domenica 27 maggio 2018

19 - EVERGREEN

Gli occhi verdi più famosi della storia della fotografia, al tempo
perfetti per strappare il nostro consenso una guerra senza fine...
Per apprezzare meglio il racconto numero 19 (coraggio, ne mancano due o tre) di Chi c'è c'è (mia prima e unica opera di narrativa fino all'uscita di Sushi Marina nei prossimi mesi) bisogna ricordarsi che è uscito nel 1999 ed è stato scritto l'anno prima. Non era di moda il superamento delle identità sessuali. Che, tra parentesi, è cavalcato in questi anni bui da chi vuole farsi spacciare per progressista mentre ci rispedisce in massa nel sottoproletariato. L'astronauta il cui sogno è intercettato dal geestre che ci ha letto tutti i racconti è un anziano biologo brasiliano gay non dichiarato, ma per mezzo racconto la cosa non si capisce, come per Stella di mare di Lucio Dalla manco dopo la millesima volta che la senti.

(Abbiate pazienza, del governo parlerò solo se lo fanno, o se invece hanno la faccia tosta di non farlo, con il primo Presidente della Repubblica della storia italiana che usa davvero le sue prerogative sulla scelta dei ministri per mettere i bastoni tra le ruote fino alla fine, e magari con successo, che viene giusto dopo il primo suo collega a farsi rieleggere per impedire che vada al suo posto uno meno compromesso coi padroni del vapore. Ma se non si incazzano i ventenni, cosa volete mai da un cinquantenne abbondante?...) 

19 - EVERGREEN

Arancio. Rosso. Blu. Bianco. Giallo. Nero. Oro. Argento. Viola.
Verde.
Nei miei occhi lampi di luce colorata, globi luminosi che esplodono in scintille iridate, ed i ricordi fluiscono, inarrestabili… La musica è assordante, le strade colme di gente in festa, coriandoli, balli e danze, ritmi antichissimi, piume e lustrini, ed un odore di trasgressione, di divertimento ad ogni costo.
Non ho mai condiviso in pieno questa atmosfera di festa obbligata, non mi sono mai sentito parte di questa massa urlante, dondolante, trasognata, isterica. Tuttavia, quel giorno ero lì, ad osservare, tra il divertito e l’annoiato, la sfilata delle scuole di samba, a Rio. Era l’occasione giusta per lasciare moglie e figli a casa, senza destare sospetti.
Verde.
Improvvisamente, il verde delle nostre foreste, che i miei pennelli non erano mai riusciti a riprodurre, illuminato da riflessi d’oro, e sottolineato da un contorno blu. Era il verde dei tuoi occhi, che incrociarono i miei per un attimo interminabile.
Ti osservai a lungo, mentre tu, imbarazzato, distoglievi lo sguardo. Un lungo fremito scivolò lungo la mia schiena, mi raggiunse le gambe, poi risalì fino alla fronte, mi fece socchiudere gli occhi, come per un capogiro.
Sparisti.
Proprio quell’attimo fu sufficiente per perdere la tua immagine tra la folla, lasciandomi in preda all’inquietudine, allo smarrimento. Ma non è facile che io mi dia per vinto!
Così continuai a sbirciare ovunque, tra i colori, cercando quel colore che, solo, poteva portarmi da te. E, come per miracolo, ti ritrovai.
Spintonai decine di persone accaldate, mi feci strada tra gruppi festanti, urlai per avere largo, mentii spudoratamente per oltrepassare un controllo di polizia, e ti raggiunsi. Il tuo sorriso divertito fu il premio più bello, superiore ad ogni ragionevole speranza.
Non ci furono commenti, non ci furono spiegazioni, non ci furono giustificazioni banali. Solo domande, da parte mia e tua, domande a torrenti, a fiumi, come se avessimo dovuto raccontare in un solo giorno tutte le nostre vite passate. E quanta complicità, fino da quel primo momento, che da allora in poi non ci avrebbe mai abbandonato.
Divenimmo ben presto inseparabili. Passavamo insieme ogni momento libero, parlando, parlando, parlando, e guardandoci. In casa dicevo che era per lavoro. D’altronde, fare il biologo molecolare è una missione, come salvare l’Amazzonia. Nel mio caso le due cose si identificavano: lavoravo per l’ONU, già allora. E spesso mi attardavo sui microscopi elettronici. Ma ultimamente lo facevo di meno e lo dicevo di più.
Ricordo quando mi facesti notare che il verde della foresta dentro alle lenti dei miei strumenti non si vedeva: me lo dicesti senza rabbia, sorridendo. Ed io alzai lo sguardo. Verso la finestra, verso di te. Verso il tuo sorriso.
Ah, il tuo sorriso! Cercavo tutte le occasioni per farti ridere. Soprattutto per quel tuo modo di scuotere la testa e per quel tuo gesto istintivo di scostare i capelli dalla fronte. Hai sempre ripetuto quel gesto, ogni volta che hai riso, ed ogni volta, anche dopo tanti e tanti anni, non ho potuto reprimere un fremito di tenerezza.
Passarono i mesi, anzi volarono, e mentre io ero sempre più innamorato e svanito, tu restavi sereno e tranquillo, come se non avessi capito nulla, come se stessi aspettando. Aspettavi, infatti, e ti sarò grato per sempre di aver prolungato quell’attesa, ed avere, così, dilatato enormemente il piacere che mi ha regalato il tuo primo si.
Mi ricordo distintamente quella sera, a casa tua, dopo una cena in cui mangiammo sconsideratamente di tutto. Ridevi, con quella tua risata fragorosa, contagiosa, ed io ti scostai i capelli della fronte, prima che fossi tu stesso a farlo. Allora mi prendesti la mano, e la accarezzasti a lungo, con attenzione, e per me tutto svanì, languidamente, nel verde dei tuoi occhi.
Amore. Completo, totale, irriproducibile, inspiegabile, delirante, infantile, eterno.
I tuoi occhi divennero il mezzo tanto a lungo cercato per esprimere la mia arte. Cominciai a dipingere, e i miei quadri si riempirono di verde, e con esso di natura, di pace, di serenità. Mi piacevano, si, ma mille volte meno dei tuoi: tu eri un artista vero, nato.
Se ripenso alla mia vita non mi sembra di avere mai fatto niente di bello se non con te, di non avere mai avuto un attimo di felicità se non con te, di non essere mai stato vivo, se non con te. Mia moglie e i miei figli, un errore collaterale a quello fondamentale di non avere preso coscienza ancora di ciò che ero, un errore comune a tanti come noi, da cui molti non si riprendono mai, neanche da vecchi.
Vecchio, giovane: che significa, poi? Quando si è felici si è giovani, si è con i giovani, si pensa ai giovani. La scuola d’arte che abbiamo creato insieme ci sopravviverà, e con essa le nostre idee, la nostra gioia di vivere, la nostra felicità per esserci incontrati.
E’ questo l’esorcismo contro la maledizione scagliataci addosso dalla natura matrigna, che ci ha generato ed un attimo dopo rinnegato, proibendoci di trasmettere al futuro, indissolubilmente fusi insieme, i nostri cromosomi, cioè il nostro passaporto genetico per l’eternità. I nostri figli, miei e tuoi, sono i tuoi allievi, figli non frutto di amori frettolosi, risposta ad istinti di riproduzione così antichi da non essere più riconosciuti come tali, bensì figli della consapevolezza e dell’educazione, sigillo alla nostra volontà di unirci per sempre.
Abbiamo molto amato molto sofferto  molto vissuto. Siamo vecchi. O meglio, io ero vecchio, dentro, quando mi convocarono, e capii che era stato tutto un sogno. Servivo, dovevo partire, dovevo persistere nella menzogna, e rinnegare te. Così ti feci credere che la decisione che io facessi parte della missione la avessimo presa insieme, ben sapendo che non ci saremmo più rivisti. Tanto, ti dissi, prima o poi la morte biologica ci avrebbe separato comunque. Era meglio che la nostra storia finisse così, messaggio di speranza affidato di nascosto a questa navicella per viaggi interstellari, piuttosto che con una straziante agonia, o un inaccettabile arresto cardiaco che non ci avrebbe lasciato nemmeno il tempo di un saluto.
La tua ultima immagine sfuma nella mia memoria. Indelebile, il verde del tuo sguardo mi accompagna nell’ultimo barlume di coscienza.
Il buio e le luci dello spazio si fondono in un unico, universale verde, ed io mi fondo con essi, felice di essere te.

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