domenica 12 luglio 2020

50 ANNI FA

Se non sbaglio è il rione Marconi - bisognerebbe chiedere a Teo
Teocoli che ci è cresciuto - ma se no è un'altro di quei quartieri di
"baracche a cemento", casupole in muratura dove molti riggitani
hanno vissuto per quasi cent'anni dopo il terremoto del 1908...
Questo breve post è uno dei primi di questo blog, che aveva aperto da pochi giorni quando scoccò il 38° anniversario dalla Rivolta di Reggio. Oggi siamo al 50°, e la cifra tonda richiede più spazio.
Ho sentito al tg5, con mia grande sorpresa, una lettura dei fatti non lontana dalla realtà, quindi molto lontana da quella riportata a pappagallo per decenni da tutto il mainstream. Sarà proprio  il tempo trascorso, a consentire la cosa, ma è la prima volta che sento in TV qualcuno dire che l'etichetta di rivolta fascista fu posticcia, essendo i moti scoppiati all'inizio con una forte componente anarchica di sinistra e condivisi poi da tutta la popolazione o quasi, che aveva intuito che il capoluogo sarebbe stato probabilmente l'ultimo treno per una qualche forma di sviluppo occupazionale, perso il quale la città sarebbe stata al palo per decenni, come infatti è stato. Il servizio, visto nella rubrica "La storia" qualche giorno fa, ma poi ripassato in sintesi direttamente nel TG, lo trovate forse nelle teche web di Mediaset, sennò fidatevi.
All'epoca dei fatti avevo 7 anni, le donne a noi bambini ci tenevano prudentemente a casa in quei giorni d'estate; mio padre in quanto macchinista tornava spesso a casa sporco, con le mani proprio nere, per cui non so se anche lui sia stato o meno sulle barricate, ma ricordo benissimo la sua delusione per quel ceto politico del cosiddetto arco costituzionale, per cui lui pure aveva sempre votato, che stava compatto voltando le spalle alla città, inducendolo come a molti altri a diventare missino. Comunque, tornava a casa con delle copie di giornali semiartigianali che sostenevano la rivolta, e io mi divertivo a riprodurli su dei notes, chissà forse fu allora che cominciai a pensare che da grande volevo fare il giornalista - e meno male che non ci sono riuscito, altrimenti oggi starei pure io a scrivere menzogne per paura di perdere il pane.
Più avanti, diventato "comunista", presi le distanze da quella sua lettura dei fatti, e mi rifiutai di leggere quei libri e quelle raccolte di articoli e fotografie che gelosamente conservava. Ma poi mi capitò di collaborare con Parallelo 38, la rivista di quel Giuseppe Reale che era stato tra i pochi del suo partito a sostenere Reggio ai tempi, e poi ancora mi capitò tra le mani un libro di Fabio Cuzzola che mi diede da riflettere. Oggi ho quei suoi libri, tra l'altro proprio edizioni Parallelo 38, in libreria.
Certo, l'opportunismo della destra era stato almeno pari allo sciagurato tradimento del centro-sinistra (anche quello paradigmatico di quello che verrà. ai danni di tutta Italia). E si, il magma golpista che in quegli anni aspirava per l'Italia a una deriva greca (mi accorgo scrivendo che sinistramente la frase potrebbe descrivere l'attualità, anche se la declinazione è diversa) sicuramente fece di tutto per approfittarne. Ma la rivolta era e restò per tutta la sua durata sinceramente popolare, decisamente trasversale, e sicuramente giusta: perdere inopinatamente il capoluogo, che gli spettava per Storia ma anche secondo ogni manuale di geografica politica ed economica, sarebbe stato un danno economico da cui la città non si sarebbe ripresa per decenni. Un "pennacchio", invece, erano le promesse da marinaio con cui furono placati i cittadini: industrializzazioni fuori tempo massimo e infatti mai realizzate, se non nella misura in cui hanno consentito speculazioni mafiose con tanto di rovina del territorio.
Quei cittadini, gli unici del mondo occidentale nel dopoguerra ad essere affrontati militarmente, meritano di essere ricordati con orgoglio. A prescindere da chi si approfittò di loro per fare carriera. Avercene, oggi, di gente così fiera e consapevole delle manovre politiche che si fanno sulla sua testa: il ducetto che nei mesi scorsi ci ha rovinati non se lo sognerebbe nemmeno, di chiedere altri mesi di mani libere per poter completare l'opera.
...
Mi ero ripromesso di scrivere, per questo anniversario, solo una breve introduzione ad uno stralcio del mio Sushi Marina (magari vi viene voglia di leggerlo tutto, lo trovate qui - ma anche qui, qui e qui, e sennò sul sito di Leonida edizioni), in parte lo stesso scelto dall'editore per la quarta di copertina, perché in esso ho messo in bocca a uno dei personaggi, il padre di uno dei due ragazzi protagonisti, più o meno quello che penso io, con quel quid in più che la forma letteraria consente

E così Nino attaccò.
Raccontò di una città povera ma bella, dove i ragazzi giocavano per le strade, pulite perché gli spazzini le spazzavano (e non c'erano cassonetti perché per i rifiuti passavano porta a porta), interrotti più spesso dagli ambulanti che dalle auto. Giocavano a pallone, si gettavano gli uni sugli altri a scarricacanali, gareggiavano coi tappi in piste di gesso lunghe decine di metri, si lanciavano senza paura lungo discese infinite su tavole di legno che andavano su cuscinetti a sfera sballonzolando sui basalti (l'asfalto? quale asfalto?) senza freni. Il dopoguerra, in Italia, alla fin fine era durato 25 anni, durante i quali gli americani avranno avuto i loro buoni motivi per garantirci una ricchezza crescente. Certo, gli italiani erano stati molto bravi a indirizzare per il meglio quel flusso di aiuti. Ma tra loro i più rapaci cominciarono allora, ad organizzarsi nella casta autoreferenziale che conosciamo oggi: fu la fine dell'accelerazione postbellica che li rese più determinati a farlo. Si avvio il regionalismo, previsto dalla Costituzione e rimasto bellamente inattuato fino ad allora. È li che va cercato l'inizio del problema conti pubblici, mentre questi straparlano di federalismo, abolizione delle province e privatizzazioni. Le regioni fino al 70 c'erano solo sulle cartine a scuola, ciascuna col suo bel colore, la città capoluogo segnata in maiuscolo, grassetto, sottolineato, insomma evidenziata. In quelle cartine, il capoluogo calabrese era Reggio. E come poteva essere diversamente? Era di gran lunga la più antica delle città, la più grande, quella con l'economia più avanzata, e anche quella meglio collegata al resto del Paese e della regione. E in geografia politica ed economica, si sa, il centro non va individuato con la geometria, ma analizzando collegamenti e flussi economici, giusto? Ebbene, in tutte le regioni il capoluogo amministrativo restò quello segnato in quelle cartine. In Calabria e in Abruzzo no. Reggini e aquilani scesero in strada a protestare. Agli aquilani fu dato ragione, e forse avevano torto: Pescara aveva più carte in regola, ma vinse la Storia. Ai reggini fu dato torto, e avevano ragione sia per storia che per geografia. Avevano solo politici peggiori. Allora i reggini si incazzarono, tutti assieme forse per la prima e ultima volta della loro storia. Per rabbonirli e dividerli, gli venne detto che il capoluogo era in fondo solo un "pennacchio", che la città più grande e importante restava tale, anche perché era stato deciso che la sua provincia sarebbe stata un polo industriale, mentre quella di Cosenza sarebbe stata quello accademico e quella di Catanzaro solo quello politico. Ma i reggini non ci credettero. Non so quanti consapevolmente, ma tutti in cuor loro, sapevano che nei tempi a venire in Italia non ci sarebbe stato posto per nessun nuovo polo industriale e anzi molti allora fiorenti avrebbero chiuso, e che anche di tutto questo studiare per diventare tutti "ufficiali senza truppa" si sarebbe perso il senso, mentre invece anche in tempi di vacche magre chi amministra amminestra e anzi è proprio quando le cose vanno peggiorando che è importante stare dalle sue parti. Protestarono, e quando la risposta fu di repressione, sulle barricate ci andarono tutti, e quelli che non potevano sostenevano i rivoltosi nei fatti e nei pensieri, anche vecchi e bambini. E quando l'arco costituzionale fu unanime nella loro condanna, si legarono a quelli che non si unirono al coro, anche se li chiamavano fascisti. Ma chi c'era sa che all'inizio la rivolta fu persino comunista e anarchica, e i missini furono solo bravi ad approfittare dello spazio lasciato vuoto da tutti gli altri, e poi si, lo usarono pure per coprire altro. 
  • ...ma dovreste leggervi "quattro anarchici del sud" di Fabio Cuzzola, per capire bene.
  • .. e quindi quello che raccontano della rivolta di Reggio sono tutte fesserie, papà?
  • Abbastanza.
  • ...allura avi rraggiuni 'u zi Rroccu!
  • 'u zi Rroccu era fascista puru prima d'a rivolta 'i Rriggiu. A iddhu nci piacìu sempri mi jasa i mani, 'i quand'erimu figghioleddhi... Assulu futtiri, 'o zi Rroccu! C'a scusa d'a rivolta, eppi 'u sò mumentu 'i gloria, e avi quarantacinc'anni chi campa 'i chiddu...
  • Scusate Don Nino, ma allora qual'è la verità?
  • La verità, Paolo bello? La verità la scrive sempre chi vince, e noi allora abbiamo perso. E per forza: ci mandarono i carri armati contro, io ero piccolo ma me li ricordo! In occidente non è mai capitato nel dopoguerra, né prima né dopo. Sulu a nui. Due anni prima i russi lo avevano fatto a Praga, 14 anni prima a Budapest. Venti anni dopo lo fecero i cinesi a Tien-an-men. Eppuru, nt'a storia chi vi cuntanu, i bboni su sempri chiddi nterra, e i mali chiddi supra i carriarmati, menu chi a Rriggiu... A Rriggiu vi cuntanu chi i mali erumu nui... Insomma, non fu per coincidenza, se la città nei decenni a venire subi una progressiva marginalizzazione. Le industrie ovviamente non nacquero mai, e che sarebbe stato così lo capirono tutti già con la crisi del petrolio del 73. Ma i cantieri continuarono per decenni, quando c'è da mangiare fino a che si può si fa.

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