sabato 4 novembre 2017

DENTRO O FUORI

Il deposito FS di Reggio C.: una vasta area tra stadio e mare
Quando mio padre vedeva passare un treno non resisteva alla tentazione di citarne a memoria il numero identificativo, una sequenza inspiegabile di cifre che per un profano qualunque, figurarsi per un bambino, poteva essere del tutto inventata, ma invece no che non lo era. Più grandicello mi capitava di passare a trovarlo al lavoro: come capodeposito, organizzava i turni dei macchinisti, ed era una goduria vederlo armeggiare matita gomma e penna su un foglio di un metro quadrato con la cornetta del telefono perennemente tra orecchio e spalla, che era tutto uno squillare e richiamare, finché non quadravano le esigenze di tutti e quelle del servizio da fornire immancabilmente. Eravamo negli anni 70/80, l'era digitale manco si intravedeva. I suoi epigoni, dopo qualche anno di smanettamenti su Excel, oggi probabilmente sono bravissimi ad armeggiare con un applicativo apposito. Ma non so se saprebbero organizzare il tutto su carta, ci fosse un qualche evento che resettasse le reti informatiche.
Non è una critica, è una riflessione che riguarda tutti noi. Stiamo perdendo delle capacità, tutti, chi più chi meno. Da ragazzo ricordavo a memoria tutti i numeri di telefono dei miei amici e parenti (probabilmente avevo elaborato una mia metodologia di dare "ragione" ai numeri di più cifre, simile a quella di mio padre coi treni), senza dover consultare la rubrichetta cartacea scritta minuscola che tenevo nel portafoglio solo perché non si sa mai. Oggi ricordo a stento un paio di numeri oltre al mio, tra cui non c'è quello mio del cellulare d'ufficio. E senza un computer - fino a ieri: oggi senza uno smartphone - non sappiamo fare niente. Ecco perché mi ostino a tenere nota dei miei impegni settimanali, lavorativi e non, su di un planning di carta: non voglio restare paralizzato perché mi è caduto il telefonino (anche se, usando il cloud, questo rischio è ridotto). E avendo imparato ad orientarmi nei posti da piccolo, perché papà mi portava in giro "a scoprire posti nuovi" in città, tendo a usare il navigatore il meno possibile e nel modo più simile possibile a una mappa di carta (se non so dov'è una via, fino a ieri guardavo sulla cartina, oggi su maps, ma chiudo e poi so io come ci si arriva - e va bene, gliela do un'occhiata alle condizioni del traffico, ma una soltanto). Ma lasciamo perdere me, e i miei coetanei. Parliamo di nativi digitali. Se nasci con in mano una calcolatrice, non imparerai mai a fare a mano una somma (limitiamoci alla somma...) meno che elementare, figurarsi a mente. E questo paradigma purtroppo si applica a tante, troppe attività un tempo considerate "elementari".
Ma la cosa non è casuale. E nemmeno imprescindibile. Voglio dire: è errato presentarla come connessa inevitabilmente col progresso tecnologico, che pertanto sarebbe da rifiutare per non pagare questa conseguenza (o viceversa accettare di pagarla se lo accetti). Per capirlo bisogna di nuovo tornare ai fatidici anni 70/80. Mentre mio padre si esaltava nella sua versione analogica, l'informatica, mentre entrava nel digitale, si guadagnava il rango di disciplina accademica a sé. Tanti ragazzi si iscrissero a quella facoltà, che stringi stringi doveva insegnarti a ragionare in un modo che potesse essere utile a interfacciarsi con una macchina che capiva solo due segni, zero e uno, e quindi a comunicare con lei in una serie di linguaggi intermedi tra il tuo e il suo. La cosa prometteva tali orizzonti che si iniziò a parlare dell'Era informatica come di quella in cui sarebbe avvenuta una nuova alfabetizzazione universale, con le stesse categorie di pensiero con cui si studiava l'invenzione dell'alfabeto e della scrittura o più tardi della stampa a caratteri mobili, e le stesse rivoluzionare conseguenze. Ma di questo ho già parlato, se volete ve lo rileggete, oggi voglio andare oltre.
Oggi la strada tra il linguaggio del computer e il nostro è stata compiuta tutta nell'altro verso. E per forza: era un grosso affare, e i soldi sono un motore imbattibile. Per questo chi disegnò le istituzioni democratiche aveva pensato che era un dovere costituzionalmente sancito costringere in steccati il loro raggio d'azione. Per questo chi ha consentito negli anni che quegli steccati venissero travolti (e l'impero globale neoliberista instaurato) dovrebbe essere incriminato per alto tradimento e condannato come nemico della democrazia. Così, alla fine di questo percorso (lungo il quale ci sono già i chip sottopelle per i dipendenti e la realtà virtuale per i malati terminali - che presto saranno rispettivamente obbligatori e eutanasia al posto della pensione per tutti) avremo anche, per fare un esempio, auto che si guidano da sole, così intanto possiamo usare il telefonino. Già oggi vendono quelle che frenano o parcheggiano da sé, così non serve saperlo fare, come del resto saper cambiare le marce e partire in salita. Entrare in autostrada e mollare i comandi a Google, d'altronde, non sarebbe meglio che stare attenti a tutor e autovelox? Usciamo dalla metafora automobilistica, però, così capiamo meglio...
Una volta che tutto quello che si doveva con fatica imparare e introiettare, te lo fa qualcosa fuori da te, controllato da chissachì (e attenzione che ciò è già sempre più vero, e sempre più pervasivamente, in tantissimi campi, dalla produzione e distribuzione del cibo e degli altri beni di prima necessità, alla gestione del credito e di qualunque attività lavorativa, passando per qualunque aspetto della cultura), cosa ne resta del già di suo per natura illusorio concetto di libertà individuale? E attenzione, che non sto facendo filosofia: provate a immaginare un evento qualunque, naturale o umano (cataclisma o guerra), in grado di "spegnere" l'ormai "unico" interruttore. Quanto saremmo in grado di sopravvivere? E quindi chiedetevi: chi ha il Potere oggi? le istituzioni presunte democratiche o chi è in potere di fare quel click? E chi si salverà (ammesso che si salvi qualcuno), se non chi ha mantenuto o recuperato la capacità di fare le cose dentro di sè?

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