La minaccia è diretta ed esplicita: se Fini osa fare il suo dovere di Presidente della Camera, che gli impone di anteporre la discussione della manovra che è un decreto legge a quella del bavaglio che è un disegno di legge, si va al voto. Cosa che peraltro non è nei poteri del Presidente del Consiglio decidere, essendo tra le prerogative del Capo dello Stato indire nuove elezioni, in caso di dimissioni del capo del governo, e solo dopo aver consultato tutti i capi dei gruppi parlamentari per valutare se esista o meno la possibilità di affidare un mandato almeno esplorativo a un nuovo premier - ma questi sono dettagli, nella visione già perfettamente dittatoriale che ha della politica Silvio I da Arcore, e da sempre.
Il punto è che Berlusconi può agitare lo spauracchio del voto solo per un motivo: sa che se si votasse oggi rivincerebbe, per la totale assenza di una opposizione minimamente credibile, e si toglierebbe di mezzo i finiani. Viene dunque spontaneo chiedersi: perchè? Com'è possibile che con tutto il malessere che c'è in giro - la gente che non arriva a fine mese, i ragazzi quasi tutti senza un lavoro decente, la manovra taglia stipendi e allontana pensioni che arriva nel nome della crisi dopo due anni di negazione sfrontata della crisi all'insegna dell'ottimismo a reti unificate - costui possa permettersi una tale arroganza sul tavolo da poker della politica? Sicuramente la sventatezza politica di Veltroni D'Alema e company ha la sua parte, come pure il controllo della televisione che tanta parte ha nella creazione sia direttamente del consenso politico che del sistema di valori come veicolo indiretto di consenso, ma non basta. Anche perchè anche dove l'anomalia berlusconiana non opera, non è che le contromisure alla crisi siano diverse da quelle proposte da noi, vedi Grecia Spagna e Germania. No, mi pare che occorra uno sforzo collettivo, spremersi le meningi fino a recuperare qualcosa dagli studi di sociologia economica e politica: non mi tiro indietro, faccio la mia (piccolissima) parte sperando di essere parte agente di una riflessione virale che diventi pandemica.
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Partiamo dai fatti: il potere d'acquisto procapite in Europa è tornato al livello di dieci anni fa, in Italia sotto. A me personalmente sembra sia ancora meno, ma anche limitandosi alle statistiche ufficiali viene da chiedersi: come mai? Il fato è che la media in questi casi è come per i polli di trilussa, risulta uno a testa quando tu ne mangi due e io muoio di fame: la ricchezza, dopo trent'anni di neoliberismo, si è spostata drammaticamente in favore del decile più alto sia a livello mondiale, a danno del terzo e quarto mondo, sia all'interno delle nazioni cosiddette ricche, dove il dieci per cento dei più ricchi è oggi molto più distante dagli altri di quanto non lo fosse negli anni 80. Quindi, ecco che se la media è tornata al livello di dieci anni fa, il potere d'acquisto della fascia centrale della popolazione, anche non volendo parlare dei "nuovi poveri", è sicuramente più basso di allora. In Italia, come bene riporta qui Micromega, il fenomeno presenta una sua peculiarità: grazie all'evasione fiscale diffusa tollerata e anzi moralmente giustificata dalle parole stesse di chi dovrebbe per compito istituzionale combatterla, c'è una fetta di benessere che sfugge alle statistiche, e si rivela nella massa di orrendi SUV che girano per le nostre città: basterebbe mettere per strada la Guardia di Finanza, a fermare e identificare chi ne guida uno, e sottoporlo a verifica fiscale e patrimoniale approfondita, personale e delle società cui eventualmente partecipa, per dare una bella mano alle entrate erariali, credo...
Provocazioni a parte, com'è successo tutto questo? A quali cause dobbiamo risalire, se vogliamo individuare una cura efficace, e non un salasso controproducente come questa manovra, che ruba i soldi dalle tasche dei dipendenti dimenticando che questo non potrà che incidere sulla già depressa domanda interna? (Tra parentesi, un merito indiretto la manovra ce l'ha: svela il bluff del federalismo, perchè se tutti i governatori si lamentano e parlano come Formigoni di federalismo tradito, è evidente che lo stesso ha natura come sospettavamo di mera moltiplicazione dei centri di spesa, e magari davvero l'azione del governo centrale tendesse ad abortirlo nei fatti riportandolo allo status di slogan elettoralistico buono per tutti...)
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Carlo Marx era un economista classico convinto innanzitutto che il capitalismo fosse superiore ai modi di produzione precedenti, e solo a valle di ciò impegnato a denunciarne le contraddizioni insite. Prima tra tutte, quella tra libertà politica e schiavismo economico: gli schiavi erano proprietà dei loro padroni, come i servi della gleba dei feudatari, ma per ciò stesso era interesse dei loro proprietari preservarne la sussistenza per non rimetterci; gli operai invece vengono messi in condizione dalla rivoluzione industriale di sottoporsi volontariamente a uno schiavismo molto più potente, essendo spinti al sovrasfruttamento dall'impossibilità di sostenersi diversamente e dall'esistenza di quello che Marx chiamava "esercito industriale di riserva", uomini pronti a prendere il loro posto a condizioni peggiori. Fu da queste premesse che nacque il socialismo, e poi il comunismo. E' vero che Marx stesso mostra il suo limite nel dare valore di profezia al suo desiderio, che il proletariato rovesciasse il capitalismo instaurando finalmente il "modo di produzione perfetto", quello in cui non c'era finalmente più lo sfruttamento dell'uomo sull'uomo, ma è anche vero che lui immaginava che il processo potesse avere luogo solo dove il capitalismo era maturo, mentre invece il comunismo fu attuato in una società per larghi aspetti ancora feudale, dove quindi egli stesso si sarebbe aspettato che lo sfruttamento dell'uomo sull'uomo si limitasse a cambiare vestito, come infatti è successo. Ma la ragione vera per cui la previsione marxiana non si avverò è di tipo psicosociale, fuori dunque della portata dell'eclettico pensatore tedesco: da un lato il comunismo, come il cristianesimo, sarebbe un ottimo modello socioeconomico se gli uomini fossero di natura buoni ed altruisti, ma non tutti lo sono - dall'altro non solo gli operai leggono i libri di Marx ma anche i capitalisti, che magari li capiscono pure meglio. In altre parole, da un lato la sintassi del Potere era destinata a permanere anche in una società che si autodefinisse di "uguali", nascondendo con questa forma ideologica le disuguaglianze di fatto allo stesso modo con cui la democrazia fa con la propria, di forma ideologica, dall'altro la dialettica tra capitalisti e movimenti socialisti e operaisti era destinata a innescare dinamiche di riforma del capitalismo che avrebbero portato alla sua sopravvivenza e al suo rafforzamento.
Negli anni 30 del secolo scorso, la situazione nei due sistemi contrapposti era la seguente: il comunismo staliniano garantiva a un popolo fin lì di servi condizioni materiali mai viste e una crescita economica mirabolante, il capitalismo occidentale precipitava in una crisi mondiale che uccise o affamò milioni di lavoratori e da cui uscì in due modi così diversi che si fecero guerra, il totalitarismo nazifascista e il keynesianesimo rooseveltiano.
I tre sistemi avevano in comune però molto più di quanto comunemente non si ammetta: in primis, una caterva di delitti più o meno nascosti (si, da entrambe le parti: non credete a chiunque vi dica "noi eravamo i buoni gli assassini erano gli altri"); in ultima analisi, una forte presenza dello Stato in economia.
Tra l'altro, fu esattamente questo e non la lettura del Capitale a portare le masse occidentali verso il socialismo: la constatazione delle migliori condizioni materiali di vita dei loro pari nell'altro regime. E fu esattamente la stessa cosa, in segno opposto, che causò decenni dopo il percorso inverso, prima di qua e dopo di là della cortina di ferro. Cosa era successo nel frattempo?
Che il capitalismo introiettò la lezione marxiana a modo suo: iniettandosi dosi omeopatiche crescenti di socialismo. Il fenomeno iniziò consapevolmente, ad opera di un economista anglosassone: John Maynard Keynes, le cui teorie portarono l'america prima e il resto dell'occidente poi fuori dalla crisi, con l'aiuto di una guerra mondiale. Keynes in pratica si accorse di una cosa semplice semplice: non era affatto detto che l'equilibrio che il sistema economico capitalista avrebbe sicuramente raggiunto se lasciato a se stesso necessariamente dovesse contemplare la sopravvivenza fisica di tutti gli agenti umani al suo interno. La sua lezione improntò le politiche economiche capitaliste per decenni, e il processo dialettico tra capitalisti e lavoratori non fu lineare nè senza scontri o vittime, ma di fatto il proletariato degli anni 60 in occidente non aveva quasi più nulla di quello studiato da Marx: orari di lavoro umani, ferie pagate, previdenza e assistenza per tutti, retribuzioni sufficienti a godersi il tempo libero e innescare una domanda interna che faceva da volano al capitalismo stesso, eccetera eccetera. Il welfare, in una parola. Il diritto a un lavoro dignitoso e sufficiente al sostentamento di corpo e anima, e ad una progettualità per se e i propri figli, sancito talvolta nelle costituzioni (come dalla nostra all'articolo 1) e in ogni caso nei fatti.
La crisi petrolifera degli anni 70 mostrò per la prima volta dov'era il limite del capitalismo, ma era troppo presto per capirlo: forse ce ne stiamo cominciando ad accorgere adesso, che un modello che resta in equilibrio solo a patto di crescere non può funzionare in un sistema a risorse limitate come il nostro pianeta. Di fatto, innescò una stagione di conflittualità in occidente che ebbe termine solo quando il sistema economico del socialismo reale, già minato - ripeto - dal mero confronto tra le condizioni materiali di vita ad esempio di qua e di là del Muro di Berlino, una volta stremato dalla corsa agli armamenti crollò, ingenerando ovunque l'errata convinzione che il capitalismo fosse vincente per sua natura, fosse la "fine della Storia", come si disse. Invece, il capitalismo aveva dato il meglio di se proprio nella misurazione dialettica col socialismo: finito quest'ultimo, sarebbe tornato presto ai propri stilemi naturali, finendo nuovamente per dare ragione al suo maggior critico.
Ed ecco, inaugurata dal binomio Thatcher/Reagan, la nuova stagione dell'ultraliberismo, cui dobbiamo la crisi attuale. Il tentativo di riforma del socialismo reale da parte di Gorbaciov fu aiutato a fallire manovrando ad arte la leva finanziaria: l'accumulazione originaria del capitale, altra categoria marxiana sempre valida, era agevolata dalla struttura industriale e mineraria comunista, ed ecco che i più furbi tra i funzionari di partito del regime precedente passano rapidamente a guidare il regime successivo, transitando per una fase dal confine labile con la criminalità, per usare un eufemismo. E in Cina fu lo stesso regime comunista a guidare la transizione al capitalismo, soffocando nel sangue di piazza Tien-an-men i sogni di chi ingenuamente credeva che ciò automaticamente comportasse la democratizzazione e la libera circolazione di idee. La verità è che il capitalismo lasciato a se stesso se ne frega altamente della forma ideologica del potere politico che serve a mantenerlo: questo diceva lo stesso Marx quando osservava che il colonialismo dimostrava che il capitale mostrava in madrepatria la sua faccia pulita ma non si preoccupava di mostrare quella vera altrove. Per cui, quando ci parlano dell'antidemocraticità di Castro o Ahmadinejad, e delle purghe staliniane, o dell'olocausto, mentre giustamente esecriamo non dimentichiamo per cortesia nemmeno gli indios decimati dai conquistadores, la tratta degli schiavi africani, i milioni di pellerosse sterminati nella conquista del west, giù fino al "genostillicidio" palestinese e alle vittime civili delle vili campagne di guerra per il petrolio in Afghanistan ed Iraq.
La globalizzazione, ovverossia il proseguimento del colonialismo con altra etichetta reso possibile dalla scomparsa del blocco comunista, non è altro che la forma del capitalismo trionfante su scala mondiale, quindi ad essa si applicano le leggi dell'economia, quindi quasi tutti gli sfaceli che ha combinato e combinerà erano e sono perfettamente prevedibili con le categorie marxiane. Se l'Europa a 10 avesse, come prometteva, utilizzato l'unione monetaria come testa di ponte per l'unione politica, passando per quella economica e fiscale, poteva costituire nell'universo globalizzato una stella con una massa critica sufficiente ad attrarre pianeti nel suo sistema ed esercitare un'influenza sulle altre stelle. Portarla a 25 mantenendo l'unione a solo livello di mercato e (neanche sempre) monetario non poteva che sottoporla come una fascia di pianetini all'influenza gravitazionale di entità più grosse e concrete: l'esplosione della UE è ciò cui assisteremo nei prossimi mesi se non vengono prese contromisure di segno opposto a quelle di sudditanza al "sole" FMI che stiamo vedendo nel caso Grecia.
Ma io dico: come potevamo pensare di entrare in concorrenza con realtà in cui il lavoro viene retribuito una frazione che da noi senza che si innescasse una dinamica di livellamento del costo del lavoro (i salari, ma anche previdenza assistenza e quant'altro) necessariamente verso il basso, vista anche l'entità delle economie in gioco? Se l'elettorato europeo fosse composto di gente davvero pensante, avrebbe votato (se ne avesse avuto la possibilità, perchè bisogna vedere se davvero non è tutto un teatrino, anche sta storia delle libere elezioni...) per chi avesse promesso che qualunque cosa sarebbe diventata l'Unione Europea, l'unico punto fermo sarebbero state le conquiste socioeconomiche dei propri lavoratori, il frutto cioè di quella fertile dialettica capitalismo/socialismo di cui parlavamo. Se mantenere quel punto significava non ampliarsi, non ci si ampliava, se significava protezionismo verso l'esterno, protezionismo doveva essere, fino a che i lavoratori cinesi non avessero raggiunto condizioni paragonabili ai lavoratori europei non si sarebbe dovuto consentire l'ingresso di prodotti cinesi, e in nessun caso doveva essere consentito a imprenditori UE di delocalizzare le proprie imprese: tenendo duro prima o poi sarebbe successo come è successo per i paesi di oltre cortina, il contagio avrebbe spinto ad un equilibrio verso l'alto (come dimostra il fatto che nonostante l'assenza di una strategia occidentale in tal senso, qualcosa anche tra i lavoratori cinesi comincia a muoversi lo stesso: è una questione di fisica dei sistemi, e ignorarla è un delitto). Continuando così, invece, non resta che rassegnarsi: la discesa delle nostre condizioni materiali non si fermerà prima del livellamento in basso all'interno del mercato unico mondiale del lavoro. Abbiamo cominciato con leggi per flessibilizzare, e ci hanno raccontato che così si restava competitivi, ma era una balla (come è una balla sta storia di Pomigliano): si sarà competitivi solo quando la nostra condizione sarà di paraschiavitù come quella dei salariati di tutto il mondo. E la strada verso quel punto di equilibrio, come diceva Marx, sarà costellata di vittime, e neanche è detto che, come intuì Keynes, il nuovo equilibrio necessariamente contemplerà la sopravvivenza di tutti.
Perchè allora non ci ribelliamo? Perchè ci manca, e ci manca anche perchè ce l'hanno gradatamente tolta, quella che Marx chiamava "coscienza di classe". Siamo tutti nella stessa barca, ma crediamo di no. E questo vale a tutti i livelli: ce la prendiamo col cinese che ha messo su il negozietto accanto al nostro anzichè con chi ha deciso e attuato questa globalizzazione, etichettiamo come federalismo un miope egoismo di bassa lega illudendoci di poter salvare il nostro culo mentre quello dei terroni affonda, e anche tra terroni terremotati e sfruttati piuttosto che marciare tutti assieme verso le residenze dei nostri sciacalli e mangiarceli vivi preferiamo vivacchiare sperando di riuscire a riscattare il nostro destino individuale fottendocene altamente di quello dei nostri sodali. D'altronde, come biasimarci? Presi uno a uno, ciascuno di noi, per ribellarsi, ha troppo da perdere. Ancora.
Le (poche) speranze che ci restano passano per una strettoia: che in molti cominciamo a capire che non occorre essere Chavez per combattere l'imperialismo monetarista che ci strangola. Leggete con attenzione questa "lettera degli economisti", docenti e ricercatori di Università o di Enti di ricerca nazionali ed esteri non certo pericolosi sovversivi: non parlano ancora di decrescita, che è l'unica salvezza per il pianeta, ma applicare quanto scrivono sarebbe un buon passo in avanti per la salvezza di questo Paese: diffondiamola, condividiamola.
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