venerdì 24 novembre 2017

9. AL DI LA’ DELL’ORIZZONTE

In attesa di Sushi Marina, continua la pubblicazione dei racconti di Chi c'è c'è, raccolti da un "geestre" direttamente dalle menti di 21 terrestri in animazione sospesa su un astronave perduta nel cosmo, forse ultima testimonianza del nostro pianeta ormai distrutto. Qualcuno ricorderà che alcuni dei racconti li ho "ricavati" partendo da testi di mie canzoni quando ho dovuto abbandonare il sogno di cantarle: questa è una delle mie preferite, tanto che il testo è quello che ho pubblicato per primo. A sognare di essere l'armatore di Achab è, nel racconto, probabilmente una giovane astronauta scandinava.

9. AL DI LA’ DELL’ORIZZONTE

Non volevo farlo partire. Cioè, per uno che di mestiere fa l’armatore non è normale. Poi non è facile trovare un equipaggio come si deve per una baleniera, di questi tempi. Ci vuole gente tosta, disposta a stare in mare a lungo, e soprattutto ci vuole un comandante con quattro paia di palle quadrate, che trovi la gente giusta e la guidi per mare. Achab mi era sembrato di primo acchitto la persona che ci voleva. Era capitano, era colto, era un duro, aveva parecchi segni sul corpo a testimoniarne le peripezie e quindi la maturità; ma purtroppo non mi accorsi per tempo degli ancòra maggiori segni sulla sua anima.
Così cominciammo ad armare la nave, caricare le provviste, reclutare la ciurma, e intanto più tempo passavo con quell’uomo più mi convincevo della sua profonda insanità. Cominciai a temere dentro di me per la mia nave: mi era costato tanto acquistarla e rimetterla a nuovo, non mi andava di perderla. E ad ogni chiacchiera scambiata con Achab, ad ogni conferma che me ne risultava di quanto fosse sentimentale, idealista, incosciente, in una parola folle, mi si insinuava il dubbio che io quella nave se l’avessi lasciata partire quella volta non l’avrei più vista.
Poi un giorno saltò fuori la storia di Moby Dick. Capitò giù al bar del porto un vecchio marinaio irlandese che era stato imbarcato con lui. Aveva bevuto un po’ più del dovuto, e cominciò a sparlare: “...è un demonio, vi dico. E’ bianca, enorme, grande quanto quattro o cinque balene normali messe insieme. Ed è intelligente come il più intelligente degli uomini. Ed astuta. Oh, se è astuta. Ah, ma anche lui è un demonio. E’ così da quando quella gli ha staccato la gamba. Lui da allora non è più un cacciatore di balene, no: è un ossesso. Non vuole più altro dalla vita che ucciderla, ed è disposto a giocarsi tutto pur di riuscirci: la nave, la sua stessa vita, e quella dei suoi compagni. Io vi dico questo, signori: non mi rimbarcherei con lui per tutto l’oro del mondo, e chiunque di voi abbia cara la pelle...”.
Ammutolì all’ingresso di Achab nel pub. Il capitano spuntò dall’ombra silenziosissimo, come a voler confermare quella fama demoniaca che l’irlandese voleva accreditargli. Apparve prima il suo sguardo del resto, ed era già fisso sull’oratore. Che si sentì inchiodato alle spalle, smise di parlare e si voltò. Poi si sedette a continuare a bere in silenzio come se nulla fosse. Achab approfittò del silenzio generale per attaccare un’arringa, in cui combinò promesse di ricchezza e minacce in una salsa di arte oratoria e mimica tali che non mi ricordo cosa disse, ma rammento che non fui sorpreso a vedere tutte quelle mani alzate in segno di adesione quando finì, e l’avrei alzata pure io se avesse avuto senso. Uscendo di lì Achab incrociò il mio, di sguardo, e mi si gelò il sangue nelle vene. Cionondimeno lo seguii fuori, e gli chiesi di Moby Dick.
Non cercò di affabularmi. Era leale, con me: mi stimava migliore di quella feccia. Confermò tutto: la storia della gamba, l’odio, il desiderio di vendetta, la maestosità e l’intelligenza della bestia. Ma mi convinse che se c’era un uomo al mondo che poteva catturarla era lui. E che la gigantesca balena valeva da sola una stagione in mare, anche se comunque prima e dopo la sua cattura tante altre prede avrebbero reso il viaggio ancora più redditizio.
La notte prima della partenza, però, un pensiero mistico mi tolse il sonno. Dare una personalità ad un animale, per quanto intelligente, è come dargli un’anima: ciò al mio Dio non poteva piacere. Achab era senza dubbio un empio, bisognava fermarlo. Giunsi al porto all’alba, ma era già tutto pronto. Aveva intuito che avrei cercato di fermarlo, ed aveva fatto lavorare gli uomini di notte. Erano tutti lì, sul ponte, appoggiati alla balaustra, stanchi e silenziosi, e mi guardavano. Non mi avrebbero ascoltato. Però parlai lo stesso, sommersi Achab di parole, che venivano quasi da sole: io stesso mi stupii della mia inedita abilità oratoria, tanto mi parve bello e convincente il mio discorso.
Ma le mie parole scivolarono su Achab come l’acqua sulle piume di un’anatra. Era come se lui fosse più della somma delle sue parti, e non sarebbe servito a nulla smontarlo tutto: sarebbe rimasto lì, in piedi, immobile, lo stesso. Questi pensieri mi suggerirono che allora in fondo lo ammiravo, anzi no: lo temevo, ne avevo rispetto, mi ispirava deferenza. Ristetti per qualche istante, e bastò perché il capitano mi piantasse sul posto e desse l’ordine di mollare gli ormeggi. Poi si voltò a guardarmi, fisso, e prima che potessi riavermi la nave si era mossa e non mi restava ormai che aspettarne il ritorno.
Lo immaginai in piedi sulla tolda a guardare l’orizzonte, e se possibile più in là, fermo così, per ore, alla ricerca della sua ossessione. E risi di me: possibile che mi ero fatto fregare ancora da quei cacciaballe dei marinai? Siamo tutti balenieri, lo facciamo per i soldi; Moby Dick è solo una grossa balena, nella migliore delle ipotesi. E Achab è un gran trascinatore: sa bene che magari quella che lo ha ferito è già stata catturata chissà quando da chissà chi. Ma gli serve: Moby Dick è un mito, è il mostro marino che da sempre atterrisce e affascina i marinai. Che però alla fine salpano sempre: come Ulisse, che dopo venti anni di mare, finalmente tornato a casa, ne ripartì quasi immediatamente - e, si noti, tornato da solo, trovò lo stesso altri compagni disposti a seguirlo. Ulisse, quello delle Sirene, di Polifemo, di Scilla e Cariddi. Ognuno ha i suoi mostri. Per me Moby Dick non esiste.
... …
Ho perso il conto degli anni. Non so più da quanto aspetto che torni la mia nave. Ma tutti i giorni, imperterrito, mi piazzo qui sul molo, vicino al faro, a contemplare le grigie onde e ogni tanto a scrutare l’orizzonte in cerca di un segno. E sogno. Sogno di essere dentro la testa di Achab e guardare coi suoi occhi, oltre orizzonti sempre più lontani. Sogno di essere una giovane vichinga in attesa del ritorno del suo guerriero, che a furia di guardare al di là dell’orizzonte si addormenta e sogna di volare su una nave tra le stelle, e sulla nave dormire, e mentre dorme sognare di essere l’armatore di Achab. E nel sonno mi rendo conto che invece è il contrario, che c’è un Achab dentro la testa di ognuno di noi, a farci vivere anche per ciò che non vediamo ma che sappiamo che c’è, e forse è la parte peggiore di noi, ma è quella che amiamo di più.

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