venerdì 1 agosto 2008

C'E' SOLO LA STRADA

Da un viaggetto organizzato in Tunisia, uno di quei pochi che noi pòoracci possiamo permetterci, non si può certo pretendere di avere un quadro sociologico preciso, che forse non basterebbe neanche trasferirsi lì per qualche mese. Tuttavia gironzolando si porta via una qualche impressione, una sorta di deja-vu: i bambini che giocano per strada, i bar con ai tavoli seduti solo uomini, poche donne in giro e con una destinazione precisa, molte solo se dirette a una funzione religiosa, tutte o quasi con un fazzoletto in testa, in giro poche vecchie auto scarburate (sto citando Argentina di Guccini) e vecchi camion, qualche apepiaggio e alcuni muli carichi.
Non è un ragionamento sulla globalizzazione, sul turismo ultima risorsa di certi territori postcoloniali, sulla situazione tunisina indubbiamente migliore di tante altre realtà simili e ciononostante al quotidiano confine della sopravvivenza, sui cambiamenti climatici e l'acqua che c'è sempre meno, niente. Solo una riflessione: se un italiano sulla quarantina, di origine meridionale, può avere un flashback così, vuol dire che la distanza non è poi tanta, e non sappiamo poi se la storia sia davvero unidirezionale.
E forse è meglio così: i figli della nostra società presunta superiore crescono chiusi dentro casa, davanti allo schermo di una tv o di un videogioco. Se giocano a pallone, è perchè i genitori li hanno iscritti a Calcio, hanno le magliette fighe e pseudoallenatori che li rincoglioniscono di birilli e schemi e ruoli e tattiche, papà e mamma a bordo campo che tifano urlano e tramano per un posto da titolare - meglio attaccante - del pargoletto (la corruzione e i favori sessuali imperano, basta farsi un giretto per constatarlo).
Ancora pochi decenni fa, si stava tutti in strada. A pallone, tutti si voleva giocare, e tutti all'attacco. Il portiere c'era se c'era uno incapace di giocare, consapevole di esserlo, e abbastanza remissivo - se no si giocava senza, o col "portiere volante" (uno autorizzato a rientrare in porta e toccare la palla con le mani, qualora servisse: non rientrava mai). Se eri portato, imparavi da solo o dai più bravi la tecnica, i trucchetti, e dal confronto col gruppo si formava il carattere dei futuri uomini, tra cui per selezione naturale emergevano i pochissimi che avrebbero fatto i calciatori.
Una paura spesso creata a tavolino ha indotto ragazzi cresciuti benissimo in questo brodo primordiale darwiniano che era la strada, a impedire ai propri figli di fare la stessa esperienza. Ma chi si fermasse a ricordare con ponderazione, scoprirebbe che la "sicurezza" così com'è definita oggi è una bufala mediatica, che quando i poveri eravamo noi aggressioni furtarelli pidocchi potevamo aspettarceli dai vicini di casa altro che dagli extracomunitari o dagli zingari.
E capiremmo che un popolo che vive nei soggiorni davanti al televisore anzichè in strada la maggior parte delle proprie crucialità, dalla crescita alle scelte politiche, è un popolo morto che non sa di esserlo. Risentitevi Gaber: c'è solo la strada.

1 commento:

Carlo Bertani ha detto...

Ti ringrazio per la tua vicinanza: fra l'altro, parte del contenuto di questo post ricorda il calcio di un tempo come io ho fatto in un pezzo scritto molti anni fa che si chiama "Il vice del pallone" e che troverai nel mio sito www.carlobertani.it nell'area "Attività letteraria". Curioso, come a distanza di anni e luoghi, raccontiamo le stesse cose.
La possibilità/dramma del Web è proprio questa: sensibilità affini, ma come raccogliere queste tante forze per contare qualcosa?
Con un gruppo di amici stiamo creando Italianova, un sito dichiaratamente di aggregazione politica. Contiamo molto sui tanti scrittori del Web. Speriamo.
Ciao e grazie
Carlo Bertani

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