillo, domani per chiunque altro si dimostrerà altrettanto o ancora di più alternativo a questo sistema di connivenze multistrato che ha di fatto cancellato la democrazia. Dovete pretendere di essere sovrani, cioè sudditi democratici di uno Stato sovrano che è lì per garantire i vostri diritti inalienabili, primo dei quali il diritto all'autosostentamento e alla libertà dal bisogno senza cui tutti gli altri diritti restano sulla carta, e per interloquire solo con altri Stati sovrani che garantiscono ai loro cittadini le stesse cose (è esattamente aver ceduto su questo fronte, che ci ha rovinato), si fotta la globalizzazione.
Se non lo fate, non vi salverete. Se lo fate, tra cent'anni qualcuno lo ricorderà. Magari così:

sabato 4 novembre 2017

DENTRO O FUORI

Il deposito FS di Reggio C.: una vasta area tra stadio e mare
Quando mio padre vedeva passare un treno non resisteva alla tentazione di citarne a memoria il numero identificativo, una sequenza inspiegabile di cifre che per un profano qualunque, figurarsi per un bambino, poteva essere del tutto inventata, ma invece no che non lo era. Più grandicello mi capitava di passare a trovarlo al lavoro: come capodeposito, organizzava i turni dei macchinisti, ed era una goduria vederlo armeggiare matita gomma e penna su un foglio di un metro quadrato con la cornetta del telefono perennemente tra orecchio e spalla, che era tutto uno squillare e richiamare, finché non quadravano le esigenze di tutti e quelle del servizio da fornire immancabilmente. Eravamo negli anni 70/80, l'era digitale manco si intravedeva. I suoi epigoni, dopo qualche anno di smanettamenti su Excel, oggi probabilmente sono bravissimi ad armeggiare con un applicativo apposito. Ma non so se saprebbero organizzare il tutto su carta, ci fosse un qualche evento che resettasse le reti informatiche.
Non è una critica, è una riflessione che riguarda tutti noi. Stiamo perdendo delle capacità, tutti, chi più chi meno. Da ragazzo ricordavo a memoria tutti i numeri di telefono dei miei amici e parenti (probabilmente avevo elaborato una mia metodologia di dare "ragione" ai numeri di più cifre, simile a quella di mio padre coi treni), senza dover consultare la rubrichetta cartacea scritta minuscola che tenevo nel portafoglio solo perché non si sa mai. Oggi ricordo a stento un paio di numeri oltre al mio, tra cui non c'è quello mio del cellulare d'ufficio. E senza un computer - fino a ieri: oggi senza uno smartphone - non sappiamo fare niente. Ecco perché mi ostino a tenere nota dei miei impegni settimanali, lavorativi e non, su di un planning di carta: non voglio restare paralizzato perché mi è caduto il telefonino (anche se, usando il cloud, questo rischio è ridotto). E avendo imparato ad orientarmi nei posti da piccolo, perché papà mi portava in giro "a scoprire posti nuovi" in città, tendo a usare il navigatore il meno possibile e nel modo più simile possibile a una mappa di carta (se non so dov'è una via, fino a ieri guardavo sulla cartina, oggi su maps, ma chiudo e poi so io come ci si arriva - e va bene, gliela do un'occhiata alle condizioni del traffico, ma una soltanto). Ma lasciamo perdere me, e i miei coetanei. Parliamo di nativi digitali. Se nasci con in mano una calcolatrice, non imparerai mai a fare a mano una somma (limitiamoci alla somma...) meno che elementare, figurarsi a mente. E questo paradigma purtroppo si applica a tante, troppe attività un tempo considerate "elementari".
Ma la cosa non è casuale. E nemmeno imprescindibile. Voglio dire: è errato presentarla come connessa inevitabilmente col progresso tecnologico, che pertanto sarebbe da rifiutare per non pagare questa conseguenza (o viceversa accettare di pagarla se lo accetti). Per capirlo bisogna di nuovo tornare ai fatidici anni 70/80. Mentre mio padre si esaltava nella sua versione analogica, l'informatica, mentre entrava nel digitale, si guadagnava il rango di disciplina accademica a sé. Tanti ragazzi si iscrissero a quella facoltà, che stringi stringi doveva insegnarti a ragionare in un modo che potesse essere utile a interfacciarsi con una macchina che capiva solo due segni, zero e uno, e quindi a comunicare con lei in una serie di linguaggi intermedi tra il tuo e il suo. La cosa prometteva tali orizzonti che si iniziò a parlare dell'Era informatica come di quella in cui sarebbe avvenuta una nuova alfabetizzazione universale, con le stesse categorie di pensiero con cui si studiava l'invenzione dell'alfabeto e della scrittura o più tardi della stampa a caratteri mobili, e le stesse rivoluzionare conseguenze. Ma di questo ho già parlato, se volete ve lo rileggete, oggi voglio andare oltre.
Oggi la strada tra il linguaggio del computer e il nostro è stata compiuta tutta nell'altro verso. E per forza: era un grosso affare, e i soldi sono un motore imbattibile. Per questo chi disegnò le istituzioni democratiche aveva pensato che era un dovere costituzionalmente sancito costringere in steccati il loro raggio d'azione. Per questo chi ha consentito negli anni che quegli steccati venissero travolti (e l'impero globale neoliberista instaurato) dovrebbe essere incriminato per alto tradimento e condannato come nemico della democrazia. Così, alla fine di questo percorso (lungo il quale ci sono già i chip sottopelle per i dipendenti e la realtà virtuale per i malati terminali - che presto saranno rispettivamente obbligatori e eutanasia al posto della pensione per tutti) avremo anche, per fare un esempio, auto che si guidano da sole, così intanto possiamo usare il telefonino. Già oggi vendono quelle che frenano o parcheggiano da sé, così non serve saperlo fare, come del resto saper cambiare le marce e partire in salita. Entrare in autostrada e mollare i comandi a Google, d'altronde, non sarebbe meglio che stare attenti a tutor e autovelox? Usciamo dalla metafora automobilistica, però, così capiamo meglio...
Una volta che tutto quello che si doveva con fatica imparare e introiettare, te lo fa qualcosa fuori da te, controllato da chissachì (e attenzione che ciò è già sempre più vero, e sempre più pervasivamente, in tantissimi campi, dalla produzione e distribuzione del cibo e degli altri beni di prima necessità, alla gestione del credito e di qualunque attività lavorativa, passando per qualunque aspetto della cultura), cosa ne resta del già di suo per natura illusorio concetto di libertà individuale? E attenzione, che non sto facendo filosofia: provate a immaginare un evento qualunque, naturale o umano (cataclisma o guerra), in grado di "spegnere" l'ormai "unico" interruttore. Quanto saremmo in grado di sopravvivere? E quindi chiedetevi: chi ha il Potere oggi? le istituzioni presunte democratiche o chi è in potere di fare quel click? E chi si salverà (ammesso che si salvi qualcuno), se non chi ha mantenuto o recuperato la capacità di fare le cose dentro di sè?

giovedì 2 novembre 2017

7. IL SOGNO DELLA MORTE

In attesa di Sushi Marina, continua la pubblicazione (oggi particolarmente tempestiva, visto il titolo) dei racconti di Chi c'è c'è, raccolti da un "geestre" direttamente dalle menti di 21 terrestri in animazione sospesa su un astronave perduta nel cosmo, forse ultima testimonianza del nostro pianeta ormai distrutto. A sognare questo sogno è un ragazzo olandese, ma che questa storia delle nazionalità diverse sia una conseguenza posticcia della necessità di raccogliere i racconti con un pretesto l'ho già detto all'inizio, e comunque si capisce.

7. IL SOGNO DELLA MORTE
Quante volte capita di tentare di immaginarsi cosa si prova al momento di morire! Dico: in quel preciso momento. Da qualche parte ho letto una teoria che mi affascina, e che nello stesso mi permette di conciliare la mia antica sete di sapere trascendentale e quel mio eccesso di ancoramento logico che mi ha sempre negato il dono della fede: se questa vita è il regno del Divenire, e l’altra vita è quello dell’Essere, probabilmente l’ultimo istante che viviamo si dilata all’infinito.
Questo in un colpo solo spiega il perché scrittori e registi facciano sì che il loro eroe negli ultimi istanti di vita percepisca la realtà al rallentatore e faccia a tempo a scorrere nella memoria il film della sua vita, e fornisce una spiegazione razionale al paradiso e all’inferno, nel frattempo spiegando pure la ratio dell’ultima confessione nel cristianesimo. Se fosse vera questa teoria, infatti, diventa decisivo morire sereni, con l’animo leggero, perché l’ultimo tuo istante è l’ultimo eterno istante di tutto l’universo, secondo il tuo punto di vista. Come dire: niente di meglio di una bella assoluzione, per uno che crede nell’aldilà o perlomeno ci spera.
Sul rallentatore in verità avrei un’altra teoria, non so quanto vera ma che ho sperimentato sulla mia pelle. Una volta, infatti, sono finito fuori strada con l’auto, che si è rovesciata ed è rotolata giù per una scarpata; ebbene io ricordo perfettamente ogni singolo istante dell’incidente, dalla sterzata per evitare l’automobile che mi aveva tagliato la strada, al controllo del mezzo perso dopo un bestemmione ed il contatto di striscio con quel pazzo, alla pietra miliare che si avvicina, in primo piano, all’impatto, al capovolgimento della vettura verso l’avanti su se stessa, alla visione “cielo sotto terra sopra” attraverso il parabrezza, alla mia mano che scivola d’istinto verso la maniglia della portiera, alla mia incredibilmente agile capriola con le spalle sul terreno per finire in piedi all’inseguimento del “criminale”, alla mano che va tra i miei capelli e torna sotto lo sguardo insanguinata, al sangue sulle scarpe e sulla camicia strappata, all’ultima occhiata alla macchina appoggiata in fondo alla scarpata col parabrezza rotto e la ruota di scorta sul posto guida, prima di svenire. Neanche cinque secondi, forse, e potrei parlarne per ore. Ebbene, io credo che se avessi avuto il tempo di pensarci non avrei avuto una reazione neanche lontanamente paragonabile. Probabilmente, infatti, in questi casi il cervello va in automatico, ordina una scarica di adrenalina tale da moltiplicare forze, abilità, riflessi, e magari pure frequenza di registrazione in memoria, così che quando ricordi è come proiettare a velocità normale una pellicola registrata 10 volte più veloce.
Non so quanto in realtà siano compatibili queste due teorie, e quanto attendibili in assoluto; d’altra parte quando sogno di morire non mi pongo problemi di verosimiglianza. Nessuno credo lo faccia.
L’ultimo mio ricordo, l’ultima sensazione è quella di un qualcosa di affilato che mi scorre sulle gambe, tagliandole di netto appena sotto le palle. Il pensiero più forte tra quelli che mi si accavallano in questo momento è: “meno male che le palle sono intatte”. Non fa male: il dolore è un servomeccanismo, se non serve si disattiva. E a me non serve: tra pochi secondi sarò completamente dissanguato.
C’è mio padre, a reggermi la testa con le mani; e già: ero venuto qui a salutarlo, lui vecchio ferroviere di provincia quasi in pensione, io studente ad Amsterdam capellone e barbuto, giovane ed irruento. Qualcuno lo ha insultato, una vecchia questione, siamo allo scalo merci, lui ha risposto, quello fa per aggredirlo, ma io mi sono messo in mezzo e quello ha spinto me, è grosso, e io sono sbilanciato, faccio qualche passo indietro per non cascare, poi inciampo col tallone sul binario e cado all’indietro rimanendo a cavallo dell’altro binario, le gambe di qua il resto di là, proprio un attimo prima che passi un convoglio in manovra. Questo è il passato recente, l’accaduto, il fatto.
Un altro pensiero è per la mia ragazza: ho capito che sto per morire, che non la rivedrò più. Non saprò mai se era la ragazza della mia vita, se avrei finito per sposarla ed avere dei figli da lei, o se invece l’avrei scoperta qualche volta con qualcun’altro e sfanculata, o viceversa. Ma ora vorrei dirle che l’amo tanto, e prego mio padre di riferirglielo, quando la vedrà.
E pensare che nell’adolescenza avrò fantasticato mille volte di suicidarmi! Si sa, il pensiero di suicidio è in realtà un meccanismo che scatta sotto il comando dell’istinto di sopravvivenza: ti metti a pensare a tutti i tuoi cari, ne passi quasi in rassegna le reazioni alla notizia del tuo gesto, fino a che non scopri un motivo per non ammazzarti, o comunque perdi il momento buono. Dove l’ho letta, una riflessione del genere? Ah, si: l’italiano Pavese, “Il mestiere di vivere”.  Peccato che poi “Cesare perduto nella pioggia”  abbia finito coll’ammazzarsi per davvero. Io non posso più, neanche volendo.
Ma allora com’è che avrei voluto morire, potendo scegliere? Da eroe? Ecco la scena, da romanzo romantico: il bambino che scivola nell’acqua melmosa del Polder inondato, io che mi tuffo senza esitazione, senza neanche togliermi le scarpe e l’orologio, o affidare a qualcuno il telefonino e il portafoglio. Lui si agita, troppo: io fatico a tenerlo su, ma bevo, e il fango mi cattura per le scarpe, e non riesco a respirare, ma resisto, devo salvarlo, ecco qualcuno che si avvicina, lo afferra, ma io non vedo più niente, non sento più niente. No, ora vedo tutto, chiaramente, dall’alto: il bambino che tossisce e vomita, un capannello di persone che si agita, qualcuno che con un bastone ricurvo aggancia qualcosa che altri tirano su. E’ un cadavere. Il mio. Neanche questa è mia: ho letto un libro in cui persone che sono state in coma raccontano di un tunnel, di una luce in fondo così attraente, e della loro degenza vista letteralmente da un altro punto di vista, ad esempio in volo radente al soffitto della stanza dell’ospedale.
Oppure magari anche una morte normale, ma essendo stato una persona speciale. Che so, Karl Marx, l’autore più seguito e più travisato della storia del pensiero, dopo Gesù Cristo (quest’ultimo il mio preferito quanto a morte, così spettacolare!). Ma mi sarei accontentato di diventare un tennista classificato ATP anche molto in basso, o il terzino destro dell’Utrecht. Certo, Gesù ha fatto proprio una morte come si deve! Scenografica. Lenta, dolorosa, con tanto di frase ad effetto. “Padre, perché mi hai abbandonato?”, e china il capo; e si oscura il sole! Ma non solo: risorge, ancora più spettacolarmente, ed ascende al cielo! E dirò di più: morto tra due uomini, per mano degli uomini, ha fatto tutto per gli uomini. Per salvarli. Lasciando una testimonianza.
...Certo che poteva essere un pochino più chiaro, pure lui: avrebbe evitato duemila anni di crimini commessi in suo nome e in generale di travisamenti delle sue parole. D’altronde, ad essere anche fin troppo chiari e tassativi come suo padre nei dieci comandamenti si viene disattesi lo stesso: sono gli uomini, è nella loro natura sbagliare, lui lo sa bene, li ha fatti lui. A sua immagine e somiglianza, per giunta. Però, a pensarci bene, chiunque sapendo che tanto sarebbe risorto avrebbe fatto tre anni di prediche, qualche giorno di passione e tre di sepolcro, per poter passare alla Storia. E poi, tra il Salvatore che perdona e Jahvè che si incazza di giusto preferisco ancora quest’ultimo: vuoi mettere, l’antico Testamento!
Peccato che sono entrambi immortali. La morte è importante, direi essenziale: senza di essa la vita non avrebbe alcun valore. Nessuna idea è concepibile dalla mente umana se non è lo è anche il suo esatto contrario. Il bene? Non sarebbe apprezzabile se non esistesse il male. La salute si definisce grazie alla malattia, la pace grazie alla guerra, e così via, per qualunque concetto. Attenzione: per noi poveri umani ciò che non è percepibile, concepibile, apprezzabile, è esattamente come se non esistesse. Cioè: potrebbe anche esistere, ma su un piano parallelo al nostro, che da qui non si può neanche tentare di immaginare di definire. Tanto vale dire, come dico io, “non c’è”, anche se non posso escluderlo. Il paradiso, l’essere in Dio, l’Essere assoluto, non può dirsi o pensarsi con una mente e – direi - un’anima intrinsecamente transeunti, fatte di Divenire. Pertanto, se esistesse il Paradiso, l’Essere, noi ora e qui saremmo nell’Inferno, il Divenire. Siccome quindi il Paradiso non è da noi concepibile, allora è esattamente come se neanche l’Inferno esistesse. Per essere precisi, più che non esistano si può dire che non sono nostri problemi, e fare come se non esistano.
Forse la morte migliore l’ha fatta il nonno di un mio cugino: ad 85 anni suonati, siccome ogni tanto gli tirava ancora, è andato a morire sopra una prostituta di Amsterdam (solo per questo già meno fortunata di lui). Sul petto di una donna è perfetto, è dove si viene appoggiati appena nati, se la levatrice è brava e vuole farti risentire subito la musica del cuore di tua madre, il suono che hai sentito in tutta la tua esistenza fino ad allora, ed il cerchio si chiude. Com’è rassicurante sentire sempre la stessa musica!
Io no, invece. Io ho cambiato musica spesso, troppo spesso, nella mia vita, e in tutti i sensi. Eccole, in rapida successione, le scene della mia esistenza susseguirsi nella mia memoria. E’ proprio vero, succede! Saranno le ultime pompate, allora? Il sangue sta proprio per finire, o ancora no? E quanto tempo è passato dall’incidente? E quanto me ne rimane?
“Ti rimane sempre da vivere tutto il resto della tua vita”, mi risuona in testa questa frase, neanche questa ricordo dove l’ho letta.  Ma è verissima: anche in fisica qualsiasi misurazione fatta dall'esterno di un dato sistema chiuso per quel sistema non ha senso. Occorre farla dall'interno. E da dentro di noi abbiamo sempre tutto il tempo che ci rimane. E possiamo sempre farne tutto quello che vogliamo. Ho ancora il diritto e la possibilità di sognare di morire tutte le morti possibili. Fino a perdere la percezione del filo sottile tra sogno e realtà. Il sogno della morte è il migliore, per questo scopo. Tanto per cambiare, non so dove l’ho letto. Non so neanche più se sto morendo sul serio o solo sognando di morire. Benissimo, Johan, vai così che vai bene. E buonanotte.
---
Qualcuno ricorderà che alcuni dei racconti li ho "ricavati" partendo da testi di mie canzoni quando ho dovuto abbandonare il sogno di cantarle: in questo qui mi sono discostato talmente poco che  pubblicare assieme le due cose (per usare il mio testo mettendolo in musica - qui avrei pensato a una rock ballad ossessiva, un giro parlato un giro, quello coi puntini, strumentale - basta chiedermelo) mi sembra giusto, e anche forse divertente come esercizio di stile.

IL SOGNO DELLA MORTE ACCIDENTALE
L’ultimo ricordo, l’ultima sensazione
fu quella di un qualcosa di affilato che ti scorreva sopra,
qualcosa che ti tagliava, all'altezza delle palle,
le gambe, e scattava l’ultimo giro di giostra della vita;
pensasti “meno male che le palle sono salve”
appena in tempo prima di finire il sangue,
dicesti “salutatemi la mia bella
ditele che l’amo tanto”.

Pensare che hai pensato mille volte di suicidarti,
che hai infiorito nei sogni questa possibilità,
e altre volte – meno – di morire da eroe,
salvando qualcun altro dalla grande puttana.
Avresti accettato magari di morire di mafia,
persino di morire da Cristo in croce,
solo non capivi perché c’era la guerra,
solo non capivi perché mal sopportavano la pace.

“Da Cristo – avresti detto – che bell’avventura!
certo non ci sarebbe stato molto da guadagnare”,
ma almeno lui è morto quando lo sapeva,
è morto per, è morto tra, è morto a causa degli uomini;
“brutta fine, fino ad ora inutile – avresti pensato –
io farei di meglio” - ti sentivi forte:
parlavi, parlavi della, e parli con la morte,
ne parlavi anche con lei…

Gioca, gioca, hai solo vent’anni, gioca ancora!
daresti al sogno un soldo per un’ora,
un’ora per poterla ancora salutare,
ma neanche questo, neanche l’ultimo saluto,
non ti è concesso niente, siamo mica nei film!
non sei morto mica da protagonista,
né tra le braccia sue, proprio non ti toccava:
“inutile”, è l’aggettivo che alla tua fine mancava.

“Avrei sognato di morire da Unico,
mi sarei accontentato di morire da Cristo,
non malvolentieri l’avrei finita da Robespierre,
in ultima analisi da marito soddisfatto.
Che gioia, forse, morire sul tuo seno!
Ma morire da fesso, spinto sotto un treno!
Almeno in sogno, dico: in sogno, posso per favore avere
posso non perdere i diritti sulla mia morte?”

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