venerdì 18 agosto 2017

3 - SOYUZ

Continua la pubblicazione dei racconti di Chi c'è c'è, raccolti da un "geestre" direttamente dalle menti di 21 terrestri in animazione sospesa su un astronave perduta nel cosmo, forse ultima vestigia del nostro pianeta ormai distrutto. Questo è il sogno di una berlinese, adolescente al tempo dei fatti...

3 - SOYUZ

Nel 1988 due astronauti sovietici, un russo e un afgano, rimasero per 24 ore in orbita senza controllo, perché i sistemi di bordo erano andati in tilt o non so cosa, e insomma erano praticamente alla deriva. Il programma spaziale sovietico era oramai allo sbando, come del resto tutto quel gigantesco paese, messo in ginocchio dall’incompatibilità di quel tipo di economia con la corsa agli armamenti, e dall’impossibilità di emendare salvandolo un sistema talmente coerente che non poteva funzionare se uno solo dei suoi elementi saltava. Poi sarebbero arrivati i soldi americani, ma per una quindicina d’anni anche il glorioso progetto Salyut avrebbe vissuto le stesse pesantissime ristrettezze dell’intero Paese, conoscendo una serie di insuccessi e stop che non avevano riscontri nel passato, e non ne avrebbero avuti nel futuro. Quella volta, però, andò bene: con molta fortuna, quando le scorte dell’ossigeno erano quasi al limite, riagganciarono la navicella, e controllandola da terra ce la riportarono.
Mi sono sempre chiesta cosa avessero provato i due astronauti in quelle 24 ore, quanto tempo gli era sembrato fosse trascorso in attesa di morire, se avevano continuato freneticamente a tentare tutto quanto fosse nelle loro possibilità per venirne fuori, o se invece si erano rassegnati quasi subito, e quindi si erano ripiegati su sé stessi, a ripensare al passato, o magari a scambiarsi esperienze, impressioni, confidenze, baci, effusioni, o che altro. Poi però ho scordato la vicenda, come si fa con qualsiasi fatto di cronaca, fino a quando...
Fino a quando non mi sono trovata ad essere una delle “prescelte” dal programma ONU di preservazione della specie, come lo chiamo io. 21 individui, 13 donne ed 8 uomini, selezionati severamente tra persone in età riproduttiva e ottima salute. Ai 10.000 frutto della prima scrematura a campione, tra cui fra l’altro era ancora facile rispettare una certa equiproporzionalità tra le “razze” umane come poi - per quello che conta, cioè niente biologicamente e troppo politicamente - non fu più, non fu detto quasi niente.
Una così vantaggiosa proposta di lavoro per le Nazioni Unite nessuno poteva permettersi di rifiutarla, ma grande fu l’impressione per dove venimmo portati per le visite e per quello che ci venne fatto. Fummo rovistati come calzini, e mi ricordo che stavo al buio nel mio alloggio, a fissare il soffitto per cercare di non vomitare, quando mi fu comunicato che ero una delle mille persone ammesse ai test attitudinali. Ci fu reso noto che la nostra in realtà era una missione rischiosa e però molto importante per l’umanità, e nello stesso tempo che sarebbe stato un onore e un onere farvi parte. Nient’altro.
Ho sempre amato l’alta enigmistica, specie quei giochini logici tipo mastermind, ma anche i cruciverba più difficili specie in quanto a schema, le sciarade e i giochi di parole e quelli coi numeri. Per fortuna. Perché grazie a questo fui una delle 100 persone che, superato il test più difficile che abbia mai visto, furono ammesse al programma selettivo di preparazione psicofisica.
Fu davvero una fortuna? Noi adesso non sappiamo se in realtà la terra andò davvero totalmente distrutta, semplicemente perché al momento di “inizializzare” la procedura di animazione sospesa non lo si sapeva, e dopo avremmo avuto al meglio una forma di coscienza rallentata, simile - ci hanno detto - a ciò che raccontavano i soggetti usciti da un coma profondo.
Addirittura nemmeno al momento di iniziare il training sapevamo ancora qual’era in realtà il premio per i 21 prescelti, ed i 79 scartati tornarono a casa chi prima chi dopo, ma tutti col culo rotto o fuori di testa, e con una rendita vitalizia che pareva in realtà molto generosa a chi non sapeva nulla su quello che si preparava là fuori e quanto avrebbe influito sull’aspettativa media di vita.
Io di mio avevo sempre avuto una certa coscienza politica in questo senso, e se non fossi stata una bambina sarei scesa in piazza coi miei fratelloni a protestare contro l’installazione degli euromissili, che nella mia Germania furono proprio tanti, poi. Ma ero adolescente a Berlino la sera del concerto di Roger Waters che celebrava la caduta del muro, avvenuta qualche mese prima. A me “The Wall” mi ha sempre messo i brividi, e sentirla dal vivo e con tutti quei cantanti famosi poi...! Quel visionario aveva giurato di non eseguire più la sua opera se non a muro caduto davanti alla porta di Brandeburgo, ma ha commesso insieme due errori, opposti: quando ha giurato non sospettava neanche lontanamente che sarebbe accaduto così presto, e quando alla fine del concerto aggiunse l’ottimista sua nuova canzone intitolata “the tide is turning” non immaginava certo che la marea stava si cambiando, ma in peggio, e incomparabilmente. L’equilibrio fondato sulle due superpotenze era si precario, ma in confronto con la situazione di diffusione parcellizzata ed incontrollabile delle armi nucleari che si venne a creare dopo era un esempio di stabilità marmorea.
L’ONU avrebbe di lì a poco dimostrato di non essere altro che una scatola senza alcun reale potere politico autonomo né derivato, ma al suo interno qualche dipartimento funzionava benino. Uno era il segretissimo Ufficio per le Politiche della Popolazione, nel cui seno partorì il progetto Exodus. Che era appunto ciò di cui io ed altre 20 persone avremmo fatto parte.
Nessuno aveva mai fatto viaggi interplanetari, e nessuno era mai stato in animazione sospesa per più di qualche giorno, per giunta fuori controllo medico. L’astronave era un prototipo, il computer di bordo quanto più sofisticato si potesse realizzare ad un certo livello di affidabilità, e a noi un bel giorno fu comunicato a brutto muso che la guerra era iniziata e ci si attendeva l’escalation nucleare da un giorno all’altro; non c’era tempo da perdere. Sarà stata la verità?
Tant’è che quasi per caso, non appena ebbi l’ago in vena, pensai contemporaneamente a quella vecchia storia dei due astronauti della Soyuz non mi ricordo che numero, ed al famoso paradosso di Einstein sui viaggi alla velocità della luce e i due gemelli uno che resta a terra e l’altro che parte e quando torna per lui sono passati tre anni e per quello a terra cinquanta o più, non rammento bene. Noi avremmo viaggiato molto più lentamente, ma saremmo mai tornati a casa? o approdati da qualche parte? e se qualcosa non avesse funzionato, e ci fossimo svegliati senza gravità e con poco ossigeno e cibo, cosa avremmo provato, e quanto tempo ci avremmo messo a morire, e quanto ci sarebbe sembrato quel tempo?
Così ora ho tanto sonno e dormo e sogno, e sogno di tornare sulla Terra. Pronto, Terra? Rispondete! Missione compiuta, torniamo alla base. E sbarchiamo e la Terra è bella come sempre, tutta verde e azzurra, e c’è il sole e tantissima gente che ci applaude, noi che scendiamo dall’astronave senza neanche quegli orrendi camici bianchi che ci avevano fatto indossare prima di partire: chi è nudo del tutto, chi come me indossa solo una maglietta colorata, di tutti i colori dell’arcobaleno.

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