venerdì 16 marzo 2018

15 - TI PIACE MOZART?

Anche il racconto numero 15 di Chi c'è c'è (mia prima e unica opera di narrativa fino all'uscita di Sushi Marina nei prossimi mesi) nasce da un testo di canzone scritto qualche anno prima, ma in questo caso, forse proprio per il tipo di canzone (pensata come un quasi-rap "parlato" mentre sotto suona con volume in crescendo la famosissima 45° sinfonia; e si, anche questa se volete il testo - come per gli altri - potete metterci la musica che vi pare, ma prima provate a immaginarvela così...), la distanza è maggiore. La canzone, infatti, è una veloce suggestione, quasi cronachistica, di un mancato incontro, il racconto invece è il sogno piuttosto articolato di un'astronauta iraniana che contiene ed esplora anche la narrazione di quel mancato incontro.

15 - TI PIACE MOZART?

Per una donna essere bella è un vantaggio e una maledizione, a seconda dei punti di vista e delle circostanze. Certo, puoi scegliere tra tutti quelli che ti muoiono appresso; ma se sei davvero bella sono troppi, e i più intraprendenti sono spesso i peggiori. Quindi, la prima cosa è imparare a difenderti. Anzi, no: prima ancora bisogna che ti rendi conto della tua bellezza. La consapevolezza è infatti anche in questo caso fondamentale: ho visto troppe ragazze troppo belle troppo presto darsi via a poco prezzo al bulletto del quartiere, che le vedi e sono incantevoli e poi le senti parlare e ti cascano le braccia, tanto volgare è quello slang ciancicato e pieno di parolacce; oppure soggiogate dal fascino maturo di quell'amico troppo grande, che le sposa presto e presto invecchia, condannandole ad una vita infelice (e/o condannandosi alle corna).
Se invece sei consapevole di essere bella puoi giocare coi maschietti, e tenerli sotto, e farci quello che vuoi: nel senso che se non vuoi puoi anche non farci niente, e nessuno sfiorerà le tue spalle dritte e i tuoi occhi ben aperti ed attenti. Se, e dico se, ti piace qualcuno, allora puoi facilmente farglielo capire, tanto a lui tu piacerai sicuramente, e poi sei tu che guidi la danza. Almeno, quasi sempre è così.
Quella volta, al matrimonio di una mia amica italiana, puntai un tipo belloccio al tavolo in fondo. Il ricevimento era fastoso, nel giardino di una lussuosa villa secentesca toscana, e l'orchestra da camera stava suonando la 45^ sinfonia. Io partii con decisione ed indifferenza, pensando di passargli vicino che poi qualcosa sarebbe successo. Lui non mi aveva notato ancora, ma qualcosa inconsapevolmente avvertì, io non credo al caso: gli cadde il tovagliolo a terra quando io ero a qualche metro, cosicché quando gli passai vicino lui si ritrovò ad un palmo dal naso le mie lunghe, dritte, sode, abbronzate, in una parola bellissime cosce. A farla apposta non poteva venire meglio.
Rimase immobile, per qualche secondo che gli dovette parere un'eternità. Forse pensò qualcosa, ma non ne sono sicura. In ogni caso gli tolsi il tempo di parlare, di dire qualsiasi cosa, pensata o meno che fosse. "Ti piace Mozart?", gli chiesi a bruciapelo, inducendolo ad alzare lo sguardo da quella posizione così in basso da fargli venire gli occhioni sgranati dei bimbi, quelli tondi tondi che tu dall'alto vedi le cornee a metà nascoste dalle palpebre superiori e quasi galleggianti su un mare di bianco/azzurrato umido e pieno di venuzze minuscole. Quegli occhi così spalancati che ci vedi l'anima, quegli occhioni che gli uomini non fanno vedere mai, chi per natura chi dopo la prima grossa fregatura amorosa.
Prima di incontrare il mio sguardo, il suo risalì lentamente dai polpacci (che a gambe unite, se sono diritte come le mie, si sfiorano) alle ginocchia (che ho diritte ma non sporgenti), alle cosce (muscolose, e quasi del tutto scoperte dalla mini vertiginosa che indossavo), alle mutandine bianche (da sotto si dovevano vedere, se le avevo messe), alle pieghe che la gonna attillata faceva tra le ossa del bacino (visto il mio ventre piatto), all'ombelico (naturalmente scoperto, perfetto ed incastonato in addominali scolpiti e abbronzati), al seno (che dovette intravedere da sotto il top), al collo (lungo, tra le clavicole e il mento), alle labbra (mai truccate perché già rosse, e malcelanti un malizioso sorriso, semichiuse nella domanda appena sparata), fino agli occhi (neri e luccicanti, incorniciati da ciglia che sembrano finte e più in là dai lunghi boccoli neri dei miei capelli orientali).
Io sono persiana. E ho preso il meglio dei tratti somatici dei miei due bei genitori, così da somigliare probabilmente ad una delle protagoniste delle mille e una notte, perché quando un'orientale è bella è bella davvero. I miei, di famiglie benestanti, erano stati mandati a studiare in Italia, dove si erano conosciuti, e vi si erano fermati per sfuggire al regime khomeinista, che aveva fatto torturare e uccidere tanti loro amici che incautamente erano tornati in una patria precipitata indietro di mille anni e non avevano accettato la nuova realtà, e bastava rifiutarne non dico i valori ma anche solo i costumi per essere considerati nemici. Così, dopo un fidanzamento lungo e tormentato (a mio padre piacevano troppo le donne, ed era spesso ricambiato: era bello, e che ci sapeva fare ce l'aveva scritto in faccia), si sposarono ed ebbero me.
Mi chiamarono Sheida, che in iraniano significa “gioia”: un nome bellissimo. Per molti anni in Italia lavorarono e guadagnarono bene, tra arredamenti di interni ed import di tappeti, e si inserirono ancora meglio: ebbero la cittadinanza, e mio padre addirittura divenne presidente della squadra di calcio del quartiere e candidato di sinistra al consiglio comunale. Poi una serie di problemi finanziari, ed il rinnovato clima di fiducia che seguì alla svolta moderata del 1997, li indussero a rientrare in Iran, prima parzialmente e poi definitivamente.
Io intanto ero cresciuta, e all'università rimasi a Roma, ma la specializzazione in fisica nucleare mi rese preziosa anche per l'Iran, così cominciai a fare la spola per motivi di lavoro fra Teheran, Roma... e Parigi. Qui invero mi ci portò, attraverso Milano, un'altra attività, cominciata per gioco e continuata per soldi, stando attenta a non trascurare troppo i miei studi: quella di modella. Ero abbastanza richiesta dagli stilisti, ma ancora di più dai giornalisti: ero l'unico fisico nucleare a sfilare in passerella, e i titolisti vanno matti per i giochi di parole quanto i lettori per le storie che si prestano al transfert. Al momento dell'imbarco, a trentadue anni suonati, non svolgevo più quell'attività da anni, ma mi mantenevo ancora molto bella. Certo non come quella volta al matrimonio della mia amica, però!
Raccattò il tovagliolo, lo piegò sul tavolo, si alzò in piedi e mi prese la mano, senza dire una parola ma guardandomi sempre fissa negli occhi. Avevo visto bene, era più alto di me, condicio sine qua non perché mi piaccia un uomo, e non è facile visto il mio uno e ottanta. Poi aveva le spalle e il petto robusti ma non troppo muscolosi (non mi piacciono i culturisti, sembrano dei formaggini capovolti), gli occhi neri con le ciglia lunghe e lo sguardo intelligente, basette a punta ben curate, e soprattutto mani bellissime e affusolate, da pianista. Dalla carnagione e dai modi doveva essere meridionale, e con molto sangue arabo nelle vene, ché i razziatori saracini risparmiavano solo le donne che si concedevano loro senza troppe storie.
Sempre senza fiatare, fece un cenno all'orchestra, che attaccò un valzer lento di Strauss padre, "Skaterwaltz": lo riconobbi perché è quello con cui inizia "Tunnel of love" dei Dire Straits, un classico del rock di tanti anni fa. Ebbene sì, in realtà mi intendo più di pop rock e blues che di musica cosiddetta (secondo me impropriamente) "colta". Mentre ballavamo, osservati e presumo invidiati da tutti i presenti certo anche più degli sposi, io pensavo già a come sarebbe stata la sera dopo, quando avrei accettato dopo qualche studiata titubanza il suo invito a cena, e cioè quale ristorante avrebbe scelto, se avrebbe retto al mio livello di conversazione, e alla mia resistenza a letto subito dopo. E scommetto che anche lui stava pensando alle stesse cose: a come invitarmi a cena, a quale ristorante portarmi, a cosa dirmi per intrattenermi mentre mangiavamo, sapendo entrambi bene dove saremmo finiti dopo senza neanche dirlo.
Appunto, senza dirlo: non ce n'era bisogno. Invece lui a un certo punto socchiuse le labbra, come volesse baciarmi, si avvicinò al mio orecchio e mi sussurrò qualcosa... di schifosamente volgare, gratuito, non necessario, spoetizzante. No, non sto facendo la puritana: era esattamente quello che volevo anch'io, in sostanza, e allora? E allora non so perché, mi divenne istantaneamente antipatico, pensai "che stupido", e gli dissi semplicemente, e con un tono che non lasciava spazio ad appelli, "no". Il valzer era finito, mi ringraziò, mi riaccompagnò al tavolo e tornò a sedere al suo.
Ma non gliene diedi quasi il tempo. D'istinto, andai a bisbigliare qualcosa al violinista e mi sistemai al centro della sala. Mia madre, danzatrice figlia di danzatrice da chissà quante generazioni, mi aveva insegnato la danza del ventre, e chi non l'ha vista fatta da una persiana non sa cos'è la sensualità. Un ventre scoperto che si muove con la sapienza di migliaia di anni di tradizione ti scopre e ti tocca i nervi profondi, ti scombussola i pezzi del puzzle della tua anima, ti riempie i polmoni di aria, ti gonfia il petto, ti drizza le spalle, ti irrora di sangue il cervello e i muscoli, ti rimette a posto la psiche e ti guarisce dalle malattie genetiche, in una parola ti eccita da morire, se poco poco sei maschio. Ti titilla una parte della mente che avevi dimenticato di avere, ti riporta a quando hai ammazzato Abele, e perdìo se stavi bene! Ti libera da te stesso, e ora sai ciò che vuoi, che vuoi partire davvero, e amare davvero, che neanche la morte ti può fermare.
Addosso avevo gli occhi di tutti, uomini e no. Stavo bene, ero dentro me stessa fino alle ossa, fino all'anima, la mia e quella di tutte le mie antenate che dalla notte dei tempi mi avevano fatto giungere quest'arte meravigliosa. Così non guardai più nella direzione del mio uomo, da cui mi ero sentita davvero offesa e irritata, e che sciocca ero stata!
Quando mi voltai infatti non c'era più, era andato via, e prima della torta! Dopo qualche minuto un cameriere mi portò una rosa e un bigliettino da visita, con aggiunta la scritta: "NO, MOZART NON MI E' MAI PIACIUTO". Risi forte: per un uomo essere bello, e saperlo, deve essere un problema ancora maggiore che per una donna, con conseguenze ancora più pesanti. Non gli ho mai telefonato.
TI PIACE MOZART?

“Ti piace Mozart?”
Fece prontamente per spostarsi,
ma l’ansia di cogliere il fazzoletto
cadutogli solo un momento prima
fu infantile, e di certo non poteva
aspettarsi l’incontro a fil di naso
con quelle due gambe drittissime
coperte da pochissima gonna
padrone di una voce domandante
“ti piace Mozart?”
da dietro sette ordini di denti
uguali e bianchi come il fazzoletto.
Bellissima. Ciò che gli venne in mente
è ovvio come tutto ciò che è sesso
e spesso mascheriamo con cautela
tra frasi smozzicate e senza senso.
Così studio, appena si riebbe
dalla sorpresa di quella domanda
(“ti piace Mozart?”)
e dal perché e dal come venne posta,
un modo per toccarla,
come arrivare ad un coinvolgimento,
il ristorante dove poi invitarla
e quali storie raccontar mangiando.
Ristette. E gli usci, come da altra bocca:
“Ti piacerebbe, non so, in prospettiva
di fare gambe e gambe, ventre e ventre?”
“No”, rispose la ragazza.
“E a me Mozart non è mai piaciuto”,
lui disse. Pensò.

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