giovedì 3 agosto 2017

2 - HIMALAYA

Continua la pubblicazione dei racconti di Chi c'è c'è, raccolti da un "geestre" direttamente dalle menti di 21 terrestri in animazione sospesa su un astronave perduta nel cosmo, forse ultima vestigia del nostro pianeta ormai distrutto. Questo è il sogno di un globetrotter austriaco.

2 - HIMALAYA

Cominciai ad avere fame di mondo che non avevo quattordici anni. Già conoscevo la mia città a menadito, nel senso che era come fosse mia, e tutti i suoi anfratti e le scorciatoie e gli scorci mi appartenevano. Poi le persone: della mia generazione si può dire che conoscevo tutti, e a vent’anni non c’era ragazza carina con cui non ci avessi già provato, se appena mi era venuta a tiro. Non era machismo, o prorompente insaziabilità: no, era voglia di comunicare, di conoscenza, era curiosità, ecco. E valeva per tutto, solo che avevo come una specie di valvola di sicurezza che mi aveva fin lì salvaguardato da droghe pesanti e altre cose pericolose: l’immaginazione. Funzionava così: quando volevo esplorare qualcuno o qualcosa o qualche luogo, prima me lo raffiguravo, e se mi pareva bello partivo. Con questo metodo mi riuscivo ad orientare in luoghi mai visti prima, con persone sconosciute ed in mezzo a mille rischi, senza avere mai problemi.
A sedici anni al mio sacco a pelo cominciò a star stretta la sola Austria, allora attraversai l’Alto Adige e me ne andai per due mesi in giro per l’Italia dormendo nei conventi. Quindi fu la volta di Amsterdam: ad un certo punto vi ero diventato così famoso come artista di strada (suonavo bottiglie di birra) che mi dedicarono un articolo con foto su un giornale, che ancora conservo. E poi Londra, poi Parigi, città enormi che giravo fin dal primo giorno come se ci fossi nato, di giorno come di notte, stringendo amicizie profonde quanto estemporanee con gente di ogni sesso, colore e nazionalità.
E che dire dei treni!! Io nei posti ci andavo sempre in treno, quando non potevo arrivarci a piedi: il treno è comodo, ma soprattutto lento, e pieno di gente. Bella anche solo da osservare ed ascoltare, la gente sui treni, figurarsi a farci amicizia! Ho parlato con tutti: con il barbone, con l’ingegnere della Ferrari, con la giovane madre, col vecchio pseudo-filosofo ex-politico tardo-cattolico, con l’anziana signora spiritista e con la nonnina che somigliava - come tutte - a mia nonna. Mai un attimo di noia, era tutta esperienza, conoscenza, in una parola vita.
Dopo quindici notti insonni in giro per i pub di Irlanda a bere whisky, guinness e irish coffee, ed a sentire la migliore musica del pianeta assieme ai ragazzi più strambi e simpatici d’Europa ed alle ragazze più carine e sensuali che si possano immaginare, mi affacciai una domenica mattina, dopo un meraviglioso viaggio in corriera attraverso posti di un verde indescrivibile, da una scogliera a picco sull’Atlantico. C’era vento, e faceva molto freddo per essere giugno. Ma era così bello che non sarebbe bastato piangere, né buttarsi di sotto urlando, per rendere l’idea della mia felicità. E per giunta non sapevo perché. L’anno dopo mi organizzai per raggiungere, attraverso la Germania, la Danimarca e la Svezia, il punto più a Nord del continente, in Norvegia, il 21 giugno, per vedere il sole di mezzanotte sull’artico. E poi tornare indietro, passando per i laghi finlandesi ed il traghetto sul Baltico, la Polonia e la repubblica Ceca (ah, Praga!), immediatamente.
Chi ha detto che la vita è un viaggio? No, sono i viaggi ad essere come la vita: l’importante non è la meta, è il tragitto. La meta tanto viene da sola, meglio concentrarsi sul percorso. Il percorso. Dovevo averlo capito, ormai: la mia vita ne era la più chiara testimonianza. Ma io non potevo vederla, la mia vita: ero troppo impegnato a viverla. Ero come un computer sottoposto ad un tale flusso di informazioni da non avere più memoria libera per elaborarle. Così cercavo sempre un’altra meta. Era logico che finissi sull’Himalaya.
Quando mi mettevo in testa una cosa questa poteva essere la più assurda ed irrazionale, ma io poi adottavo tutti i comportamenti più razionali e consequenziali possibili per perseguirla. Mi iscrissi ad una scuola di free-climbing ed alpinismo, e per fortuna che le mie foto mi facevano guadagnare bene. Un paio di anni ed il mio fisico era trasformato: ero sempre stato magro, ma ora ero asciutto e nervoso e le mie mani da pianista erano diventate due tenaglie. Ne avevo già abbastanza di Dolomiti, ora. Partii per il Tibet quasi senza dirlo a nessuno: era la mia prima volta su un aereo, e ovviamente volli il posto vicino al finestrino. Ebbi come la sensazione che a quella velocità e da quell’altezza avrei potuto conoscere tutto il pianeta in un tempo relativamente breve, e rimpiansi tutti i miei treni, e di non potermi permettere un jet personale. Appena fui sul posto assoldai una guida, e via verso le montagne!
Qualche tempo prima mi sarei organizzato con degli amici, oppure avrei vissuto un po’ di tempo a Kuala Lumpur, avrei fumato un po’ di roba buona, avrei fatto amicizia con tanti ragazzi del posto tra cui vuoi che non capitasse una guida, e con quest’ultima, poi, sarei partito: con un amico. Invece quella che avevo ingaggiato (che poi a pensarci bene non lo sembrava nemmeno, una guida), insomma ‘sto tizio deve essersi accorto al primo sguardo che non ero un esperto alpinista, e che avevo soldi da perdere. Per lui fu facile abbandonarmi in un punto da dove non sarei mai potuto tornare indietro a denunciarlo per avermi rubato tutti i soldi, anche perché non tralasciò di portarmi via anche lo zaino con l’attrezzatura e - porca puttana! - i libri, le mappe e gli altri generi di conforto.
Me ne accorsi al risveglio, e non fu difficile realizzare che, siccome da lì senza corde non si scendeva, ed ero pure senza provviste, sarei morto presto in ogni caso. Così guardai in aria: il cielo era azzurro, ed il freddo era giusto. Non so come si chiamasse quella cima rocciosa, che in Irlanda avrebbe fatto la sua figura ma lì non doveva essere niente di particolare: allora a me parve bellissima. Ed io ormai dovevo morire. Ed avevo imparato il free-climbing. Tanto valeva... Decisi in un attimo; l’attimo dopo il sangue colava dalle unghie, ma doveva essere quello di un altro, ché io non sentivo dolore.
Salivo, e lasciavo dei segni su roccia e ghiaccio come se avessi unghie e scarpe di non so quale metallo, e intanto tutto mi diventava chiaro. Io non ero di questo mondo. Comunque non lo ero più, ma non sapevo se lo ero mai stato, forse ero tutt’al più un clandestino a bordo. Però il mondo, lui, di sicuro, era mio. Come la mia città quando ero adolescente. Era lì il meglio.
Ma era lì anche il peggio: non c’era differenza. Tra la mia città e il mondo, intendo. E più ci pensavo più capivo che anche per qualsiasi altra entità in cui ero - o ero stato - dentro, l’Austria la mia famiglia la razza umana il corpo di una donna, era come per quelle formule statistiche che vengono tarate per dare risultati da zero ad uno per ogni valore delle variabili. Aspetta...come si chiamava? Ah, si: indice di regressione. Che poi come nome era pure significativo. Non so chi mi aveva detto di punti di contatto tra la matematica e la filosofia, ma adesso credevo di capire cosa intendesse.
Quando fui in cima mi accucciai a piangere per non so quanto tempo, e mi sorpresi a desiderare una casa, ed a pregare Dio di consentirmi di diventare un vecchio capofamiglia circondato dai nipotini intorno alla torta del suo ennesimo compleanno. Dopo, e solo dopo, sarei potuto morire. Chiusi gli occhi e sognai che in cima a quello spuntone di roccia una botola conducesse ad un turboascensore che mi riportasse giù rombando, lì riaprii ed il rombo era quello di un elicottero.
Seppi dopo che non ero poi tanto lontano dalla civiltà, che il ladro aveva preso i soldi e lasciato per strada il resto, così per i soccorritori non era stato difficile trovarmi ed io ho potuto anche riavere le mie carte e i miei libri. Da una cartina scoprii che la cima che io avevo scalato era considerata “facile”, e non arrivava a 6000 metri di quota dopo 300 di parete. Ma io non avevo scalato solo quel tot di metri: c’era da sommarci su - per capire perché ero così contento - tutta la mia essenza.

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