Ma da bambino ci andavo allo stadio, eccome: mio padre seguiva la Reggina da sempre, e come è facile intuire io ero un maschietto di meno di dieci anni gongolante quando si incamminava a braccetto con papà verso i tornelli, passando gli sguardi bonari degli addetti al controllo biglietti che ad occhio lo stimavano meno di quel tot di altezza oltre la quale dovevi pagare il ridotto. I primi ricordi certi sono di quando la squadra, dopo i suoi primi nove anni di serie B, retrocesse al termine del campionato 1973/74: un rigore sbagliato da tale Bonfanti e una fuga in solitario di tale Merighi in contropiede per arrivare sfiancato e mangiarsi il gol in una partita che pareggiammo in casa e vinta ci avrebbe salvato, e poi una vaga storia di impicci con in mezzo Foggia Perugia e Sampdoria che ci condannò. Mio padre che, quando tutti chiedevano a quelli con le radioline "chi faci 'u Milan?" o la Juve o l'Inter, rilanciava con un ironico "chi faci 'u Canicattì?" (qualche anno dopo, con la squadra in C2, si sarebbe trattenuto la battuta in gola perché l'ironia non sarebbe stata colta: sarebbe stata letta come una legittima richiesta di informazioni su una squadra avversaria). I pacchi di sale gettati in campo dagli spalti contro il malocchio. E un tipo che aveva come riservato da una convenzione universalmente condivisa il punto delle gradinate dove la balaustra faceva angolo: alto robusto e baffuto, veniva allo stadio con l'ombrello con qualsiasi clima, appoggiava la panza sulla ringhiera, e al fischio iniziale urlava atteso da tutti "arbitru curnutu, a tìa e a cu non t'u dici" a cui il coro generale rispondeva ovviamente "curnuuuutu" ed era quello il vero segnale di avvio. Dicevo che l'ultimo campionato che seguii fu appunto quello dell'81: la Reggina con Franco Scoglio in panchina era tipo seconda o terza in classifica a fine girone di andata, quando il Professore fu esonerato e la squadra in mano al suo vice Sbano retrocesse dalla C1. Dopo tantissimi anni, tornai allo stadio per una circostanza non piacevole: mio padre fu ricoverato e mi "inviò" col suo abbonamento in curva ad assistere a un noioso pareggio; la Reggina allenata da Bolchi in quel 1999 andò in serie A pareggiando le ultime tre partite in casa e vincendo le ultime tre in trasferta, la terza a Torino. Quel giorno mio padre era in rianimazione, dopo una vita di tifo i festeggiamenti per strada li sentiva solo come eco lontanissima. Ma momentaneamente si riprese, e io che ai tempi vivevo in trentino gli feci ancora da "inviato al ritiro", della prima Reggina da serie A, in Val Gardena. Morì l'8 agosto, e il 29 dello stesso mese festeggiai il mio compleanno con l'esordio in massima serie della sua squadra del cuore. Che nemmeno rispose, a una lettera di noi figli con cui chiedevamo un breve saluto "a Pepè" dallo speaker prima del match.
Trent'anni prima, papà aveva lavorato a Milano, proprio nel periodo in cui i bambini si scelgono la squadra del cuore. Ci giocava un certo Gianni Rivera, che ancora segnava tanto (Vincenzina e la fabbrica Jannacci la scrisse qualche anno dopo...) e faceva segnare ancora di più: chi ha visto i suoi lanci millimetrici sulla testa di Pierino Prati, ad esempio, non li ha più dimenticati. Divenni milanista, un'altra cosa che mi avrebbe tolto dopo Silvio Berlusconi: fui tra i pochi che pensò subito che il suo modo di intendere il calcio era foriero di rovina, e non solo per il calcio stesso, e rinnegai i rossoneri praticamente in contemporanea al loro benservito a Rivera. Per questo, forse, nel '99 non mi persi l'occasione di andare da Trento a Milano a vedere Milan-Reggina 2-2, con i biglietti della curva rossonera, ed esultare al gol amaranto vedendo con sorpresa tutto lo stadio, anche quelli in sciarpa rossonera accanto a noi, esultare con noi: Milano sarà anche vicino l'Europa, ma è anche forse la città più grande della Calabria per numero di residenti. Nella Reggina di allora giocava in prestito dall'Inter un certo Pirlo, e sentire oggi Mazzola in un'intervista televisiva rispondere "Pirlo, se giocasse qualche metro più avanti" alla domanda su chi dei giocatori odierni somigliasse a Rivera, dopo aver accostato a se stesso Totti, in qualche modo chiude il cerchio attorno a questo atipico post intimistico-calciofilo.
Si perché come spesso capita in questi casi, ad odiare il calcio per quello che è diventato sono proprio i veri amanti dello stesso. Questo sport deve il suo successo mondiale al fatto che si può giocare senza un soldo (e chi ha la mia età l'ha vista quando non praticata la pallastrada prima che ne scrivesse meravigliosamente Benni, e per fortuna nel mondo si gioca ancora anche se da noi nelle vie prevalgono le auto e nei cortili i regolamenti condominiali antinfanzia in sinergia col calo delle nascite e la crescita della paura), e che lo può giocare chiunque, anche uno leggerino come Mazzola, anche uno dalle spalle piccole come Rivera, anche un piccoletto come Messi, anche uno tendente al tracagnotto come Maradona, anche uno con le ginocchia di vetro come Baggio. O meglio, lo poteva. Perché, caro Mazzola, se Totti non fosse stato robusto il doppio di te non avrebbe fatto la carriera che ha fatto, nel calcio odierno. Un calcio che dal "sacchismo" in poi si è consentito diventasse esclusiva dei palestrati, degli scorretti, dei dopati, che vengono selezionati fin da piccoli tra i più potenti e furbi, e chissenefrega se non hanno i piedi buoni.
La verità è che oggi tu e Rivera in una qualsiasi scuola calcio sareste invitati a cambiare aria, altro che titolari minorenni in serie A o in nazionale. Tanto a quelli che tengono su la baracca comprando abbonamenti alla TV satellitare, evidentemente, poco importa se quello che vedono è il vero calcio o meno, forse non l'hanno mai visto, e quello che conta è avere qualcosa da guardare nello schermo per scordarsi della vita intanto che passa. E fa niente se magari non va più nessuno allo stadio...
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