venerdì 17 settembre 2010

NESSUNO TOCCHI ABELE

Allo squallore e alla gretezza non c'è migliore risposta che la poesia. Perciò questo post si chiude col testo e col video di una delle canzoni più belle mai scritte dall'immenso Fabrizio De Andrè (musica di Fossati) nell'intepretazione meravigliosa che ci ha regalato Ginevra Di Marco: Khorakhanè (a forza di essere vento). Ma prima necessita essere duri, e allora non risparmiamogliele, al nano francese (frettolosamente spalleggiato, per opportunismo elettoralistico ma anche per gratitudine nucleare, dal nano italiano), che dobbiamo ringraziare perchè ci vuole ogni tanto qualcuno che ci ricordi (e magari lo ricordi anche a quelli del PD, che litigano sul nulla) che differenza c'è tra destra e sinistra, ad esempio nella percezione del "diverso". Laddove "nano" non allude, come guardandoli potrebbe sembrare, alla statura in centimetri, che ovviamente nulla significa nonostante l'ironica battuta sempre di De Andrè a proposito di Un giudice che preconizzava un Ministro, bensì alla statura intellettuale e morale, che si dimostra una volta di più rasoterra.
Gli zingari, signori miei, sono il passato e il futuro dell'umanità, sono "il punto di vista di Dio", che per chi ci crede amava più Abele che appunto per invidia fu ucciso da Caino, e per chi non ci crede il racconto biblico è metafora del millenario scontro tra le civiltà nomadi e quelle stanziali, vinto "militarmente" da queste ultime. E il paradiso terrestre fuori di metafora era il mondo fin quando alla tribù retta dal matriarcato bastava raccogliere quello che trovava e cacciare gli animali nel territorio dove si era installata, per poi spostarsi da un'altra parte quando quel territorio non era più sufficiente lasciandolo a rigenerarsi. Mondo che entrò in crisi dove e quando la relativa scarsità di risorse rispetto alla popolazione provocò il bisogno che aguzzò l'ingegno degli uomini che divennero agricoltori e allevatori (e guerrieri e patriarcali). E lo scontro tra le due civiltà, tra Caino e Abele, arriva ai giorni nostri attraverso mille e mille fasi, ad esempio quando i Greci giunsero da noi in cerca di territori dove stanziarsi e scacciarono i nomadi italici cintando foci di fiumi e porti naturali, o quando i più affamati degli europei iniziarono la cosiddetta conquista del west a spese dei nomadi pellerossa perpetrando forse il più grande genocidio della storia umana. I quattro gatti che ai giorni nostri portano ancora tracce della cultura nomade, imbastardite dalla loro trasformazione in sottoproletariato urbano, sono invece ancora abbastanza numerosi, secondo i poveracci che li temono e i bastardi che rinfocolano e strumentalizzano questo timore, per giustificare persecuzioni, tanto loro non hanno nessuna lobby in grado di influire anche su Hollywood come gli ebrei, e l'olocausto degli zingari, impressionante per quanto minore per numero di morti - ma superiore in percentuale, non ce lo racconta nessun film.
Vaffanculo, bastardi razzisti, che state trascinando il mondo oltre che al degrado morale anche alla rovina materiale, riconsegnandolo così senza rendervene conto proprio ai nomadi, gli unici in grado di ripopolare la Terra quando la civiltà del petrolio e dell'uranio avrà finito di distruggerla.
Il cuore rallenta la testa cammina
in quel pozzo di piscio e cemento,
a quel campo strappato dal vento,
a forza di essere vento
porto il nome di tutti i battesimi,
ogni nome il sigillo di un lasciapassare,
per un guado, una terra, una nuvola, un canto,
un diamante nascosto nel pane,
per un solo dolcissimo umore del sangue,
per la stessa ragione del viaggio: viaggiare.
Il cuore rallenta e la testa cammina
in un buio di giostre in disuso,
qualche rom si è fermato - italiano -
come un rame a imbrunire su un muro.
Saper leggere il libro del mondo
con parole cangianti e nessuna scrittura,
nei sentieri costretti in un palmo di mano
i segreti che fanno paura,
finché un uomo ti incontra e non si riconosce
e ogni terra si accende e si arrende la pace.
I figli cadevano dal calendario,
Jugoslavia Polonia Ungheria,
i soldati prendevano tutti
e tutti buttavano via,
e poi Mirka a San Giorgio di maggio
tra le fiamme dei fiori a ridere e a bere,
e un sollievo di lacrime a invadere gli occhi
e dagli occhi cadere.
Ora alzatevi spose bambine
che è venuto il tempo di andare:
con le vene celesti dei polsi
anche oggi si va a caritare,
e se questo vuol dire rubare,
questo filo di pane tra miseria e sfortuna,
allo specchio di questa kampina
ai miei occhi limpidi come un addio
lo può dire soltanto chi sa di raccogliere in bocca
il punto di vista di Dio.
(Poserò la testa sulla tua spalla
e farò un sogno di mare,
e domani un fuoco di legna
perché l'aria azzurra diventi casa.
Chi sarà a raccontare?
Chi sarà?
Sarà chi rimane.
Io seguirò questo migrare,
seguirò questa corrente di ali.)

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