martedì 21 ottobre 2008

PUBBLICA ISTRUZIONE

Il Ministero adesso si chiama "dell'Istruzione dell'Università e della Ricerca", ma è talmente inveterato l'uso del vecchio nome che esso rimane nel nome e nella testata del sito ufficiale del dicastero: Pubblica.istruzione.it.
Il motivo è presto detto: l'istruzione pubblica uguale per tutti è una conquista della civiltà, un diritto sancito a livello costituzionale, nonchè uno dei motori di una mobilità verticale senza la quale ogni società è destinata a riavvolgersi su se stessa e spegnersi. Queste tre affermazioni, che oggi possono addirittura sembrare forti, sono patrimonio della nostra cultura nazionale da non più che qualche decennio. La scuola che ritroviamo in Collodi, ad esempio, o in De Amicis, è ancora fortemente classista, strumento di una riproduzione sociale il più possibile impermeabile: il figlio del medico farà il medico, chi ha genitori laureati o diplomati in casa andrà avanti, gli altri se va bene imparano "a leggere scrivere e far di conto" e poi via in fabbrica i più fortunati.
Il regime fascista, pur ponendosi il problema dell'alfabetizzazione di base in quanto prodotto consapevole di una società di massa, non incise su questo modello se non inserendovi la componente clientelar-politica (mobilità verticale riservata e proporzionale al grado di appartenenza all'apparato) e quella cattolico-concordataria. Ed è in quegli anni che nasce la riforma Gentile, che non è mai stata davvero intaccata nella struttura e alla cui ortodossia sembrano ispirarsi le controriforme Gelmini, il cui vero scopo però è recuperare i fondi necessari a coprire il buco della Bad company dell'Alitalia.
Nel dopoguerra la scuola fu solo una delle tante facce della tardiva applicazione del dettato costituzionale. Ancora negli anni sessanta era rigidamente "deamicisiana", tanto che gli attacchi da sinistra furono superati in eco e conseguenze da quelli di certi ambienti del cristianesimo sociale, Don Milani in testa. E vennero la scuola media unificata e il 68, il sei politico e l'università di massa. Un parcheggio per tutti che in teoria è democratico in pratica sposta altrove la selezione, e la riproduzione sociale è garantita dagli atenei di lusso, gli studi all'estero, il baronato nelle docenze, eccetera. E giù fino alle scuole dell'obbligo private, anche lì divise tra costose e di qualità, e diplomifici a pagamento per poveracci senza voglia di studiare. Con in più negli ultimi anni la tendenza bipartisan a favorire un'incostituzionale (articolo 33: Enti e privati hanno il diritto di istituire scuole ed istituti di educazione, senza oneri per lo Stato.) finanziamento pubblico, motivata in fondo dalla solita sciagurata acquiescenza alla Chiesa cattolica di tutta la classe politica nazionale, spesso al di là e anticipando i desiderata ecclesiastici stessi.
Tra i provvedimenti più sciagurati del pacchetto Gelmini, la norma che prevede che i 60 mila cervelli nostrani che lavorano come precari presso università ed enti di ricerca o vengono stabilizzati entro il 30 giugno 2009 o ciccia: i più coraggiosi bravi e fortunati andranno ad ingrossare le già impressionanti fila di ragazzi italiani laureati benissimo in discipline difficilissime che se vogliono lavorare su quello che hanno studiato devono espatriare. Ciiascuno di noi ne conosce alcuni, se ci pensa, e il fenomeno è una vera e propria pietra tombale sul sistema Italia nel suo complesso, incapace da decenni di produrre innovazione e ricerca e quindi di pensare il proprio futuro.
Accanto a questo, una vera e propria privatizzazione strisciante delle università, costrette da un impressionante e progressivo taglio di fondi da qui al 2013 che le costringerà per sopravvivere a cercare finanziatori privati e/o a trasformarsi in Fondazioni. E il ritorno ad un'istruzione superiore riservata a chi se la può permettere sarà completo.
Eppure la quadratura del cerchio c'è, e consiste in una delle poche cose invidiabili del modello anglosassone, che forse non a caso è una delle poche che non abbiamo cercato di imitare negli ultimi decenni sia da destra che da sinistra: l'abolizione degli albi professionali e soprattutto del valore legale dei titoli di studio. Attenzione: trattasi di vecchia posizione liberale, non comunista. E di questione dibattuta ai più alti livelli, da Einaudi a Giavazzi, passando per Tullio De Mauro. Googleate pure, c'è un mare di discussioni. Io provo a sintetizzare, a rischio di semplificazione eccessiva.
Se il pezzo di carta non serve più in sé, alla fine della scuola dell'obbligo ricevi anzichè un diploma un "patentino delle competenze" che riporta le cose che hai seguito meglio e in cui sei andato più avanti. Con quello, visto che il pezzo di carta non serve più in sé, puoi cercarti un lavoro (mostrando quello che sai fare, e nessuno che le sa fare peggio di te ti passerà avanti per il solo fatto di avere il pezzo di carta), magari aiutato dal fatto che una scuola che non rilascia pezzi di carta potrebbe più facilmente adattare i propri programmi alle esigenze materiali di chi ha voglia e/o esigenza di lavorare presto. Oppure, puoi iscriverti a un'università, ma non a qualsiasi, a quelle che avendo visto il tuo patentino ti accettano. Se la laurea non ha valore legale, all'università ci si iscrive solo chi ha davvero voglia di studiare, sarà accettato solo chi ha potenzialità nelle materie che vorrebbe studiare, e in un colpo solo avremmo atenei decongestionati senza numeri chiusi e altri palliativi, quindi atenei in grado di seguire meglio i propri pochi e motivati studenti, quindi laureati davvero bravi che non avranno bisogno del pezzo di carta per imporsi nel mercato del lavoro del proprio campo. Per alcune professioni di particolare rilevanza sociale (medico, ingegnere, magistrato), l'albo professionale potrebbe restare come ente certificatore di qualità della formazione (non più come esosa forca caudina corporativista aperta ai figli di e agli amici di e stretta per tutti gli altri), per tutte le altre via, aboliti, azzerati. Fai una cosa se la sai fare.
Anche senza fare calcoli precisi, si può star certi che la riforma consentirebbe molti più risparmi dell'accozzaglia attuale, inoltre rivoltando come un pedalino un sistema incartapecorito, e superando ogni esigenza di privatizzazione e altri surrogati a una istruzione pubblica da decenni in picchiata per qualità e che così invece potrebbe risalire nettamente. Le risorse reperite, magari non utilizzate per buchi altrui, potrebbero essere sufficienti a riqualificare e pagare meglio il corpo docente, e rifondare tutto il sistema ricerca e sviluppo fermando così la fuga dei cervelli.
Detto così sembra semplicistico, ma forse è solo semplice.

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