giovedì 21 dicembre 2017

10. PRIMO: NON BERE - LENNONIANA

In attesa di Sushi Marina, continua la pubblicazione dei racconti di Chi c'è c'è, raccolti da un "geestre" direttamente dalle menti di 21 terrestri in animazione sospesa su un astronave perduta nel cosmo, forse ultima testimonianza del nostro pianeta ormai distrutto. Qualcuno ricorderà che alcuni dei racconti li ho "ricavati" partendo da testi di mie canzoni quando ho dovuto abbandonare il sogno di cantarle: qui pubblico prima il racconto, il sogno di un'astronauta egiziana, poi la canzone da cui è tratto, pensata come una ballata veloce ma musicabile a piacere da chi mi chiedesse di poter usare il testo...

10. PRIMO: NON BERE

Quando ero piccola, alla classica ed insulsa domanda “cosa vuoi fare da grande?” io rispondevo sempre “la dottoressa”, come tanti altri bambini, peraltro. Ma io volevo davvero fare il medico, ed avrei potuto, sul serio: mio padre era un ricco commerciante del Cairo, e poteva permettersi di farmi studiare. Accettò di pagarmi l’università in Inghilterra, ma mi orientò verso ingegneria aerospaziale, l’altra mia grande passione, perché -disse- “sarai una delle poche con quel titolo, in Egitto, ed essere rari è sempre bene”. Aveva ragione, anche troppo: divenni astronauta, il primo del mio paese a volare sullo Shuttle verso la costruenda stazione spaziale geostazionaria. Ma nel profondo del mio cuore io sarò sempre un medico mancato, più che un astronauta realizzato.
Mohammed veniva da un villaggio ai margini del deserto. Un posto che era rimasto molto povero nonostante la buona ripresa che il nostro paese aveva visto nell’ultimo decennio, in tono minore rispetto ad altri paesi nordafricani ma comunque buona, sì, direi. Anche suo padre era riuscito, con molti sacrifici, a farlo studiare. Ovviamente in Europa aveva dovuto arrangiarsi con dei lavoretti, ma ce l’aveva fatta: era medico. Medico!
Ci conoscemmo all’università, e diventammo subito amici, forse perché era chiaro che lui era diverso da tutti gli altri nostri connazionali che incontrai lì, forse perché lui era quello che avrei voluto essere io. E probabilmente questo fu anche il motivo per cui la nostra amicizia non finì, come tante, con la fine degli studi. Continuai a cercarlo, a chiedere notizie, a seguirne la carriera. Era molto capace. Si specializzò in cardiologia, entrò in ospedale, e vi fece carriera facilmente. Cominciò a mandare soldi a casa, invece che le solite lettere piene di nostalgia. Il padre gli aveva proibito di tornare, neanche per le vacanze. Non era solo per una questione di soldi, quello era semmai il motivo per cui non era mai venuto lui su ad Eton, ma perché lo conosceva bene, suo figlio.
Mohammed era cresciuto per strada, amava visceralmente ogni cantuccio del suo paesino d’origine, e ogni mendicante, ogni ragazzino, ogni vecchio che avesse calcato quella polvere. E non riusciva a digerire il grado di povertà e sottosviluppo cui quelle zone sembravano condannate. La mortalità infantile era altissima, le pratiche di contraccezione l’Egitto le aveva accettate ufficialmente, visto che erano la contropartita alla remissione graduale del debito internazionale, ma non aveva mai fatto realmente nulla per capillarizzarle, sia per tenersi buoni i partiti integralisti (che controllavano la “provincia”), sia perché comunque era difficile per chiunque avere dati reali su quei posti sperduti.
Inoltre vi era ancora diffusissima l’infibulazione, una pratica barbara legata alle peggiori tradizioni religiose nordafricane e non solo, consistente nell’asportare alle ragazzine la clitoride e talvolta anche le grandi labbra, la cui ratio sta nell’impedire loro di vivere una sessualità piena, da donne. Il controllo sociale, l’ordine: la preoccupazione dei vigliacchi di tutte le epoche. La riduzione della complessità per sedare la propria paura di vivere: è questa l’esigenza profonda di ogni razzista. Rendere le donne incapaci di provare piacere rende irrilevante la loro scelta in amore, le rende sottomesse per sempre. In più, se non bastasse tutto questo e quant’altro si può dire sulla cosa in sé, essendo la pratica dichiarata illegale e nello stesso tempo tollerata, non poteva giustamente essere praticata nelle strutture pubbliche, e veniva regolarmente eseguita in ambulatori fatiscenti da medici privi di scrupoli, se non addirittura in casa con mezzi di fortuna, con conseguente gran numero di infezioni, talvolta dall’esito mortale.
Troppe bambine mutilate che non saranno mai pienamente donne, troppi bambini nati, troppi denutriti, troppi malati, troppi morti, perché lui non ci pensasse di continuo. Dopo una decina d’anni aveva messo abbastanza soldi da parte, tra risparmi e contributi alla causa, per realizzare quello che aveva in mente da sempre. Un ospedale, con tanto di consultorio, ai margini del deserto, vicino casa sua. Quando comunicò le sue intenzioni al padre, questi dapprima tentò di convincerlo con le buone a desistere, poi gli intimò di non farsi in ogni caso vedere a casa che non gli avrebbe rivolto la parola. Non mantenne il punto, se lo mangiarono tutti di baci e abbracci non a pena si affacciò sulla soglia. A posteriori, avrebbe fatto meglio ad essere più convincente. Non che sarebbe servito, comunque, con quel testone!
Ebbe tanto facilmente i permessi e il terreno, quanto difficilmente trovò colleghi disposti a seguirlo nell’avventura; tanto facilmente riuscì a tirare su la struttura, quanto presto arrivarono i primi contrasti con l’autorità islamica locale.
Eppure fu subito pieno, l’ospedale, per quanto bisogno c’era di una struttura del genere in quel posto! Mohammed lavorava venti ore al giorno, e riusciva ad aiutare un numero di persone tale che sembrava ne lavorasse quaranta. Ma non era lui ad aiutare la gente, era la gente che aiutava lui. Semplicemente, ci sono individui che riescono a convivere col pensiero che esistano persone al mondo più sfortunate che avrebbero bisogno di loro, e altri che non ci riescono; tra questi ultimi, ci sono quelli che rimuovono quel pensiero dentro di se, e quelli che lo esorcizzano facendo tutto quello che possono, se non di più. Questi ultimi sono i più grandi e meravigliosi egoisti sulla faccia della terra: i missionari, le suore, o i medici come lui.
Solo che i missionari, bene o male, sono dei religiosi: lui addirittura era un laico, non lo si poteva tollerare minimamente. Cominciarono con piccoli sabotaggi. Poi arrivarono le minacce, prima a lui, poi ai pazienti che gli si rivolgevano. Quando sentì l’esplosione capì subito che era il suo ospedale ad essere saltato in aria. Col suo cammello giunse col cuore della notte giusto alla distanza necessaria per accertarsene. Era tutto distrutto, probabilmente c’erano molti morti. Si precipitò tra le macerie, fece tutto quello che poté per salvare delle vite, poi quando già lo tiravano via dicendogli che non c’era più nulla da fare, che erano ventiquattr’ore che scavava e che comunque non c’erano più dispersi, che sarebbe stato meglio se fosse andato a riposare un po’, allora girò su se stesso, rimontò sul cammello e sparì.
Lo ritrovarono morto nel deserto una settimana dopo. Il padre mi telefonò perché gli avevano trovato addosso una lettera indirizzata a me. Mi arrivò dopo qualche giorno. Era apparentemente frutto del delirio di un uomo smarritosi senza viveri né acqua nel deserto, ma non per me che lo conoscevo bene. Non era neanche un sogno, era la riflessione lucida di un uomo morente, era il messaggio per l’amica di studi con cui condivideva i valori. Significava: abbiamo ragione noi, vai avanti. Era un racconto, una parabola.
Diceva che dopo qualche ora in groppa al cammello cominciò a girargli la testa, forse per la stanchezza, finché non cadde di sella picchiando col capo in terra e perdendo i sensi. Non so quanto tempo dopo rinvenne, ma si ritrovò circondato da tre viandanti che si prodigavano a rinfrescarlo bagnandogli il viso e i polsi, facendogli ombra e sventolandolo. Quando si accorsero che aveva aperto gli occhi sfoderarono ognuno una borraccia e fecero per offrirgliela, contemporaneamente, così che quasi le picchiarono una con l’altra. Le ritrassero guardandosi in cagnesco, e solo allora Mohammed cominciò a vederli bene. Erano simili per aspetto fisico e corporatura, ma vestiti tutt’affatto diversamente: non fosse perché si trovava nel deserto avrebbe creduto si trattasse di un mullah, un prete cattolico, e un rabbino. No, non era possibile, forse era sconvolto dalla sete; meglio chiedere da bere ai tre strani viandanti. I tre si guardarono con odio, si alzarono in piedi, si tolsero i mantelli e... sguainarono le sciabole! Tre luminosissime sciabole di acciaio, argento e oro, ...e tre coltelli rossi nell’altra mano!
In un attimo, l’islamico fu sull’ebreo, e con una finta gli conficcò l’arma nel fianco sinistro, ma troppo profondamente, cosicché restò sul colpo quell’attimo in più che bastò al cristiano per pugnalarlo alla schiena. Poi il prete si avvicinò a Mohammed, dicendogli: “guarda, sono svaniti, era tutta una scena allegorica mostratati da Dio per farti capire dove sta il Giusto; tu hai fatto del bene in vita, ora giustamente l’unico, il vero Dio ti vuole accogliere nel suo seno, orientare finalmente nel senso giusto la tua ansia d’amore; ecco, bevi...”.
“Ma io, come sai, cara Fatma, non berrò mai di quest’acqua.”, queste le ultime parole scritte dal mio amico. Me lo immagino, con le secche labbra serrate, sufficientemente per non fare entrare l’acqua, ma purtroppo non abbastanza da non fare uscire l’ultimo respiro.
...
LENNONIANA

Quando Mohammed cadde dalla sella,
batté la testa e tutto scomparì;
non stava ritornando da una guerra,
ma dalla gente che non lo capì.
Aveva messo in piedi quattro tende
per fare entrare chi credeva in lui:
sembrava che curasse tanta gente,
ma era la gente che curava lui.

E ha fatto bene il padre
a dirgli "figlio non restare qua,
vattene su in Europa,
studia, fatti dottore e resta là"...

Mohammed ascoltò dapprima il padre,
ma poi non resistette e tornò giù:
voleva troppo bene alla sua gente
e alla terra della sua gioventù;
con quelle quattro tende e pochi soldi
faceva ciò che per lui era dovere,
ma la città ai confini del deserto
capiva solo i calci nel sedere.

E ha fatto bene il padre
a dirgli "figlio non restare qua,
vattene su in Europa,
studia, fatti dottore e resta là"...

Così dopo tre giorni di deserto,
in cui sentiva solo il vento e il nulla,
lo colpirono sole, nulla e vento,
e Mohammed cadde esausto dalla sella;
passarono di la tre viandanti,
tre, come le tre parche del destino,
congiunti da chissà quali accidenti:
un imam, un cattolico e un rabbino;

i tre lo videro e si avvicinarono,
gli diedero dell’acqua sulla faccia,
ma ognuno aveva una sacca per bere:
doveva sceglier lui quale borraccia.
L’arabo li guardò stupito e attento
e disse che non c’era differenza,
allora i tre si guardarono negli occhi,
e c’era odio più che diffidenza,

tirarono da sotto i tre mantelli
tre sciabole di luce argento e oro,
con l’altra mano presero i coltelli,
rossi come strumenti di lavoro;
l’islamico barbuto, con sveltezza,
con una finta sbalordì il rabbino,
ma, mentre gli premeva nelle carni,
la schiena porse incauto al suo vicino.

Si avvicinò a Mohammed il vincitore
e disse “io non ho ucciso, è stato dio
che ti ha mostrato queste false scene
per mostrarti che il giusto sono io:
tu hai cercato di fare il bene in vita,
ignaro di esser sulla via sbagliata,
ma dio accoglie ogni anima nel seno,
non chiede di che religione è stata,

tu non potevi sapere come fare
per mettere a buon frutto la bontà,
e invece di cercare nel tuo cuore
tentavi di cambiar la società”,
allora fece per porgergli l’acqua,
ma Mohammed serrò il labbro e poi spirò,
pensando “ho fatto il bene senza dio
e buono e senza dio io morirò”

E ha fatto bene il padre
a dirgli "figlio non restare qua,
vattene su in Europa,
studia, fatti dottore e resta là"...

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