lunedì 9 aprile 2018

17 - IL COLORE DEL SANGUE + SFORZI INUTILI

Della serie "allora è proprio vero che a volte la
realtà supera le capacità d'immaginazione..."
Il racconto numero 17 di Chi c'è c'è (mia prima e unica opera di narrativa fino all'uscita di Sushi Marina nei prossimi mesi) è, come peraltro il testo di canzone da cui (molto alla lontana, direi...) prende spunto, decisamente tra i meno attuali, o meglio tra quelli che si possono apprezzare solo se si tiene presente che sono stati scritti 20/25 anni fa. Però da un lato l'astronauta/narratore è una giovane indiana con per una volta la capacità di interloquire col telepate geestre, per cui il racconto è l'unico che si inserisce nel filone narrativo che contiene tutti gli altri, dall'altro la canzone (pensata come un bolero cantato alla Rino Gaetano, ad alimentare la citazione finale di un vecchio pezzo di Lauzi, ma come per le altre potete metterci la musica che volete, se vi piace e me la chiedete) è tra le poche che i Ristrittizzi all'epoca riuscivano ogni tanto a infilare tra una cover e l'altra, quindi l'operazione filologica di affrontarne la lettura potrebbe in qualche modo valere lo sforzo...
P.S. No, non trovo affatto contraddittorio continuare a ritenere l'opzione governo a tempo m5s/lega la meno peggiore tra quelle che potremmo vedere concretizzarsi a breve...


17 - IL COLORE DEL SANGUE

Chi sono? Sono un’astronauta indiana cresciuta a Londra. Come faccio a parlare con te? Perché mi è stata tramandata dai miei genitori l’arte antica della meditazione, dell’immersione in se stessi. Così io ho rallentato la mia coscienza ad un ritmo che pensavo sarebbe stato compatibile con quello del mio essere congelato, e così facendo sono riuscita a restare vigile. Ti ho sentito subito entrare, non sembravi avere intenzioni offensive,  e comunque non avrei potuto impedirti di ucciderci: non sono in grado di svegliare il mio corpo, a quello ci penserà il computer se e quando lo riterrà opportuno.
No, non so dirti come attivarlo, queste sono macchine troppo avanti rispetto alle mie conoscenze di informatica. Io sono anche medico aiurvedico. Ma soprattutto sono specialista in ortopedia; e aggiungici un po’ di sapienza tradizionale, ecco che sono un po’ più che fisioterapista, diciamo. E poi qualche anno fa ho partecipato ai campionati europei di atletica leggera. Eptatlon. Sette discipline insieme. Tosto, sì. Serviva una come me se e quando questi corpi rattrappiti avessero ripreso a muoversi.
Dicevamo, come faccio a parlare con te senza svegliarmi? Oh, di preciso non lo so. Credo però che tu, quando entri in empatia mentale con qualcuno, adatti inconsapevolmente la tua “velocità di registrazione” a quella di proiezione delle immagini mentali del soggetto che stai toccando. Temo che quando avrai finito ti accorgerai che è passato tanto di quel tempo che spero che non sarà un guaio, per te. Si, va bene, quando avrai contattato anche le ultime quattro persone tornerai da me e tenterò di spiegarti quello che posso per farti accedere al sistema centrale, anche se non so se funzionerà. Ora però, visto che se hai già “parlato” con sedici di noi qualcosa della nostra storia e del perché siamo qui la sai, raccontami qualcosa di te.
[……..] 
Ok, ora ti racconto la mia, di storia. Anzi, no: ho cambiato idea. Ti racconto la storia di alcune persone che ho conosciuto, che attraverso di esse capirai ancora di più, di me. I miei genitori, innanzitutto. Emigrarono a Londra dal Punjab pochi mesi prima che io nascessi, quando nella loro terra infuriava la guerra civile. L’India era ancora la stessa ex colonia britannica che Gandhi avrebbe voluto libera, unita, e pacifica, e che poco dopo con la guerra del Pakistan si sarebbe rivelata divisa da odii religiosi, etnici, territoriali, e in definitiva ancora schiava dell’Occidente. Il colonialismo aveva solo cambiato pelle.
Cinquant’anni dopo gli indiani erano davvero troppi, oramai più dei cinesi, e troppo divisi, affamati e sporchi. Tra i due più grandi popoli del pianeta c’era questa differenza, che i cinesi erano bene o male un popolo, noi no. Di lì a poco, l’avvento al potere di Sonia Gandhi prima, e del figlio suo e di Rajiv quando anche lei fu assassinata, avrebbe cambiato le cose: troppo il piccolo Raul assomigliava al bisnonno putativo per non riuscire a coagulare le migliori energie che percorrevano il paese agli inizi del secolo.
Ma i miei genitori non potevano saperlo, ai loro tempi. Loro scappavano dal sangue e dalla violenza, figli dell’intolleranza religiosa e del conflitto razziale, nipoti della disoccupazione e della povertà. Così a Londra, in quel 1998, arrivarono da poveri e senza lavoro: alloggiavano in dodici in una stanza vicino Paddington; mio padre, medico, si arrangiava a vendere roselline in giro per i pub. Mia madre, appena si liberò dal mio peso, e si rese conto che non aveva di che nutrirmi e vestirmi neanche se digiunava, provò a darsi da fare. Dalle fessure delle persiane si doveva vedere il passeggio sotto casa: ragazzine, per lo più filippine e cinesi, buttate in strada senza documenti per non acclarare la loro minore età e per tenerle sotto giogo. Mamma, minuta e bellissima, di nascosto da papà, un giorno ci provò: si truccò e scese giù. Forse adescò qualche cliente, forse qualche sterlina la incassò. Sicuramente incassò la delazione delle schiave, e trovò i loro protettori ad attenderla il giorno dopo. Non aspettarti mai nella realtà la solidarietà tra oppressi che trovi nei film.
Fu massacrata di botte, e sfregiata. Si trascinò dentro il portone, dove mio padre, al ritorno alle tre del mattino da uno dei suoi interminabili e scarsamente fruttuosi giri, ché pure nella caleidoscopica Londra raccoglieva più fastidio per la sua diversità e la sua povertà che soldi, la trovò ricoperta di sangue rappreso ed ecchimosi, molte le probabili fratture. A sentire quelli dell’ospedale pubblico, sarebbe rimasta storpia.
Ma lui era un grande medico, e la guarì. E nel guarirla, si guarì. Decise che doveva in qualche modo riuscire ad esercitare il suo dono, la sua professione. Cominciò coi derelitti suoi simili in cambio di cibo e abitini dismessi per me. Poi rimise in piedi una cameriera filippina conciata malissimo dall’artrosi, e la sua ricca padrona visti i risultati volle i suoi servigi. E pagò. E sparse la voce. Oggi mio padre lavora solo su appuntamento. E si è potuto permettere di permettermi di essere quello che ho voluto essere. Una studentessa, un’atleta, poi un medico come lui. Ma per uno che si è salvato mille altri non hanno trovato che povertà e disoccupazione nel loro cammino, e razzismo e intolleranza, e violenza e sangue. E non solo fra la mia gente.
Tu ora infatti vedi in queste teche persone di vari colori e tratti somatici. Io non so se è così pure fra la tua gente, ma noi abbiamo il 99,9% periodico di patrimonio genetico comune, siamo tutti esattamente la stessa razza, eppure sono millenni che ci combattiamo e uccidiamo e trucidiamo in nome delle nostre differenze presunte razziali, o religiose, o ideologiche. O meglio con la scusa di queste differenze. Oggi forse abbiamo distrutto il pianeta.
Ma senti questa storia, è emblematica: una quindicina di anni fa il processo di unione europea aveva infranto per sempre i sogni separatisti di molte più o meno storicamente fondate minoranze etniche. Una delle più aleatorie e meno serie era sorta qualche tempo prima nell’Italia settentrionale, senza mai prendere realmente consistenza in verità, ma con capi abbastanza numerosi e furbi da far parlare del movimento come se avesse davvero seguaci determinati a tutto e reali possibilità politiche. Come per tutti i sogni falliti, lasciò qualcuno senza mestiere e qualcuno senza ragione. Tra questi ultimi venne fuori uno dei serial killer più sfuggenti d’Europa: ammazzava “terroni”, meridionali del suo stesso Paese. Ebbene, quando fu arrestato si scoprì che si chiamava Terracenere, ed era di origine pugliese. Si, insomma, di una regione terrona come le sue vittime.
Temi il tuo simile, ciccio, più che il diverso. Quel tuo capitano, per esempio, da quello che mi hai raccontato sono sicura che ti vuole fregare. Ti ha mandato giù perché se andava male eri tu a crepare, e se andava bene si inseriva sul tuo codice di trasmissione e si prendeva tutti i meriti. Perché parlo al passato? Ma perché, se non l’hai ancora capito, è passato tanto di quel tempo, e i nostri sistemi hanno interrotto le tue comunicazioni appena sei salito a bordo, che lui ha di certo pensato che sei bello e defunto, e se non è andato via di certo non ti viene a cercare. Si, lo so che arriveranno gli scienziati! Ma tu intanto che mangi? Dai, che ti dico io dove sono le provviste liofilizzate, speriamo che trovi qualcosa di compatibile… Ah, poi nella sala ologrammi ci sono tutte le informazioni scientifiche che vuoi, quelle biologiche, quelle… anzi, a proposito, di che base chimica siete voi, sempre carbonio? E di che colore è il tuo sangue?

SFORZI INUTILI

Son razzista perché figlio di terroni sfortunati
che han lasciato per bisogno la terra dei loro padri
quando ancora per fortuna non mi avevano sfornato,
e son nato al nord,
sun de Milàn.
E odio tutti quanti quelli che sono diversi anche di poco
da quel tipo uguale che vorrei essere e non sono,
ma somiglio tanto che quasi nessuno se ne accorge
qui al nord,
qui luntan.
E mi danno sui nervi quelli nati qui che non han capito
che tutti i guai del paese vengono dagli altri:
i romani, i terroni, gli zingari, i marocchini,
maledetti Garibaldi, Cavour, i Savoia, giù fino a Prodi.
Ma è arrivato Umberto Bossi e gli altri amici della Lega,
cui presto o tardi tutti i qui pensanti si uniranno,
e allora sarà un’era nuova per l’Europa intera,
da Bologna al Nord
(già Firenze no).
Cacceranno i mafiosi gentilmente e gli altri a calci,
i pugliesi di Bitritto manderanno via lontano,
tanto sui miei documenti è scritto “nato il, a Milano”
babbo l’è mort,
mamma tra un po’.
E i capelli li ho già biondi, credo da parte normanna,
la pelle è scura ma la lampada è tanto di moda,
quando avrò un po’ di danè potrò cambiare il mio cognome:
mi sfottevano a scuola:
“Terracenere sei
e ritornerai”
“Terracenere sei
e ritornerai”
“Terracenere sei
e ritornerai”

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