giovedì 31 agosto 2017

4 - GINOCCHIONI

1943: gli alleati si presentano per quello che sono
(e a Reggio, e nel sud in genere, è durata poco)
Continua la pubblicazione dei racconti di Chi c'è c'è, raccolti da un "geestre" direttamente dalle menti di 21 terrestri in animazione sospesa su un astronave perduta nel cosmo, forse ultima vestigia del nostro pianeta ormai distrutto. Questo è il sogno di una ragazza di Roma, di origini calabresi.

4 - GINOCCHIONI

Questo non è il mio incubo. Io non posso avere questi ricordi: non erano ancora nati i miei genitori, durante la 2^ guerra mondiale. Mio nonno aveva 8 anni, però, in quell’estate del 1943 quando la guerra passò dalla Calabria. Pochi mesi, niente rispetto a quanto subirono l’Italia centrosettentrionale e molti altri posti al mondo, ma prima dello sbarco gli alleati ci andarono giù bene con le bombe, e insomma mio nonno era un bambino. Nessuno può avvicinarsi a definire cosa succede nella testa di qualsiasi bambino che vive una qualsiasi guerra. Questo non è il mio incubo. Ma adesso lo sogno io.
Abbiamo dovuto lasciare quasi tutto, a casa. Anche il mio seggiolone di legno. Anche la mia bicicletta. Ma le bombe erano sempre più vicine, e più frequenti. Una era caduta proprio vicino casa nostra, ed aveva ucciso una vicina che conoscevo benissimo, perché mi offriva sempre una delle sue gassose con la pallina, quando andavo a trovarla. Ora la sua casetta da fuori sembrava quasi intatta: la bomba era caduta proprio al centro del tetto, portandoselo giù tutto. L’ho vista perché dovevamo passare da lì, per andare dove dovevamo andare.
Pavigliana era alle prime pendici dell’Aspromonte, ancora una frazione della grande Reggio, ma a più di dieci chilometri dalle ultime case della città, ed erano tutti stretti tornanti, a tratti ripidi. Più si saliva, più ci si trovava stretti tra il costone argilloso, meraviglioso con i suoi mille strati tutti pieni di conchiglie, ché mio padre mi spiegava che una volta il mare era tanto più alto, e la scarpata, a tratti il dirupo, verso il torrente. Mio padre, un già allora vecchio socialista antiinterventista e imboscato nella Grande guerra, poi antifascista e perciò licenziato dalle ferrovie, quella strada l’avrebbe fatta in giù e in su tutti i giorni, per il periodo che siamo rimasti a Pavigghiana, per rimediare qualcosa. Ma per me era ‘a strata r’a sciumara, la strada del torrente.
Laggiù d’inverno sarebbe stato pericoloso avventurarsi, perché le piogge in montagna sono frequenti e le nostre montagne sono subito alte, così l’acqua e il fango potevano arrivare improvvisamente, e la pietraia diventava una trappola mortale, a maggior ragione per un bambino. Ma d’estate era quasi sempre del tutto asciutto, e quella stessa distesa di sassi diventava un immenso parco giochi, fatto di ciottoli, massi, legni e fantasia. Così stavo spesso laggiù.
Ero un bimbo ubbidiente, e tardavo a rincasare solo quando in qualche modo - che so, cadendo - mi ferivo, e solo perché avevo paura di mia madre, che – sapevo - mi avrebbe dato il resto. Mammà era sarta, oltre che ottima cuoca, e come con fave e castagne faceva miracoli di pasta pane focacce e pasticci, così da un vecchio lenzuolo poteva far venire un completino per me e due splendide camicette per le mie sorelle. Tanto io ero piccolino e di stoffa per me ne bastava poca. Fra l’altro allora portavo sempre i calzoni corti, anche d’inverno: solo a quindici anni avrei avuto i miei primi pantaloni lunghi.
Allora però i pantaloncini avevano un altro senso, non voluto ma pertinente. Gli aerei infatti spesso si spingevano su per i vaddhuni  in esplorazione, e se ne avevano in più sganciavano anche qualche confetto; così noi avevamo scavato dei buchi nelle montagne, un po’ dappertutto, in modo da avere comunque un rifugio, ma soprattutto lungo la strada, per la sicurezza di chi si avventurava a cercare provviste ed altre occorrenze.
Ora, un po’ perché i buchi erano bassi anche per un ragazzino, ma soprattutto perché la mia paura era addirittura esagerata, e appena sentivo l’eco degli allarmi lontani cominciavo a correre così forte da perdere il controllo dei piedi, mi ritrovavo sempre con le ginocchia per terra, e spesso cadevo proprio sulle pietre del torrente. Non ricordo più se soffrivo maggiormente per la fifa, il dolore a quelle mie ginocchia sempre sbucciate e livide (o meglio, mulingianate ), o la vergogna per quelle volte che me la facevo letteralmente addosso.
Durò solo un’estate: a settembre eravamo di nuovo a casa. Ma c’era chi non tornò più, e molti di questi perché – ironia della sorte, in cerca di maggior sicurezza - erano partiti verso l’altitalia, inconsapevolmente verso la guerra vera.
Quando una persona vive una guerra nella sua infanzia non è più una persona libera, pensavo quando mio nonno mi raccontava queste storie di sé bambino che ora io sogno. Se però l’esperienza servisse a qualcosa una nuova guerra potrebbe avvenire solo quando tutta la generazione che aveva vissuto la guerra precedente in tenera età fosse scomparsa, o fuori gioco. Invece quarant’anni dopo, con la generazione di mio nonno al potere, toccò alla generazione di mio padre avere paura.
Ora io sono mio padre, adolescente nell’era dell’equilibrio termonucleare, cioè della pace basata sulla minaccia reciproca della distruzione tramite guerra atomica. Che non si concretò, in quegli anni “80, forse solo perché non era il momento. Questo non è il mio incubo: è quello di mio padre, ora.
La prima bomba cadde per sbaglio (o volete fare - tanto che importa? - per colpa di un comandante di sottomarino uscito di senno per troppo prolungata astinenza sessuale?), ma il dispositivo bellico era così complicato nei suoi automatismi che non fu possibile fermare l’escalation nucleare. I civili assunsero gli atteggiamenti più disparati… Ah, già: chi non viveva vicino alle metropoli o alle basi degli euromissili non morì subito. Chi si abbandonava all’isteria, chi allo sconforto, chi si dava ai saccheggi, chi alla fuga. Io partii verso Nord, a piedi, perché mi avevano detto che dalla stazione di Vibo-Pizzo partiva ancora qualche convoglio diretto alle zone più disastrate tra quelle non cancellate dalla carta geografica, e che si raccoglievano lì delle squadre spontanee di soccorso.
Speravo così di dare senso a quel tot di vita che mi restava, ma dopo una trentina di chilometri mi accorsi che il sangue che sputavo veniva dai polmoni e non dai denti, e lo scirocco mi suggerì che quella massa di aria calda e puzzolente era passata su Comiso poco prima. Così deviai, quasi d’istinto, verso l’Aspromonte, quasi a ricercare i luoghi dei racconti di mio padre sull’altra guerra. Ore ed ore di cammino.
Ritrovai i vecchi rifugi scavati nell’arenaria, così bassi da doverci entrare ginocchioni, e troppo inutili per questa nuova tragedia. La gente moriva per strada, e quand’anche le gambe mi avessero retto non sapevo proprio dove andare a cercare cibo, medicine - e quali, poi? - e soccorsi. Ma visto che non mi hanno retto, visto che sono crollato sulle ginocchia e a testa in su, per la prima volta mi sorpresi a pregare. E pensai che chissà quanti altri stavano pregando chissachì proprio in quel momento. E doveva essere vero, perché le nostre preghiere furono esaudite, quando l’ultimo missile sciolse tutta la montagna come fosse burro, almeno a giudicare dall’ultimo colore che vidi.
Mio padre ovviamente non visse realmente queste cose, non morì così. Si sposò, tardi invero, e i suoi geni sopravvivono in questa ragazza di Roma, una delle 13 prescelte per la salvezza della razza umana, cui non è stato concesso, però (è questo il prezzo che pago), di sapere se e come è finita davvero. Per quanto ne so io, potremmo essere tutte dentro un frigorifero di un laboratorio, cavie di un crudele esperimento, e non dentro un’astronave decollata verso lo spazio profondo. Per me, ora, non cambierebbe nulla, non conta quello che penso io.
Questo non è il mio incubo.

sabato 26 agosto 2017

1939-1989-20...

Continua la pubblicazione dei miei testi di canzone, depositati in SIAE tra gli inediti: a chi ne piacesse qualcuno (la musica ce l'ho in testa, ma mi va bene quella che gli venisse a chi legge il testo) basta contattarmi che ci mettiamo d'accordo (sono più vanitoso che esoso).
Questa dovete immaginarla (come suggeriscono le ripetizioni a fine ritornello…) come una veloce rock ballad; l'ho scritta oltre 25 anni fa, ma per aggiornarla mi è bastato aggiungere un "-20..." nel titolo e cambiare "cinquant'anni" con "settant'anni" nel testo. Non è un merito: purtroppo temo che a parlare di guerra mondiale si rischia di restare attuali sempre...
1939-1989-20...
Da Roma eterna già la storia passò
fin troppe volte da due millenni a qui,
ed ogni volta che è stato mi ha sconvolto la vita.
L’uomo coi baffi era un ragazzo tranquillo,
il duce non voleva fare macello,
e il mio bambino l’ho concepito in un bordello.
Forse,
e neanche tanto forse,
tra cinquant’anni si dirà che ero onesta e sana,
ma nel mio petto, nel profondo del cuore,
batterà batterà batterà batterà sempre una puttana

Ma già di anniversari più recenti
hanno mischiato tutto e non capisci niente,
così Israele per tutti è stato sempre dov’è.
Le vittime si fan carnefici,
gli ex emigranti odiano gli immigrati,
e il mio bambino l’ho comperato in filippine.
Forse,
e neanche tanto forse,
tra cinquant’anni si dirà che campavamo proprio bene,
ma non sarà rimasto neanche il mare:
basterà basterà basterà basterà annusare

Così verranno fuori i neonazisti,
i neointegralisti, i neorazzisti,
con nomi nuovi per non farsi riconoscere.
La mia città è sulla linea del fronte
e non la salvi costruendovi un ponte,
ma poi dove come quando esiste la legalità?
Certo,
è un gioco troppo aperto,
e a cinquant’anni morirò di piombo, noia, o di paura,
ma nel far south dei miei simili ancora immuni
resterà resterà resterà resterà soltanto il fumo…

Dalla Polonia poi la storia passò
fin troppe volte da due secoli a qui,
ed ogni volta che è stato ci ha coinvolto il mondo.
E un nuovo tipo di colonialismo
ci porta tutti dalla parte del torto,
dopo averci comprato facendoci compratori.
Forse,
e neanche tanto forse,
tra cinquant’anni si dirà che è stata una settimana,
ma di sei anni di guerra – di settant’anni di guerre,
ventennali di rivolte – bicentenari di bastiglie,
il mio cassetto oscuro e personale
tratterrà tratterrà tratterrà tratterrà sempre un animale.
Certo,
resta un quesito aperto:
tra cinquant’anni chi sarà a dire che è stata una pazzia;
perché non credo che la guerra mondiale
si farà si farà si farà si farà fuori casa mia.
Forse,
e dico solo forse,
da settant’anni in qua si è giocato a commemorare,
ma è ora di finirla: d’ora in poi
basterà basterà basterà basterà ricordare.
Ricordare…

martedì 22 agosto 2017

URGE INVERSIONE DI ROTTA

Ecco, si è allungata la serie degli attentati terroristici, come era facile prevedere. E siccome il modo con cui vengono riportati è sempre lo stesso, tanto che si potrebbero facilmente scambiare a piacere cronache filmati commenti e reazioni e nessuno se ne accorgerebbe, ritengo sia dovere civile (nonché l'unica cosa dignitosa in memoria delle vittime) fare altrettanto con la narrazione alternativa, l'unica compatibile con il mantenimento (o dovrei dire il recupero?) dello status minimo di essere pensante e soprattutto del sistema di valori che ha il suo centro nel libero pensiero e il suo corollario nella democrazia (e non il contrario, come spesso si crede).
Così, ripeto anch'io a macchinetta quanto detto tante (troppe, ma altre ne verranno: il piano di dittatura globale, in fase avanzata di attuazione, lo prevede) altre volte in occasione di episodi del genere:
  1. non serve a nulla cercare di capire cosa è accaduto, se non ci si sforza di capire perché;
  2. per riuscire a comprendere il perché bisogna rifiutare il modello "terrorismo" in favore di quello, peraltro da noi ben conosciuto, della "strategia della tensione", nel quale - si rammenti - gli esecutori possono essere identificati o meno, catturati o meno, consapevoli o meno di essere semplici pedine, ma i mandanti sono accessibili a chiunque: basta solo logicamente risalire a chi conviene;
  3. poiché non esiste fisicamente modo di scampare a attacchi di questo tipo, se non il culo di trovarsi altrove (anche solo a centimetri di distanza di chi invece viene centrato), non serve assolutamente a niente nessun apparato di sicurezza di nessun genere (o meglio, non serve alla vostra sicurezza, serve invece a chi detiene il potere, e ha deciso che la democrazia non gli serve più come strumento per esercitarlo nascondendolo, per proseguire nell'opera di limitazione progressiva di ogni vostra libertà, mentre vi prende in giro ostentando le misure di sicurezza stesse - vera e propria ammuina di franceschelliana memoria che dagli aeroporti si sta diffondendo alle stazioni e alle piazze, con quale utilità si vede benissimo);
  4. l'unica cosa, allora, che può salvare se non la vostra vita almeno la vostra anima, se pensate di averla da qualche parte anche laicissimamente intesa, è morire, se vi dovesse toccare (perché di roulette russa a questo punto si tratta. per quanto ancora di un colpo fratto un tamburo di migliaia di cilecche - ai civili vittime dei bombardamenti occidentali dal 2001 a oggi è toccato un tamburo molto più piccolo, non lamentatevi), con la coscienza di avere se non fatto almeno pensato le cose giuste, e cioè...;
  5. chiunque si professi democratico deve esigere dal proprio governo il ritiro immediato e incondizionato da ogni teatro di guerra in nord Africa e medio oriente, con successivo piano di risarcimento materiale dei decenni di vario colonialismo e varie tipologie di aggressione con milioni di vittime innocenti; chi non è d'accordo con questa affermazione perde - senza rendersene conto - lo status di cittadino di paese democratico (eventualmente vittima innocente di attentato) in favore di quello di suddito di potenza assassina (eventualmente vittima, legittimamente ritenuta colpevole, della reazione degli oppressi).
Con ciò, lo preciso anche se non dovrebbe essere necessario, non sto giustificando nessun vigliacco (perché solo questo appellativo merita chi colpisce a tradimento gli inermi), né rinunciando a rivendicare il diritto di continuare a credere che il mio sistema di valori, laico e individualista, sia secondo me oggettivamente superiore a quello di qualunque integralista religioso, anche non violento figuriamoci violento. Sto però mettendo in pratica l'ovvio ma troppo spesso dimenticato principio secondo cui nessun conflitto si può mai risolvere, non a priori ma nemmeno combattendo, se non applicandosi ad assumere il punto di vista degli avversari, quello per cui secondo loro hanno ragione loro. Ad esempio, a pensare vigliacco il modo di agire complessivo, ed ogni singolo attacco dall'alto, degli americani e dei loro alleati in tutti i teatri di guerra aperti negli ultimi decenni. Il terrorismo, ogni terrorismo, si sconfigge davvero solo se e quando vengono eliminate alla radice le sue ragioni di esistere. Ogni altro modo non solo è velleitario, ma finisce per alimentarlo: è così lampante che è naturale sospettare che questo sia esattamente il vero scopo di chi vuole e pratica la guerra. E se anche questa si concludesse con l'annientamento del nemico, questo può essere solo al prezzo di dimostrarsi molto peggiori di quanto si dica di lui. Che poi è esattamente quello a cui ci siamo ridotti, per non avere il coraggio e la consapevolezza di pretendere quanto specificato al punto 5, e cantato da quel visionario di Waters.

venerdì 18 agosto 2017

3 - SOYUZ

Continua la pubblicazione dei racconti di Chi c'è c'è, raccolti da un "geestre" direttamente dalle menti di 21 terrestri in animazione sospesa su un astronave perduta nel cosmo, forse ultima vestigia del nostro pianeta ormai distrutto. Questo è il sogno di una berlinese, adolescente al tempo dei fatti...

3 - SOYUZ

Nel 1988 due astronauti sovietici, un russo e un afgano, rimasero per 24 ore in orbita senza controllo, perché i sistemi di bordo erano andati in tilt o non so cosa, e insomma erano praticamente alla deriva. Il programma spaziale sovietico era oramai allo sbando, come del resto tutto quel gigantesco paese, messo in ginocchio dall’incompatibilità di quel tipo di economia con la corsa agli armamenti, e dall’impossibilità di emendare salvandolo un sistema talmente coerente che non poteva funzionare se uno solo dei suoi elementi saltava. Poi sarebbero arrivati i soldi americani, ma per una quindicina d’anni anche il glorioso progetto Salyut avrebbe vissuto le stesse pesantissime ristrettezze dell’intero Paese, conoscendo una serie di insuccessi e stop che non avevano riscontri nel passato, e non ne avrebbero avuti nel futuro. Quella volta, però, andò bene: con molta fortuna, quando le scorte dell’ossigeno erano quasi al limite, riagganciarono la navicella, e controllandola da terra ce la riportarono.
Mi sono sempre chiesta cosa avessero provato i due astronauti in quelle 24 ore, quanto tempo gli era sembrato fosse trascorso in attesa di morire, se avevano continuato freneticamente a tentare tutto quanto fosse nelle loro possibilità per venirne fuori, o se invece si erano rassegnati quasi subito, e quindi si erano ripiegati su sé stessi, a ripensare al passato, o magari a scambiarsi esperienze, impressioni, confidenze, baci, effusioni, o che altro. Poi però ho scordato la vicenda, come si fa con qualsiasi fatto di cronaca, fino a quando...
Fino a quando non mi sono trovata ad essere una delle “prescelte” dal programma ONU di preservazione della specie, come lo chiamo io. 21 individui, 13 donne ed 8 uomini, selezionati severamente tra persone in età riproduttiva e ottima salute. Ai 10.000 frutto della prima scrematura a campione, tra cui fra l’altro era ancora facile rispettare una certa equiproporzionalità tra le “razze” umane come poi - per quello che conta, cioè niente biologicamente e troppo politicamente - non fu più, non fu detto quasi niente.
Una così vantaggiosa proposta di lavoro per le Nazioni Unite nessuno poteva permettersi di rifiutarla, ma grande fu l’impressione per dove venimmo portati per le visite e per quello che ci venne fatto. Fummo rovistati come calzini, e mi ricordo che stavo al buio nel mio alloggio, a fissare il soffitto per cercare di non vomitare, quando mi fu comunicato che ero una delle mille persone ammesse ai test attitudinali. Ci fu reso noto che la nostra in realtà era una missione rischiosa e però molto importante per l’umanità, e nello stesso tempo che sarebbe stato un onore e un onere farvi parte. Nient’altro.
Ho sempre amato l’alta enigmistica, specie quei giochini logici tipo mastermind, ma anche i cruciverba più difficili specie in quanto a schema, le sciarade e i giochi di parole e quelli coi numeri. Per fortuna. Perché grazie a questo fui una delle 100 persone che, superato il test più difficile che abbia mai visto, furono ammesse al programma selettivo di preparazione psicofisica.
Fu davvero una fortuna? Noi adesso non sappiamo se in realtà la terra andò davvero totalmente distrutta, semplicemente perché al momento di “inizializzare” la procedura di animazione sospesa non lo si sapeva, e dopo avremmo avuto al meglio una forma di coscienza rallentata, simile - ci hanno detto - a ciò che raccontavano i soggetti usciti da un coma profondo.
Addirittura nemmeno al momento di iniziare il training sapevamo ancora qual’era in realtà il premio per i 21 prescelti, ed i 79 scartati tornarono a casa chi prima chi dopo, ma tutti col culo rotto o fuori di testa, e con una rendita vitalizia che pareva in realtà molto generosa a chi non sapeva nulla su quello che si preparava là fuori e quanto avrebbe influito sull’aspettativa media di vita.
Io di mio avevo sempre avuto una certa coscienza politica in questo senso, e se non fossi stata una bambina sarei scesa in piazza coi miei fratelloni a protestare contro l’installazione degli euromissili, che nella mia Germania furono proprio tanti, poi. Ma ero adolescente a Berlino la sera del concerto di Roger Waters che celebrava la caduta del muro, avvenuta qualche mese prima. A me “The Wall” mi ha sempre messo i brividi, e sentirla dal vivo e con tutti quei cantanti famosi poi...! Quel visionario aveva giurato di non eseguire più la sua opera se non a muro caduto davanti alla porta di Brandeburgo, ma ha commesso insieme due errori, opposti: quando ha giurato non sospettava neanche lontanamente che sarebbe accaduto così presto, e quando alla fine del concerto aggiunse l’ottimista sua nuova canzone intitolata “the tide is turning” non immaginava certo che la marea stava si cambiando, ma in peggio, e incomparabilmente. L’equilibrio fondato sulle due superpotenze era si precario, ma in confronto con la situazione di diffusione parcellizzata ed incontrollabile delle armi nucleari che si venne a creare dopo era un esempio di stabilità marmorea.
L’ONU avrebbe di lì a poco dimostrato di non essere altro che una scatola senza alcun reale potere politico autonomo né derivato, ma al suo interno qualche dipartimento funzionava benino. Uno era il segretissimo Ufficio per le Politiche della Popolazione, nel cui seno partorì il progetto Exodus. Che era appunto ciò di cui io ed altre 20 persone avremmo fatto parte.
Nessuno aveva mai fatto viaggi interplanetari, e nessuno era mai stato in animazione sospesa per più di qualche giorno, per giunta fuori controllo medico. L’astronave era un prototipo, il computer di bordo quanto più sofisticato si potesse realizzare ad un certo livello di affidabilità, e a noi un bel giorno fu comunicato a brutto muso che la guerra era iniziata e ci si attendeva l’escalation nucleare da un giorno all’altro; non c’era tempo da perdere. Sarà stata la verità?
Tant’è che quasi per caso, non appena ebbi l’ago in vena, pensai contemporaneamente a quella vecchia storia dei due astronauti della Soyuz non mi ricordo che numero, ed al famoso paradosso di Einstein sui viaggi alla velocità della luce e i due gemelli uno che resta a terra e l’altro che parte e quando torna per lui sono passati tre anni e per quello a terra cinquanta o più, non rammento bene. Noi avremmo viaggiato molto più lentamente, ma saremmo mai tornati a casa? o approdati da qualche parte? e se qualcosa non avesse funzionato, e ci fossimo svegliati senza gravità e con poco ossigeno e cibo, cosa avremmo provato, e quanto tempo ci avremmo messo a morire, e quanto ci sarebbe sembrato quel tempo?
Così ora ho tanto sonno e dormo e sogno, e sogno di tornare sulla Terra. Pronto, Terra? Rispondete! Missione compiuta, torniamo alla base. E sbarchiamo e la Terra è bella come sempre, tutta verde e azzurra, e c’è il sole e tantissima gente che ci applaude, noi che scendiamo dall’astronave senza neanche quegli orrendi camici bianchi che ci avevano fatto indossare prima di partire: chi è nudo del tutto, chi come me indossa solo una maglietta colorata, di tutti i colori dell’arcobaleno.

giovedì 10 agosto 2017

CANZONE PER CARMELA

Continua la pubblicazione dei miei testi di canzone, depositati in SIAE tra gli inediti: a chi ne piacesse qualcuno (la musica ce l'ho in testa, ma mi va bene quella che gli venisse a chi legge il testo) basta contattarmi che ci mettiamo d'accordo (sono più vanitoso che esoso).
E si, questa Carmela è la nonna del libro di ricette. La pubblico oggi perché due giorni fa ha fatto diciott'anni che ho visto i suoi occhi, che anni prima mi avevano ispirato questa canzonetta giovanile, letteralmente spegnersi, quattro anni prima di chiuderli per sempre, dopo aver letto nei miei una notizia che nessuna madre dovrebbe avere mai.
CANZONE PER CARMELA (LEZIONE DI VITA SENZA PAROLE)
rock ballad
Negli occhi scavati c’è una tenerezza chiara,
luminosa, spaziante dall’altezza al volume
della sua persona, oca ormai senza piume,
di bellezza svanita ma intensissima adesso
che la sto guardando, davvero per la prima volta,
ucciso da cinque minuti più che da una vita
passatale accanto da poco più che nipote
affezionatissimo sempre,

ma adesso che so cos’è amore
perché ho già provato e mi han fatto imparare,
ho sentito davvero una gioia nel cuore
pesante come una vecchia scheggia di guerra,
e ricordo la storia del bambolotto nero
al mio posto nel letto quando ero partito:
dodici anni da figlio non sono un minuto,
e ora è giusto che amore non vada perduto,

quindi è giusto pensare a cinquant’anni e anche più
di vita portata avanti solo a fatiche
ma con l’ingenuità e l’infanzia nel cuore
che nonostante gli errori non l’han mai fatta odiare,
e capire che anche millecinquecento
passati sapendo nient’altro che dare
ti lasciano stanca ma piena di forza,
e sentire troppo inutile questa canzone.

E mia nonna Carmela domani morrà,
eppure non morrà mai: è immortale perché
dopo morta – lo deve sapere – amerà
questo stupido uomo a cui ha fatto capire
che l’eternità può passare in silenzio,
cos’è l’umiltà, e che l’energia è luce
irradiata da due tenere guance scavate,
da due occhi che anche se chiusi
non si chiuderanno mai.

giovedì 3 agosto 2017

2 - HIMALAYA

Continua la pubblicazione dei racconti di Chi c'è c'è, raccolti da un "geestre" direttamente dalle menti di 21 terrestri in animazione sospesa su un astronave perduta nel cosmo, forse ultima vestigia del nostro pianeta ormai distrutto. Questo è il sogno di un globetrotter austriaco.

2 - HIMALAYA

Cominciai ad avere fame di mondo che non avevo quattordici anni. Già conoscevo la mia città a menadito, nel senso che era come fosse mia, e tutti i suoi anfratti e le scorciatoie e gli scorci mi appartenevano. Poi le persone: della mia generazione si può dire che conoscevo tutti, e a vent’anni non c’era ragazza carina con cui non ci avessi già provato, se appena mi era venuta a tiro. Non era machismo, o prorompente insaziabilità: no, era voglia di comunicare, di conoscenza, era curiosità, ecco. E valeva per tutto, solo che avevo come una specie di valvola di sicurezza che mi aveva fin lì salvaguardato da droghe pesanti e altre cose pericolose: l’immaginazione. Funzionava così: quando volevo esplorare qualcuno o qualcosa o qualche luogo, prima me lo raffiguravo, e se mi pareva bello partivo. Con questo metodo mi riuscivo ad orientare in luoghi mai visti prima, con persone sconosciute ed in mezzo a mille rischi, senza avere mai problemi.
A sedici anni al mio sacco a pelo cominciò a star stretta la sola Austria, allora attraversai l’Alto Adige e me ne andai per due mesi in giro per l’Italia dormendo nei conventi. Quindi fu la volta di Amsterdam: ad un certo punto vi ero diventato così famoso come artista di strada (suonavo bottiglie di birra) che mi dedicarono un articolo con foto su un giornale, che ancora conservo. E poi Londra, poi Parigi, città enormi che giravo fin dal primo giorno come se ci fossi nato, di giorno come di notte, stringendo amicizie profonde quanto estemporanee con gente di ogni sesso, colore e nazionalità.
E che dire dei treni!! Io nei posti ci andavo sempre in treno, quando non potevo arrivarci a piedi: il treno è comodo, ma soprattutto lento, e pieno di gente. Bella anche solo da osservare ed ascoltare, la gente sui treni, figurarsi a farci amicizia! Ho parlato con tutti: con il barbone, con l’ingegnere della Ferrari, con la giovane madre, col vecchio pseudo-filosofo ex-politico tardo-cattolico, con l’anziana signora spiritista e con la nonnina che somigliava - come tutte - a mia nonna. Mai un attimo di noia, era tutta esperienza, conoscenza, in una parola vita.
Dopo quindici notti insonni in giro per i pub di Irlanda a bere whisky, guinness e irish coffee, ed a sentire la migliore musica del pianeta assieme ai ragazzi più strambi e simpatici d’Europa ed alle ragazze più carine e sensuali che si possano immaginare, mi affacciai una domenica mattina, dopo un meraviglioso viaggio in corriera attraverso posti di un verde indescrivibile, da una scogliera a picco sull’Atlantico. C’era vento, e faceva molto freddo per essere giugno. Ma era così bello che non sarebbe bastato piangere, né buttarsi di sotto urlando, per rendere l’idea della mia felicità. E per giunta non sapevo perché. L’anno dopo mi organizzai per raggiungere, attraverso la Germania, la Danimarca e la Svezia, il punto più a Nord del continente, in Norvegia, il 21 giugno, per vedere il sole di mezzanotte sull’artico. E poi tornare indietro, passando per i laghi finlandesi ed il traghetto sul Baltico, la Polonia e la repubblica Ceca (ah, Praga!), immediatamente.
Chi ha detto che la vita è un viaggio? No, sono i viaggi ad essere come la vita: l’importante non è la meta, è il tragitto. La meta tanto viene da sola, meglio concentrarsi sul percorso. Il percorso. Dovevo averlo capito, ormai: la mia vita ne era la più chiara testimonianza. Ma io non potevo vederla, la mia vita: ero troppo impegnato a viverla. Ero come un computer sottoposto ad un tale flusso di informazioni da non avere più memoria libera per elaborarle. Così cercavo sempre un’altra meta. Era logico che finissi sull’Himalaya.
Quando mi mettevo in testa una cosa questa poteva essere la più assurda ed irrazionale, ma io poi adottavo tutti i comportamenti più razionali e consequenziali possibili per perseguirla. Mi iscrissi ad una scuola di free-climbing ed alpinismo, e per fortuna che le mie foto mi facevano guadagnare bene. Un paio di anni ed il mio fisico era trasformato: ero sempre stato magro, ma ora ero asciutto e nervoso e le mie mani da pianista erano diventate due tenaglie. Ne avevo già abbastanza di Dolomiti, ora. Partii per il Tibet quasi senza dirlo a nessuno: era la mia prima volta su un aereo, e ovviamente volli il posto vicino al finestrino. Ebbi come la sensazione che a quella velocità e da quell’altezza avrei potuto conoscere tutto il pianeta in un tempo relativamente breve, e rimpiansi tutti i miei treni, e di non potermi permettere un jet personale. Appena fui sul posto assoldai una guida, e via verso le montagne!
Qualche tempo prima mi sarei organizzato con degli amici, oppure avrei vissuto un po’ di tempo a Kuala Lumpur, avrei fumato un po’ di roba buona, avrei fatto amicizia con tanti ragazzi del posto tra cui vuoi che non capitasse una guida, e con quest’ultima, poi, sarei partito: con un amico. Invece quella che avevo ingaggiato (che poi a pensarci bene non lo sembrava nemmeno, una guida), insomma ‘sto tizio deve essersi accorto al primo sguardo che non ero un esperto alpinista, e che avevo soldi da perdere. Per lui fu facile abbandonarmi in un punto da dove non sarei mai potuto tornare indietro a denunciarlo per avermi rubato tutti i soldi, anche perché non tralasciò di portarmi via anche lo zaino con l’attrezzatura e - porca puttana! - i libri, le mappe e gli altri generi di conforto.
Me ne accorsi al risveglio, e non fu difficile realizzare che, siccome da lì senza corde non si scendeva, ed ero pure senza provviste, sarei morto presto in ogni caso. Così guardai in aria: il cielo era azzurro, ed il freddo era giusto. Non so come si chiamasse quella cima rocciosa, che in Irlanda avrebbe fatto la sua figura ma lì non doveva essere niente di particolare: allora a me parve bellissima. Ed io ormai dovevo morire. Ed avevo imparato il free-climbing. Tanto valeva... Decisi in un attimo; l’attimo dopo il sangue colava dalle unghie, ma doveva essere quello di un altro, ché io non sentivo dolore.
Salivo, e lasciavo dei segni su roccia e ghiaccio come se avessi unghie e scarpe di non so quale metallo, e intanto tutto mi diventava chiaro. Io non ero di questo mondo. Comunque non lo ero più, ma non sapevo se lo ero mai stato, forse ero tutt’al più un clandestino a bordo. Però il mondo, lui, di sicuro, era mio. Come la mia città quando ero adolescente. Era lì il meglio.
Ma era lì anche il peggio: non c’era differenza. Tra la mia città e il mondo, intendo. E più ci pensavo più capivo che anche per qualsiasi altra entità in cui ero - o ero stato - dentro, l’Austria la mia famiglia la razza umana il corpo di una donna, era come per quelle formule statistiche che vengono tarate per dare risultati da zero ad uno per ogni valore delle variabili. Aspetta...come si chiamava? Ah, si: indice di regressione. Che poi come nome era pure significativo. Non so chi mi aveva detto di punti di contatto tra la matematica e la filosofia, ma adesso credevo di capire cosa intendesse.
Quando fui in cima mi accucciai a piangere per non so quanto tempo, e mi sorpresi a desiderare una casa, ed a pregare Dio di consentirmi di diventare un vecchio capofamiglia circondato dai nipotini intorno alla torta del suo ennesimo compleanno. Dopo, e solo dopo, sarei potuto morire. Chiusi gli occhi e sognai che in cima a quello spuntone di roccia una botola conducesse ad un turboascensore che mi riportasse giù rombando, lì riaprii ed il rombo era quello di un elicottero.
Seppi dopo che non ero poi tanto lontano dalla civiltà, che il ladro aveva preso i soldi e lasciato per strada il resto, così per i soccorritori non era stato difficile trovarmi ed io ho potuto anche riavere le mie carte e i miei libri. Da una cartina scoprii che la cima che io avevo scalato era considerata “facile”, e non arrivava a 6000 metri di quota dopo 300 di parete. Ma io non avevo scalato solo quel tot di metri: c’era da sommarci su - per capire perché ero così contento - tutta la mia essenza.

In evidenza

DEFICIENZA, NATURALE

Dell'argomento AI ne abbiamo già parlato come di uno di quei pericoli gravissimi verso i quali sarebbe opportuno porre argini non appen...

I più cliccati dell'anno