mercoledì 30 giugno 2010

ZERO

So di crearmi tanti nemici, ma (contando anche sul fatto di avere pochi lettori) lo dico: non sopporto le canzoni "serie" di Renato Zero, un filone sempre più preponderante nella sua produzione, all'inizio molto più virata sull'ironico. Alcune, delle canzoni serie più vecchie, sono però belle, bisogna ammetterlo: Il cielo per esempio, e Il carrozzone. Proprio quest'ultimo pezzo, che da ragazzi per gioco si cantava - specie il ritornello - con le mani "in tasca", mi suona in testa da quando ho sentito della morte di Pietro Taricone.
Non ho mai visto il Grande Fratello, se mi credete, ma ovviamente alcuni dei personaggi della prima edizione li conosco, per via della enorme eco mediatica allora sollevata. Taricone, in particolare, si era segnalato per il modo evidentemente consapevole con cui impersonava il personaggio assegnatogli (spero non ci sia nessuno che ancora creda alla veridicità di certi show televisivi, almeno nessun adulto), che lasciava da subito intuire che la persona era in quello incontenibile, che "c'era di più". E infatti eccolo che a suo modo tenta subito di svicolare, poi si mette a studiare recitazione, mostrando risultati apprezzabili; ed anche il suo ménage con la bellissima Smutniak (anche lei rivelatasi molto più di sostanza rispetto alle premesse - di solito le modelle fattesi attrici non diventano brave come lei) sembrava, pur dalle miglia a cui mi tengo da quel mondo, non rispettare i codici e i copioni del gossip vippettaro.
Anche quando manteniamo la giusta distanza da essi, però, i personaggi che scegliamo di impersonare dicono qualcosa di quello che siamo davvero: ecco perchè non ci si stupiva a saperlo paracadutista. Uno sport ormai ritenuto così "sicuro" che una giovane coppia con figli piccoli può pensare di affrontarlo senza per questo pensare di rischiare di renderli orfani, ma che mantiene una certa dose di rischio "per natura": se ti lanci nel vuoto la tua salvezza è affidata a uno strumento e a come lo usi. Non voglio entrare nel merito di come lo usasse "il guerriero", lascio le indagini ai giornali e alla magistratura che dai rispettivi punti di vista se ne devono occupare, checchè ne dica qualcuno, voglio semmai utilizzare questa vicenda per una riflessione più generale. Perché evidentemente, se a fare paracadutismo, ma anche parapendio, deltaplano, immersioni, free climbing, o a volare con gli ultraleggeri, sono in tanti, ci deve essere sull'altro piatto della bilancia un qualcosa che pesa di più del suddetto rischio. E tutti noi abbiamo degli amici che fanno uno di questi o altri sport "estremi" a cui potremmo chiedere di spiegarcelo, a quattr'occhi, cos'è sto qualcosa. E forse in tanti abbiamo anche qualcuno che ce l'ha spiegato e adesso non ce lo può ripetere.
Io avevo due amici, così. Due grandi amici, due fratelli.
B. amava qualsiasi cosa corresse veloce, ed è morto tragicamente in moto, forse nemmeno a seguito di una manovra azzardata: semplicemente, se vai in moto, hai ics per cento di probabilità di avere sfortuna, e più ci vai più aumenta la probabilità pratica tua personale (quella teorica restando sempre una media statistica astratta). Questo vale per qualsiasi cosa noi facciamo, anche spicciare casa: gli incidenti domestici sono talmente probabili che le assicurazioni specifiche sono carissime (volare in aereo, al confronto, è sicurissimo, come dimostrano di nuovo le tariffe assicurative). Il mio amico questo tipo di ragionamento, che spinge a vivere comunque (sia pure con tutte le precauzioni del caso) le proprie passioni, lo sintetizzava con una frase semidialettale, come tale straordinariamente efficace: "mangia, che sarai mangiato". Questa e altre sue espressioni sono il suo viatico di "immortalità temporanea", è quello che si intende quando si dice "lo porto dentro di me": a una persona a cui sei stato abbastanza vicino da conoscere il suo "database di risposte" puoi continuare a fargli domande fino a che campi. Per facilitarmi le cose, tengo B. come sfondo del mio PC, ma è l'estrema romanticheria, il resto è vita: io dico sempre che non esiste modo migliore di onorare i morti che fare l'unica cosa che non possono più fare loro, vivere. L'ultima sera che uscii con B. andammo a sentire le cover dei Pink Floyd. La sera stessa che avevo avuto la notizia, c'era un concerto di Roger Waters allo Stadio Olimpico: altri sarebbero rimasti a casa, io sono andato al concerto immaginando di avere quattro orecchie e quattro occhi (che piangevano tutti e quattro, daccordo, ma intanto ero lì).
S. mi diceva spesso "quando moriamo noi, non sarà rimasto più nessuno a saper guidare le macchine", e si riferiva a se stesso a me e a B., con una di quelle frasi che sottintendono "tra cent'anni". Invece a me e ad S. è toccato piangere assieme B., che era più giovane di noi. Non so se fu una decisione consequenziale, forse no, ma S. dopo che B. ci lasciò fu catturato dalla passione del volo. Gli ultraleggeri hanno il livello di tecnologia di una 124 coupè degli anni 70, bisogna avere il "manico", e lui ce ne aveva così tanto che bruciò le tappe della scuola di volo (tanto che dopo solo un anno, quando ebbe l'incidente, era l'accompagnatore sul biposto di un socio più anziano che doveva prendere un brevetto che lui già aveva). In più, per quanta libertà tu possa avere guidando un'auto, ad esempio andando in pista dove non devi rispettare il codice stradale, vuoi mettere una roba dove hai tre dimensioni? Una giornata ho passato al campo volo con lui, un voletto di prova mi ha fatto fare, e mi aveva quasi convinto, contagiato come solo chi ha una passione vera e intima può fare con gli amici. Avessimo vissuto nella stessa città, come un tempo, mi sarei presto iscritto con lui; a Roma invece le distanze rendono tutto più complicato, e non c'era lui a trascinarmi: sono rimasto a terra. L'ultima volta che lo vidi mi strappò di mano un libro di Camilleri e me lo restituì poche ore dopo, avendolo finito. Il libro successivo del prolifico scrittore siciliano mi rapì un giorno di qualche mese dopo allo stesso modo, dovetti finirlo prima di posarlo: esattamente in quel lasso di tempo il suo aereo finiva dentro una nuvola e contro una roccia. Coincidenze, mi dico da allora, roba che chiunque può raccontarne di simili, così come di storie di persone care scomparse prematuramente in modo più o meno assurdo e repentino come quelle che vi ho appena raccontato io.
Ed ecco che da quota zero di un paracadute frenato tardi, di una moto che scivola e di un aereo che cade, da quota zero di uno che finora ha declinato le sue passioni rasoterra, mi si chiarisce scrivendo che non è Il carrozzone la canzone di Renato Zero che mi girava in testa. La morte è una, la vita è una, ed è una malattia mortale nel cento per cento dei casi, non puoi scegliere di non morire puoi però scegliere in una certa misura come vivere. La canzone è La tua idea, quella che comincia con "è meglio fingersi acrobati che sentirsi dei nani".

2 commenti:

S ha detto...

Standing ovation, dal giudizio sulle canzoni di Zero, al modo di onorare chi non c'è più, alla sottile, dolcissima e disperata sensazione che l'assenza si occupa di rendere presente (e questa è una mezza citazione baglionesca). Naturalmente ho letto trattenendo le perdite di liquido dei miei due occhi. :)

Gregorio Martino ha detto...

Ti vorrei abbracciare tanto forte da soffocarti. Mi hai fatto commuovere tanto! Sei tanto lucido quanto tenero. Un abbraccione ancora.

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